Metrica: interrogazione
598 endecasillabi (recitativo) in Candace Venezia, Rossetti, 1740 
                              Eh, non rinasce
Per tuo cenno real trasse il mio ferro
                                 Agatoclea,
a cui del tuo Lagide in fasce ancora
per tuo sovran comando ad essa il piede,
a l’estreme agonie, tepidi baci
sovra il volto imprimea del nato appena
abbastanza il dicea il di lei pianto.
traea sono innocente in culla d’oro.
col geloso suo pegno ivi era giunta,
su le fasce di porpora accogliea
più che le gemme onde copria le membra,
fede facean nel volto di Candace
il dolore, l’amore e lo spavento.
Questo io svenai e con il tuo Lagide,
in vivo testimon de la mia fede,
te ne recai l’esangue busto al piede.
ne la tua fede il mio terror; un sogno
in un fantasma il suo Evergete adora;
codesta idolatria, con cui l’Egitto
voti ribelli al sangue d’Aprio appende,
per cui quel sangue ancor veggasi in trono;
                                 E quale?
                                                    Empia Niceta,
de la stirpe abborrita ultimo tralcio,
Di tua gran mente il gran consiglio è degno.
Vanne, Tilame, e veggiami Candace.
Fausti girino gl’astri alla tua pace. (Parte)
e nemica e reina ecco Candace.
cangia, Candace, il tempo; un gran dolore
dopo lunga stagione illanguidisce.
Pace, pace o reina; e se su l’erto
e sovra cui il mio valor mi trasse,
degno de l’odio tuo ti sembro ancora,
ho su quel trono ancor di che placarti.
Scendine traditor e l’empia testa
così placa il mio sdegno e ti perdono.
in Amasi tu trovi; a tante offese
Co’ doni tuoi? Con la tua morte forse?
Col talamo real del mio Lagide
                                          Una mia figlia
Aggiungi d’un fellon, d’un parricida?
Di’ del suo re; con la corona in fronte
questo illustre carattere mi splende.
di tua sovranità; ma di Niceta
stirpe di parricidi al vasto Egitto.
Candace, olà, chi la clemenza abusa
ti vuo’ clemente sì ma la clemenza
dal sen mi svelse e trucidò sugli occhi
rendili, traditor, e ciò preceda
Il so, Candace, il so; questo Evergete,
vivo si cerca, il tuo furor nodrisce.
Vivo si cerca! Ah, cerchisi fra i sacri
Ah, se la frode mai d’astuta madre
                                 Come? Arte cotanta
resta ad un gran dolor? Vile t’intendo.
dal suo sepolcro o del gran sangue d’Aprio
illustre vanto; or va’, chiedi Niceta
senza tremarne; ell’ha nel petto ancora
                                     A tanto rischio
per la tua gloria espongo il figlio e nieghi
sino ad un tuo nemico un suo spavento?
di morir per la man d’una mia figlia.
                              Niceta, ascolta;
osa costui chiederti in moglie al suo
la turpe eredità; seco ti lascio
a trionfar del suo protervo orgoglio.
Il tuo dover coi sensi miei consiglia
e sappi ch’io son madre e tu sei figlia.
Garrisce invano, o principessa, il labbro
ove parla il sovran; t’addito un trono
di Lagide dal talamo tu salga.
il cadavere tuo, getti Lagide
dalle vene il tuo sangue; ed io vi salgo.
i suoi fulmini anch’essa ed un comando
ha per farsi ubbidir forza che basta.
più che la gloria sua, nol niego, ha forza;
tanta costanza; oggi sposa a Lagide
o domani al carnefice la testa.
Eccolo. Io già rifiuto il nodo indegno
ed a prezzo di lui la vita io sdegno.
