fortunato per voi. Prencipe, alfine
consolato sarete. Il vostro affetto,
penetrai, non mi spiacque e fui contento.
Delle vostre dolcezze ecco il momento.
son del vostro piacer. So quanto amaro
quanto mi costi d’Alboino il core.
Sire, donna real, grazie a voi rendo
per cotanta bontà. La cara sposa
e di gioia e d’affetto ho il cor ripieno.
della regia cognata ammiro e lodo
l’alta clemenza e del mio fato or godo.
parte romita, ove abitar io soglio
nella calda stagion, godremo in pace
giorni lieti e tranquilli. Io le regali
cure depongo ed a cacciar le belve,
ed ai gioch’innocenti mi preparo,
ch’ogni piacer, qualor diletta, è caro.
Tutto grato mi fia, nulla noioso,
Sempre lieto il mio cor mi balza in petto,
quando sono vicina al mio diletto.
senza il morso crudel di gelosia!
tutti fé, tutti amor, tutti costanza,
lontani ormai dalla odierna usanza.
ma se meno mi amasse il caro sposo,
giustamente il mio cor saria geloso.
pria di trovarmi al caro laccio unita,
non vorrà incrudelir contro il mio core.
Ciò che si cela in cor palesa il labro.
l’amo, l’adoro e mai non è contenta.
Deh per amor del cielo, Aurelia cara,
Son giovinetta, è ver, ma non son sciocca.
le nostre donne non saran gelose.
qualche vaga beltà da far portenti.
Una, sire, ve n’è fra l’altre tante
che la regina potria far gelosa.
moglie d’un certo Bertoldin ch’è figlio
del famoso Bertoldo, a voi ben noto,
vecchio d’alta malizia e di gran senno,
ed ha un figlio chiamato Cacassenno.
Divertirmi e non altro oggi pretendo.
V’obbedirò; (la commissione intendo).
il buon vecchio Bertoldo. Egli ha saputo
a venirvi a veder l’ha consigliato.
Innanzi a me non parlerà sì altero.
usar non sa delle creanze il modo;
ma so che col villan tristo e briccone,
se la ragion non val, s’usa il bastone.
Riverisco, o signor, con umiltà,
non già voi ma la vostra maestà.
v’apprezzo come re di questo impero
ma come uomo non vi stimo un zero.
meritar non potrei da te rispetto?
levatevi il vestito inargentato
e vedrete che pari è il nostro stato.
per libero parlar formò natura.
Quel che sento nel cor dico a drittura.
So che sincerità fra voi non s’usa,
la bella verità sen va raminga;
chi grazie vuol sperar dal suo sovrano;
so che l’uomo da ben fatica invano.
dico quel che mi pare e quel che sento.
(L’audacia di costui non è disgiunta
da un maturo consiglio). Amico, io lodo
la tua sincerità. Ti bramo in corte.
S’io venissi colà, povero voi.
Poveri i cortiggiani. In poco tempo,
scoprir vorrei, con il mio capo tondo,
i vizi della corte a tutto il mondo.
Non mi fate parlar. Segrete trame,
sdegni, amori, rapine e crudeltà...
Non mi fate parlar per carità.
Tutto tor mi potrebbe un re severo
ma non la libertà di dire il vero.
Adunque in povertà viver tu vuoi?
io, che raccolgo della terra il frutto,
mangio e bevo a mia voglia e faccio tutto.
e la testa e le gambe come me.
Dunque tanto è il villano quanto il re.
e se un tale parlar vi dà dolore,
io dunque me ne vado e v’ho nel core.
E sdegni di cavarti il tuo capello?
né la vostra maestà potrà sanarmi.
Qua non s’usa fra voi la civiltà?
Queste sono pazzie della città.
Non mi spiace costui. Felice il mondo,
se parlasse ciascun con libertà.
Povera verità da noi sbandita!
Eccola in questa parte erma e romita.
che a me torni Bertoldo e seco venga
povera verità da noi sbandita!
Eccola in questa parte erma e romita.
difendetemi voi dalla regina
e a’ vostri piedi condurrò Menghina. (Parte)
Ah sì, purtroppo è ver che di Menghina
lo spirto e la beltà m’alletta e piace.
Erminio non lo sa. Crede che nuova
m’abbia agli occhi apparir la sua bellezza;
ed è quest’alma ad adorarla avvezza.
non ha di quest’amor verun indizio,
peraltro andria la corte in precipizio.
volendola vicina al fianco mio;
comincia sul mio cor a prender forza
e a poco a poco a delirar mi sforza.
Vorrei che mi donaste un castagnaccio.
pare appunto, Menghina, il mio ritratto.
Veramente tu sei caro e bellino.
questo de’ nostri amori è il dolce frutto,
ed avrà con il tempo il mio cervello.
Vien qua. Cos’hai là dentro?
Lasciale, dico, o ch’io ti batterò.
Prenditi mascalzone una guanciata.
qualche cosa di buono. In questa guisa
L’uno all’altro nasconde il lor difetto.
E li rovinan poi per troppo affetto.
Ho inteso dir più volte da mio padre:
«Delle femine questa è la dottrina,
l’ago, il fuso, la rocca e la cuccina».
Son donna, è vero, è ver, son nata vile
qual fu la madre tua saggia Marcolfa,
andar potessi in corte. Io ti prometto
che vorrei mi portassero rispetto.
Orsù, finché si cuociano i fagiuoli
ed io raccoglierò di questa erbetta.
(Con costui mi vergogno). Signor no.
io v’ho sentito colle orecchie mie.
Non istà ben a dir delle bugie.
a ritrovarti d’ordine del re.
Questo re, questo reo, che vuol da me?
E cos’è questa corte? È maschio o femina,
ed in essa farai la tua fortuna.
Io farò la fortuna? Oh questa è bella.
Tanti anni son che la fortuna è fatta.
Che ne dici Menghina? Oh bestia matta!
so l’innocenza sua. Ma voi, Menghina,
ricusate accettar la regia offerta?
quel cavalier mi vuol guidar in corte;
e ti vorrian far far la corteggiana.
Male non sospettar. Starà Menghina
sanno far le mezzane anco al consorte?
Ma il re commanda ed obbedir tu dei.
forse migliorarem la nostra sorte.
senza un po’ di solazzo, e finalmente
poco si mangia e non si avvanza niente.
Sì sì, sentito ho a dir che in la città
che senza faticar sazia sue voglie
col beneficio d’una bella moglie
povero esser vorrei, non poveretto.
chi giudizio non ha si rompe il collo.
Il soverchio timor la donna offende;
la donna tormentar con gelosia
quello gl’insegna a far che non faria.
Quando dunqu’è così, vattene pure.
voglio dal padre mio qualche consiglio.
E vuo’ meco condur anco mio figlio.
Via su, venite. (A Menghina)
del costume civil son informata.
vorrei andar e non vorrei andare;
partir vorrei... ma poi vorrei restare;
s’io vado innanzi al re cosa farò?
Ei mi farà paura, io tremerò.
Ma se qui resto a far i fatti miei,
senza di me cosa farà colei?
e parlare sarebbe una increanza...
in corte vi sarà su tal proposito.
Ma s’io vado... e se vedo... e se mi scotta...
Farò quel che da tanti a far io sento.
Sofrirò, tacerò per complimento.
possa lungi da me star il mio sposo?
Ahi che meno amoroso io lo pavento.
lasciar non mi solea. Purtroppo è vero,
doppo quei giorni del primier diletto
si stanca l’uom del maritale affetto.
men lontano da me traresti l’ore.
frutto de’ nostri coniugali amori;
mostra spirto real ne’ suoi prim’anni.
più non mi doglio, se l’amata figlia,
gli amplessi mi usurpò del genitore.
Lieto son io del vostro amor; conosco,
cara, quanto mi amate e quanta pena
vi prendete per me. Grato ne sono
vi lasciasse goder tutto il contento,
senza provar di gelosia il tormento.
amarvi e non morir di gelosia.
Nuova spezie di pena io provo al core,
non trovando pietà nel caro oggetto.
Io tormentato son dal troppo affetto.
Fo riverenza a vostra maestà...
mostra che voi di me prendete gioco,
mentre cara non son ma vaglio poco.
Bella vivacità; dunque comprarvi
per vendermi, signor; già son venduta.
Vostra non son ma vostra è la regina.
Ed io, purché l’onor non abbia intoppi,
mi lascierò innalzar fin sopra i coppi.