                     Padre e signor, dove ho di parte
cercherem noi, signor, diritti al soglio
sul crine ti fermò l’ampia corona,
per custodirla a me non basta il mio?
in piena libertà di dare al trono
che il vantino in rettaggio e non in dono.
magnanimi del tuo genio sublime
ma il mio comando ha una ragion cui deve
ubbidienza il figlio e più la deve
Niceta, intendi, la mia legge è questa;
o domani al carnefice la testa.
da un disprezzo orgoglioso il mio rifiuto;
de l’alma mia; ma questo amor ricusa
fuori del tuo piacere il suo diletto;
e l’illustre amistà, che ad esso io devo,
mi vieta l’aspirar a ciò ch’è suo.
Amasi assolve ed io non veggo in esso
se guardo il padre tuo tutto il tiranno;
io trovo Aulete, e se ne miro il volto
Qual fausto grido, o principe, qual fama
empie la corte ed il mio sen di gioia?
tu ritorni reina e te ne inalza
Lagide che il mio cor teco divide.
ma la virtù del principe mi rende
lasciando in libertà gli affetti miei
a te mio ben che il solo re ne sei.
bassamente così ch’una corona
tolga a te l’amor mio, ch’egli contenda
amicizia mel vieta, amor nol vuole.
La fiamma, amico, onde tu avvampi amante,
degli occhi di Niceta è un vivo raggio.
Altri non può contaminarla, senza
il merito oltraggiar della tua fede.
Ma d’Amasi il comando...
                                                Egli minaccia
                                           O dei, che sento!
fia placare il suo sdegno; ad esso io vado.
Userò prieghi ed argomenti e quanto
numi d’amor e d’amicizia; e quando
svolger mai non potessi il rio consiglio
né vassallo son più né più son figlio.
un sol timore al misero cor mio
Tu consigliarmi a perderti? Potesti
pensarvi, ingrato, e dirlo ancor?
                                                           Niceta,
tanto io dovea, doveasi a tua grandezza,
questa de l’amor mio vittima illustre;
ma Lagide in virtù troppo m’avanza,
                                       Ma se il tiranno
                                            Ha l’amor nostro
                                       In esso io spero;
saprei prima morir che disamarti.
                                   Già d’Evergete
vivo favella il volgo e già il tiranno...
nel laccio ch’io gli tesi; io, donna eccelsa,
                                   Come?
                                                   Io stesso a l’empio
                                 Ah traditor, son questi
non doveasi affidar a la malnota
il destin d’Evergete; ad accertarla
questa fama giovò; dentro ogni core
s’applaude al vivo prence, il rio tiranno,
ne la sola mia fede il suo spavento;
e ad acchettar de’ popoli il tumulto
solo idoneo ministro egli mi crede;
il mio principe già fido adorai,
                                   Che? Lo stesso Aulete
                                         Ad esso ancora
Questi il tuo zelo? Il tuo silenzio io chiesi,
non l’opra tua, quello tradisti e questa
un traditor che a l’empio vanto ancora
                                       Ah mia reina...
Vanne fellon, del tradimento enorme,
l’atrocità con quel gran sangue ostenta.
veglia, o cuore di madre, al gran periglio
la doppia frode un certo asilo al figlio.
Eccolo, a l’armi, o cor.
                                         Con quale mai
nome più sacro, o donna augusta, io debba
oggi appellarti, il mio stupore incerto
io di te nato? E del grand’Aprio il sangue
miglior parte di me, sola speranza
del mio giusto dolor, dolce mio figlio;
l’arduo arcano scoprì, luogo non resta
cara reliquia, sei del mio tradito
signore e sposo; a te riserba il cielo
che ti guarda il mio amore ed il mio zelo.
Ma sì lunga stagion perché celarmi
                                      Non mai geloso
abbastanza è l’amore in cor di madre.
Ad immatura età non ben si affida
custodito segreto. Amasi vivo
non ben s’accheta e tutto il cor non cede.