Chi siete voi? Che fate con mia moglie?
io credevo che foste un gran gigante.
per il poter che sovra gli altri stende.
che vogliate il poter stender ancora
Con buona grazia di vusignoria.
stenderà il suo poter sovra di te.
che contento sarai. Olà, si porti
ma, se fa il pazzo e al voler mio s’oppone,
sopra di lui s’adoperi il bastone. (Parte)
o provar il bastone. Ah moglie mia,
questi son tanti pazzi; andiamo via.
Andiamo, andiamo... Ohimè chi son costoro?
Che volete da me? Non vuo’ spogliarmi.
No no no, sì sì sì, come volete. (I servidori vano vestendo Bertoldino ed egli si leva lamentando)
mi diranno le genti: «Guarda l’orso». (I servidori lo salutano e partono)
Aiuto, padre mio; m’hanno tradito.
Perché piangi, babbion? Di che ti lagni?
che importa comparir buffone o matto?
Tutti, tutti vi mando e qui mi spoglio.
vestì spoglia civil Menghina bella.
Se la vedi, signor, non par più quella.
a sostener il ben chi soffrì il male;
non si ricorda più qual prima è stata.
Purtroppo è ver. Menghina in un momento
il rustico accopiando al maestoso,
un personaggio fa molto grazioso.
Eh tenete celato il vostro affetto.
e tutto fo per mantenerla in fede.
villanella non più ma cittadina.
E di fare lo stesso io non ricuso.
Lo so, lo so; tal complimento è in uso.
quest’abito non è fatto alla moda;
per bella comparir rompersi l’ossa.
farsi bella con arte invan procura.
Lei m’adula, signor, e pur mi piace.
e si tratta fra noi con confidenza.
Lasciate ch’ambidue vi stringa al petto.
Sì, signori, con l’irvi e con l’ararvi.
tu mi rassembri un cavaglier francese.
francese, padron mio, sarete voi.
Signor re, mio padron, con sua licenza. (Entra in mezzo fra il re e Menghina)
Ognuno puote ricercar il suo.
Purtroppo tal egli è per mia disgrazia.
Gnorsì... con buona grazia. (Va tra Erminio e Menghina)
Vorrei saper da voi... (A Menghina)
Di che ti lagni mai? (A Bertoldino)
Lasciatel dire. (A Menghina)
Oh razza porca, la vogliam finire?
o ti faccio provare il mio bastone.
asinaccio vestito in ricche spoglie,
non sei degno d’aver sì bella moglie. (Passa dalla parte di Menghina)
Son fida, onesta son più che non credi;
a questi due, non è gran stravaganza.
Della donna civil questa è l’usanza.
tu civile non sei né criminale.
Non far fracasso. (Alza il bastone)
L’ossa ti romperò, se non vai via. (Alza il bastone)
E andartene tu dei da questa stanza.
E pur con tutti li diffetti suoi
Intendami chi può, che m’intend’io.
Mi rallegro con voi, signore sposo.
Sono le nostre spose e voi vedendo
l’una l’altra di voi s’è ingelosita.
sì belli e sì graziosi. Io di marito
uno ne ho che fa le parti sue
e non lo cangierei con tutti due.
bella fé, bell’amor, bella costanza!
perdon vi chiedo. Io non offesi, o cara,
l’amor mio, la mia fé. V’amo, v’adoro.
l’affetto coniugale, Erminio il dica.
vi dirà che son fido e ch’io scherzai.
Conosco l’arte e invan vi lusingate
ch’io presti fede al labro lusinghiero.
Quel ch’io vidi ed intesi è troppo vero.
(E cedere non vuol? Partir conviene).
s’io v’offesi con voglia empia e impudica
o se vi son fedele Erminio il dica.
voi delle sue follie siete cagione.
d’altra fiamma accendete il core insano?
Parto per non udirvi, o menzognero. (Parte)
Seguo la bella mia che fugge irata. (Parte)
m’abbandona ciascun e mi deride
e il dolor mi tormenta e non m’uccide?
vieni, spietato, a lacerarmi il core.
qua ferisci ed impiaga, alma crudele,
svena colle tue man la tua fedele.
che tu sei... che son io... Ma che ragiono?
Spargo al vento i sospiri e folle io sono.
Oh poveraccio me, cosa sarà?
Ho perduta la mama ed il papà.
M’è stato detto che eran qui venuti
e sento che la fame mi divora.
Fra tante belle cose mi confondo;
parmi d’esser passato all’altro mondo.
Figlia sarà di qualche villan grasso.
Olà, che fai tu qui, brutto villano?
ti conosco che sei quel bernardone.
qualche cosa nel grugno vi darò.
no no, non farò più. Facciamo pace.
il re mio padre e non mi lasci stare,
ch’io ti faccio ben bene bastonare.
È picciola e vuol far la braghessona.
Io son solo, signor, non siamo sei.
vedete, uom non son, son un ragazzo.
Non si pela mio padre; oh questa è bella!
vorrei fuggir, se si voltasse in là).
Guardate. (Lo fa voltar dall’altra parte)
Dove vai? (S’accorge che vuol fuggir e lo ferma)
Son qua, son qua. (Tremante)
e si vede che avete il capo tondo.
Vuo’ cercar la mia mamma e il mio papà.
questa dinanzi al re vaga figura).
Ho paura di qualche tradimento.
prendi questi dinari e questi dolci;
mangia, godi, trastulla e non temere.
Cose buone? Denari! Oh che piacere,
me li donate a me? Son tutti miei?
Mamma, venite pur tutta giuliva.
Cose dolci e dinari? Evviva, evviva.
Oh gran semplicità! Piacer non poco
Egli riesce grazioso, ancorché pazzo.
il figlio è fra l’astuto ed il minchione.
Ma quest’ultimo pien di balordagine
la quinta essenza egli è della goffagine.
Anch’io ne goderei se Aurelia mia
Le donne non ci lascian aver bene.
non si può andar a letto quand’un vuole.
tutto si deve far con sua licenza,
anche quando vogliam... con riverenza.
cotesto lume? Sarà stato il vento.
mi ho sentito nel cor dare un martello;
voi siete agli occhi miei vezzoso e bello.
(Certamente costei mi prende in fallo).
Eccomi qua da voi tutta contenta.
tutte le cose mie le faccio al scuro.
(Fosse mai qualche vecchia? Eh non lo curo.
Bella o brutta che sia, siamo all’oscuro).
(Che fa mio padre colla lume spenta?)
Vado a prender un lume e adesso torno). (Parte)
Venite, anima mia, fra queste braccia. (Bertoldino torna col lume)
Messer padre gentil, bon pro vi faccia.
Era sol di scherzar il mio pensiero
ma il vecchietto però faria da vero.
Or la biscia ha beccato il ciarlatano. (Parte)
e che il vecchio alla fin torna ragazzo.
o ti rompo sul capo il mio bastone.
si divertiva il buon vecchietto al scuro.
Perché lo son venuto a disturbare,
mi vuol romper la testa ed ammazzare.
Io maestro di beffe ognor son stato
e da una donna ho da restar beffato?
Ma Bertoldo non son, se non mi vendico.
e la notte è la madre de’ pensieri.
Questa volta ti giuro, ragazzaccia,
che rendere ti vuo’ pan per focaccia.
non è infido il german, siete ingannata.
S’ingannò il vostro sguardo ed anco il mio.
né dal re né da Erminio. Ell’affettando
vezzi, grazie e beltà, serve di gioco
ride ognuno di lei ma non sospira.
Dunque che far degg’io? Sarà irritato
poco soglion durar. Due parolette,
fanno tosto placar i più sdegnosi.
Volesse il ciel che l’idol mio placato
potessi riveder ma, oh dei! sen viene
e sdegnato mi sembra; io sento il core
fra la speme agitato e fra il timore.
che mi torna nel sen l’alma smarita.
de’ miei trasporti e de’ furori miei?
Non facendo così non v’amerei.
che fido mi crediate e son contento
ed io tutto in piacer cangio il tormento.
Siete dell’amor mio certo e sicuro;
nasce dal troppo amore il mio spavento.
goder giorni tranquilli a voi unita,
non mi conoscerà Menghina al certo.
E vestito così mi crederà
qualche gran cavalier della città.
Procurerò star ritto più ch’io posso.
S’ella di notte a scuro mi ha burlato,
io mi sarò di giorno vendicato;
a far da giovinotto ho da forzarmi.