Eh no madre, non più, non più si tema
il regnante furor, già tutto applaude
rapido ostenta al popolo, ai soldati
e prima ch’ei ti vegga, il ferro ei senta
del cuore traditor; a te s’aspetta,
figlio, d’Aprio la tua, la mia vendetta.
al tuo piede real un bacio imprima
e tale ardore in questo bacio io prenda
che del padre e di te degno mi renda.
fedelmente sui casi de’ monarchi,
il destin d’Evergete a voi consegno;
ch’Amasi non saprà dove lo sfogo
getti del suo furor; ei tema ed ami;
ei temerà nel suo nemico il figlio
ed amerà nel figlio il suo nemico.
due ne risparmi ed un ingiusto scempio
la gelosia del suo conservi il mio.
Non confinò più strettamente mai
col piacer il dolor che nel cor mio,
in te il german che piansi estinto; or quale
in te l’amante, o dio, qual maggior pena?
che interamente io non ti perda; abbraccia
una metà di me nel mio Lagide.
il renda l’amor mio ch’oggi gli cede
il dritto sovra i tuoi reali affetti.
di tua sovranità; sarò, qual vuoi,
sposa a Lagide allorch’io vegga il trono,
in te la mano onde a me viene il dono.
con Amasi le stelle; egli conosce
in te Evergete; fuggi e ti riserba
                                  O dei, tradito
                                             Incerto...
                                                                Ecco il tiranno.
un gran piacer; vive Evergete e desso
                                (Cieli che fia!)
Vanne Tilame e de l’armate genti
regola i moti ed il mio cenno attendi. (A parte a Tilame)
(pietoso cielo il mio signor difendi).
                        De la mia gloria ancora,
fellon, l’avrai; vive Evergete, vive
il tuo spavento, il tuo gastigo, il tuo
giudice, il tuo signore e quel son io.
(Ah qual nuovo argomento al dolor mio).
In mal punto il dicesti; a me quel brando.
Eccolo, o traditor, ma inerme ancora,
il nome d’Evergete occupa il core;
in ogni tazza; in ogni sonno avrai
un’insidia compagna, in ogni passo
e nodrirai nel cuor che porti in petto
l’orror, la gelosia, l’odio, il sospetto.
che d’armi io fossi e di valore ignudo,
del cadavero tuo mi farò scudo.
a cui date l’onor del vostro pianto?
debbo a la mia grandezza; e se ad Aulete
                                                   O caro sempre
martirio del cor mio, ti perdo amante,
ti ritrovo german; germano ancora
pene è pur poca una sol alma.
                                                       Eh cara,
volgo sovrasti, esercitiamla in questo
saper ch’io muoio grande e muoio tuo.
                                  Muoio Niceta;
non mi sia colpa e non mi sia bassezza,
se nel punto crudel del morir mio,
e del labbro e del cor, Niceta, addio. (Parte)
ravvisò d’Aprio il figlio e questi reca
la cervice real sotto a la scure
del barbaro tiranno ostia gelosa.
Figlia, nel mio dolor tutta non perdo
nel periglio imminente ad Evergete.
Ma perché mai d’incestuosi affetti
Del mio cauto pensiero un dì saprai
e son vicina a perderlo germano.
del viver suo; del Marte egizzio freme
minacciosa a suo pro la fede armata;
girerà, sì, per noi meno severa;
in me confida amata figlia e spera.
Qual più degno olocausto ad un tiranno
per suo comando? O mio felice inganno.
se ne usurpa il gran nome e te ne appella
tale dicesti; or qual di noi sen vanta
sino d’allor che il traditor Tilame
in sua vece svenò d’Agatoclea
quegli mi strinsi al sen, quello bagnai
del pianto che per te gettava il core;
ed ecco della mia frode felice
                             Aulete dunque, o madre,
ch’è una parte di me, fia che s’usurpi
                                      Senti qual fasto
d’Amasi è figlio Aulete; il padre istesso
                                     Qual nuovo orrore?
del tuo gran genitor a l’ombra augusta.
Debbo a la mia virtù, debbo a la legge
d’una sagra amistà, debbo a la gloria
che mi vien da la frode e da la strage
d’un traditore il figlio? E chiami amico
il sangue reo di chi t’uccise il padre?
la turpe eredità; né da me chiede
il genio d’Aprio una viltà plebea;
ad Amasi men vado; agli occhi suoi
il mio gran nome d’Evergete ostento.
Da un nemico crudel guarditi, o figlio. (Parte)
degno figlio di re. Seguo la luce
che mi deriva da’ paterni allori
il nome mio, la mia memoria onori.
giust’è che mora il mio spavento; e pure
io mi sento nel seno un certo affetto,
che lo direi pietà, se questa mai
potesse penetrar dentro il mio core.
una pietà importuna è spesso un tarlo
scusa signor, ogni delitto è illustre
la clemenza viltà; muoia Evergete,
con sensi del tuo core io nol difendo.
(L’arti del traditor tutte comprendo).
ma di publica strage o di secreta?
                                   Qual dubbio o sire?
Colpevole la sua secreta morte
nel giudizio de’ popoli ti rende,
l’ambizioso Aulete il nome altrui,
perché acclamato da l’insano grido
ei volesse balzar sovra il tuo soglio;
in pieno dì, ne l’ampio foro ei soffra
tu giudichi da re, non da tiranno.
sire, però che da’ tuoi fidi armati
perché s’accheti e non si speri inulto
di ciò che osasse il popolar tumulto,
de le tue guardie istesse...
                                                 Sì mio fido,
di tutto a te la gran condotta affido.
(La tua sorte, o fellon, in pugno io stringo).
a la nostra fortuna; idolatrava
rapito a l’ira mia e riserbato
a l’orgogliose sue, folli speranze,
non si dovea che il sangue nostro; il cielo
vegliò sui nostri casi; un de’ sedotti
miei vassalli soffrir non puote il suo
fatal rimorso e nel creduto figlio
d’Agatoclea m’espose il mio nemico;
oggi morire ei deve; io qui l’attendo
per ricever da me la fatal legge;
che la ragion de la corona e il sacro
                                     So ciò ch’io debba
a le mie fascie ed al mio grado; giova
ad Amasi che in trono oggi s’adora;
ei viva e regni; ed Evergete mora.
Mora Evergete! Intrepido riguardo
tutto l’orror de la mia morte; il solo
udir che dal tuo labbro, o mio Lagide,
urta la mia fortezza e disinganna
il fasto mio che si credea maggiore
                                Aulete, io non tradisco
ch’io condanno Evergete e il condannarlo
solo è degno di me; frena il cordoglio
già del fatal decreto io segno il foglio. (Va a scrivere)
chi balzarlo dal trono avea in disegno.
Scrivi, Lagide, un portentoso esempio
e con orrore il nostro mondo il vegga. (Dà il foglio ad Amasi e mentre questi il legge, egli va a sedere sotto il baldachino)
Ciò che scrisse Lagide Amasi legga.
in cui ti trasse un parricidio enorme,
oggi mora Evergete e quel son io».
                  Eh traditor, prenditi il tuo,
tale mi espongo al tuo furor, in questa
m’han posto i numi, empio, la fede augusta
de’ tuoi monarchi; via che tardi, spingi
di questa che ti cinge orribil schiera
o sino al più profondo del tuo core
ribelle, io porterò la mia vendetta;
ad ingombrar di me la real sede;
qui vieni traditor e qui mi svena;
a la grande tragedia, ecco la scena.
artificio d’amor, caro Lagide,
a la salvezza mia, la bella fronde
rendimi il mio gran nome, ho un core anch’io
che sa soffrir l’aspetto de la parca
ed ho virtù per spaventarla ancora;
in me tiranno, in me Evergete mora.
d’un’amistà sacrilega; Lagide
del folle ardir la pena. Aulete intanto,
d’un carnefice vil porti la testa.
egli è tuo figlio, a la real Candace
credilo traditor; essa mel disse.
                                 Aimé! Veggami tosto
sin da l’ora tessé che tu spingesti
il feroce Tilame a la mia strage.
Il figlio de l’estinta Agatoclea
stringeasi al sen per ingannar lo sdegno
del tuo ministro e me tra i freddi amplessi
d’Agatoclea lasciò qual vile avanzo
                                    Anzi in Aulete
contro l’ire del cielo e de la terra
vantati padre ed il tuo asilo afferra.
Vieni, Candace, vieni e a ciò ch’io chiedo
qual deve un mio vassallo ed io rispondo.
Madre, parlar tu dei, già tutto intese
                            Di questo tutto ancora
il più forse non sa né mai saprallo.
                                       Doveva il mio
giusto furor sagrificarlo a l’ombra
ei vive, il vedi, il senti e seco parli;
cercalo traditor ma il cerchi invano;
se il chiedi ad essi, una virtù gemella
forastiera al tuo sangue il suo mentisce;
se il chiedi a me, gelosamente io guardo
un segreto fatal da cui dipende
la vita d’Evergete e il tuo spavento.
Lagide, Aulete, in voi chi veggo? Veggo
in Lagide il mio figlio o il mio nemico?
Il nemico in Aulete od il mio figlio?
                           Vedi in Aulete il figlio
d’Aprio che tu svenasti e di Candace.
Reina, o dammi morte o dammi pace.
Pace mi chiedi? Aprio mi rendi, o mostro,
l’avrai dal tuo dolor ma col corteggio
di spasimi, d’orrori e di spaventi.
                                             Un tuo nemico.
                                               Forse il tuo sangue.
Aulete in queste braccia...
                                                 Il tuo sovrano?
                                              Forse il tuo figlio.
Sogno, deliro e non ho più consiglio.
sfoghi lo sdegno? In cui l’amor consoli?
Scegli fra d’essi il tuo, scegli il mio figlio,
abbraccia l’uno e l’altro svena.
                                                        Ah donna
d’ogni sfinge peggior, così schernisci
hai due serpi nel cor; ma tutto il core
non è lacero ancor; vuo’ che tel roda
tutto cordoglio sia, pena e tormento,
timor, odio, furor, ira e spavento.
                             Eccolo. (Gli getta al piede la spada)
                                            Guardie, a voi.
di’ del suo re, fellon; trarmi dal seno
e magnanimo e forte il cor potrai
ma il mio grande carattere non mai.
ne l’ampia rocca Aulete; ivi a consiglio
chiami il suo fato e l’inimico e il figlio.
Nello sceglier la vittima non erri,
tiranno, il tuo furor; nel mio Lagide
d’Aprio ne le mie vene e omai t’affretta.
O nimico, o Lagide, o figlio, o Aulete,
né padre più né più regnante io sono,
o vuoto parricidio, o infausto trono.
del tremante amor mio tutti i pensieri,
sollecita m’aggiro a voi d’intorno.
al pari del tiran, questi sospiri
al sol de l’alma mia ch’è in voi sepolto.
                                               O dio!
Del tiranno un comando a sé ci appella.
a l’amor tuo sciogli le labbra e lascia
ch’egli fra noi distingua il vero oggetto
Della nostra virtù sei ben sì certa
e di nostra amistà che a te non resta
cosa temer; ci additi il disinganno
chi sia figlio del re, chi del tiranno.
non vuol che un cor; se ad altri si diffonde
egli abborisce e l’esser suo confonde.
trovare in te tutto l’amor di madre?
Ei non sarebbe amor, se tu il trovassi.
ottenere da te di figlio il nome?
Lagide, Aulete, Amasi l’empio mora
il grave arcano io scoprirovvi allora.
del mio geloso amor l’arduo consiglio
                           Ah madre.
                                                 (Ah giunger veggo
Tilame l’infedel, seguiam nostr’arti). (A parte)
d’un figlio, in cui tutto innocenza è il cuore,
al materno tuo piè, concedi a queste
il fatal disinganno, Amasi intenda
in faccia del tiran vegga Evergete,
Aulete, in ambo egli ritrova un cuore
che il regio onor del sangue nostro ostenta;
basta ad Aprio ed a me ch’Amasi il tema.
Ah no reina, ah madre no, ten priego
genuflesso al tuo piè, togli Niceta
d’una morte crudel; a me concedi
la gloria di morir con tutto il fasto
per questo bacio, in cui di tutto il cuore (Le bacia la mano)
la mia virtude e la mia gloria adorna
e a fronte del tiran madre ritorna.
tale te dissi e tale dissi Aulete;
è d’Evergete la salvezza accolta.
(Mi scoppia il cor ma il traditor m’ascolta).
Chi parlò? Cui parlò? Che disse? E quale
m’abbandona Candace? E qual io resto?
in esso il genitor. Son d’Aprio il figlio?
Lagide io son, d’Amasi il figlio io sono?
Tiran prendi il tuo sangue e ti perdono. (Parte)
qual cor non vinceria? Povera madre!
Sventurato Evergete! Alla mia fede
Sì, sì farò per voi strage e vendetta.
luogo a l’arte di re; se di Lagide
l’amistà per Aulete è forse in lega
con l’amor di Candace, egli si tenti
col terribile più ch’abbia del sangue
l’alta ragion; e si ricerchi il figlio
in chi ostenta il nimico. Entri Lagide.
Spesso un grande spavento è un gran consiglio.
un facondo orator che ti difende;
ti collegò a Candace; e seco ordisti
da cui lo sdegno mio cerca lo scampo;
                       Non mi fan noto ancora
la maestà, con cui ti parlo, o gli atti
in me vedi il tuo re, lo temi e cerchi
qualche languido amor che ti ricopra
dal furor, da’ miei sudditi e dal zelo.
viver non ponno, una delle grand’ombre
in olocausto la vendetta attende.
Che tardi dunque? Ecco Evergete, adempi
il sacrificio memorando, io forte
il collo e il petto; ove più vuoi, ferisci.
più degna di perir. Io di me stesso
e giudice e carnefice, trarrommi
dal regio sen; perdo di padre il nome,
per cui non trovo in cuor di figlio amore;
la mia stanca fortuna ed il mio trono;
chi di me nacque; ecco già stringo il ferro,
già segno il colpo e la mia morte abbraccio. (Impugna il ferro mostrando volersi uccidere)
una bella clemenza ha il più del cuore;
                                   Resti a Lagide
il disonor d’aver mentito ancora
in onta a tutto il grido di natura
mio figlio il disse; ah perfido, ravviso
fu quella, che ti spinse a disarmarmi,
forza del sangue mio ch’hai nelle vene;
il cercò l’arte mia con la mentita
brama di morte e ritrovolla alfine.
                                                E che di peggio
                                  Ecco Evergete,
                            Eccolo, sì qual deve
un figlio d’Aprio e di Candace.
                                                         Tale
parlò natura e discoprì l’arcano,
è angusto per due re, la gelosia
di chi vi siede apre la tomba al fasto
di chi vanta ragion per risalirvi.
Morir tu devi; a voi soldati. (Le guardie si mettono in atto di ammazzar Lagide ed Evergete gettatosi d’innanzi ad esso col pugnale si mette in difesa del sudetto)
                                                    Indietro,
vel comanda Evergete e quello io sono.
Amasi, già t’assolve e ti perdona.
fu magnanimo senso e fu d’amico
generosa pietà; padre d’Aulete,
serbargli il padre; io ti guardai nemico
prender del regno mio da la clemenza.
e spronando la morte contro al figlio
ti cancelli il carattere di padre,
disingannati omai e ti ripprendi
il colpevole ferro; ecco tel rendo. (Gli getta a’ piedi il pugnale)
No, vivi traditor; volea Lagide
serbarmi il padre ancorché fiero ed empio.
tal ti parla il tuo re, tale Evergete;
se in me contempli il figlio o guardi Aulete.
(Arti del mio dolor siete perdute).
ovunque che tu sia disumanato,
apprenderò da te l’arte crudele
di Tebe e Colco; ed Amasi e Candace,
sul cadavere reo d’un figlio esangue,
divideran fra loro il lutto e il sangue.
siamo a noi stessi e contendiam fra noi
più ch’un regno, una morte.
                                                    E l’uno e l’altra,
se giovano a Lagide, a me son cari;
vo fastoso a la tomba e del mio regno
a te l’illustre eredità consegno;
mi palesa Candace, il suo nemico
vedrà il tiranno in me. Niceta. (Sopraviene Niceta)
                                                         In cui
veggo il fratello, o dio, veggo l’amante?
del gran dubio il tiranno e ci minaccia
Consola il tuo dolor, bella Niceta;
il soave tuo amor ecco in Aulete.
Parte Lagide, o Aulete, e sola il siegue
quella parte di me ch’ha più del forte,
quella ch’ha più del tenero si arresta
da’ tuoi begli occhi mi ritorna al core;
né mi sa favellar fuor che d’amore.
Se ascoltassi il mio cor, cara Niceta,
fuorché bella, adorata, amante e sposa;
di mia virtù; quantunque lento ei parli,
resta a Lagide, o mio soave amore,
che col dolce tuo sposo assisa a canto
quel de’ begli occhi tuoi mesci al suo pianto.
Di natura e d’amor forti argomenti
vogliono il mio dolor, pure io nol sento
con tutto il suo vigor dentro al mio core;
un raggio, incerto sì ma che è pur raggio
lusingando mi va; né di quest’alma
lascia tutta al timor turbar la calma.
questo ostinato amore a me non tolga
la gloria di morir fra le tue braccia
col mio gran nome d’Evergete in fronte.
d’esser figlio al tiran gl’ignobil sorte.
delle viscere tue l’illustre parto,
Amasi tremerà solo al gran nome
                               È intempestivo ancora
questo vostro desio; verrà quel tempo
vi scoprirò l’industrioso inganno.
Reina, il traditor, l’empio Tilame
né avanza che il tuo cenno a la sua morte.
rivolta altrove la feroce schiera
il popolo fedel a l’alta impresa
                                   Io dimostrarlo? Ancora
                           Su via credilo, o tigre;
son tradito, son vinto e prigioniero;
con tutto il tuo furor, tutto a te lice,
la parca incontro; e se mi fia concesso
stringerlo al sen, con tutto il fasto ancora
tra le braccia del figlio Amasi mora.
gonfia, o madre, è la regia e ognun l’acclama.
dentro l’ambrosia ancor temasi il tosco;
chiara abbastanza ancor? Parlano poco
quelle catene e quel dolor? Favelli
sugli occhi tuoi già del tiranno in petto
a l’anima perduta apro la via. (Si mette in atto di uccidere Amasi)
                                         Ah no, non sia. (Trattenendo Tilame)
                Aulete.
                                Amasi fra di noi
                                       Or dunque Amasi ascolta,
è il mio figlio Evergete, il tuo sovrano
eccoti Aulete e in esso affissa il ciglio.
de le viscere mie parte più cara,
e nel punto fatal del morir mio,
prendi dal padre tuo l’ultimo addio.
e se t’è grave ancora il pentimento
de’ passati delitti, io te n’assolvo,
vivi a te, vivi a noi, vivi a Lagide
                                        O portentosa
pietà d’un regio seno! Or sì condanno,
signor, se tu m’assolvi, i miei delitti
                                           No; sorgi amico,
tutta la luce ancor de la corona
sì lieto giorno ad Amasi non tolga.
Ne ritenga un riverbero ne’ sacri
sponsali di Niceta e di Lagide,
germana, l’amor tuo e lo riposi
di Lagide nel seno; ei fia tuo sposo.
questo illustre pensiero; ed io v’applaudo
che cede alla tua gloria, il mio dispetto.
mio dolce sposo, io già ti stringo al petto.
Principessa adorata al sen ti stringo.
O soave piacer d’alta vicenda.
sciolgasi il voto e vie più sacro il renda.

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