A me questo, signor? Troppo mi onora.
Anzi lei, anzi lei, mi meraviglio.
(Parmi questo signor di me invaghito).
(La buona donna accetteria il partito).
Sono un adorator del vostro bello.
Cara, quel che vogl’io voi lo saprete.
Senza malizia amar credo si possa.
(Eccola con un altro cavaliere.
Datemi almen la man per carità.
Io la man vi darò per civiltà.
se questa moglie mia sì spiritosa
è del marito suo punto gelosa). (Parte)
Io mi chiamo il marchese Papafico.
Lei puol comandare. (Torna Bertoldino con Cacasenno)
(Vieni meco; sta’ zitto e non parlare).
(Chetati, animalaccio, o ti bastono).
Badate ai fatti vostri, io bado ai miei.
Dice bene, lasciate che ognun goda,
Badate ai fatti vostri, io bado ai miei.
Indegno... (A Bertoldino)
Taci tu, che taccio anch’io. (A Menghina)
Sposo e signor, questo piacer vi chiedo,
questa rustica gente, a noi vicina.
Io non posso soffrir quella Menghina.
(Già comprendo il perché).
che donna vil, di rustico natale,
sia veduta occupar stanza reale.
(L’intendete signor?) (Piano al re)
dal medesimo mal). Sposa, germana,
questa gente che a voi reca disaggio
lungi da queste soglie al lor villaggio.
Itene, Erminio, e i preparati doni
fate quivi recar; poscia guidate
Bertoldo, Bertoldin, la moglie e il figlio.
Il vostro cenno ad essequir non tardo.
(Han queste donne avvelenato il guardo).
per esiger da voi premio o mercede?
che privarvene ancora vi dispiace.
più di me vi conosce. Io non vorrei...
Non giuraste testé, mia cara sposa,
Se Menghina da me franco allontano,
ch’arda per lei voi paventate invano.
allor certa sarò del vostro affetto.
quando lo sposo mio costante mi ama.
Vada, vada Menghina, alfin la sposa
e i Bertoldi son qui, come imponesti.
ma consolati almen. (Il re ed Erminio siedono)
la maestà vostra, che vuol dire il re?
Dei ritornar al tuo nativo albergo.
Vado contento e già vi volto il tergo.
prenditi per regalo quel dinaro.
con un dono più bello il vostro dono.
Venga Menghina. Questo astuto vecchio
Almeno il labro suo parla sincero.
Eccoci qui, baroni come prima.
di dovervi lasciar ma l’uopo il chiede;
prendete quelle perle, io ve le dono.
di vostra maestà. Sarà finita
della regina alfin la gelosia.
Vi faccio riverenza e vado via.
Anche questa ha voluto in conclusione
Fermati, dove vai? (Dietro Cacassenno)
Non me n’importa un fico.
Signora maestà, voi la vedete,
Io le creanze e le virtù gl’insegno
ma lui per imparar non ha il mio ingegno.
che un uom, come sei tu, d’alto consiglio,
abbia prodotto s’ignorante un figlio.
quelle paste sfogliate a Cacassenno.
latte, rape, fagiuoi, pomi e polenta.
Soddisfarlo conviene. Itene tosto,
di rape, di fagiuoi, pomi e polenta.
Maledetto quel re che m’ha chiamato.
che la mia protezion sia stata vana,
una ricca ti dono aurea collana.
A me mi basta che per cortesia
voi mi lasciate star la moglie mia.
Sì sì, non dubitar. Ma tu ricusi
quand’uno vuol donar, piglio a drittura.
Or vanne, Erminio, dalle nostre spose,
ch’oggi si partirà. Che per godere
non piccolo piacer vengan con noi
a rimirar qui nel vicin contorno
ritornar i Bertoldi al lor soggiorno.
Oggi spero veder due spose liete.
Sì, rendo grazie al ciel che dal mio petto
tutto alfin discacciai; e riconosco
la salute del cor dall’amorosa
molesta gelosia della mia sposa.
cresceami in sen, m’inceneriva il foco.
dove noi goderem vita contenta.
Mamma, venite a farmi la polenta. (Vanno tutti quattro su la collina alla capanna, cantando)
tutta allegra e contenta.
l’amor di libertà scolpito in fronte.
A chi è avvezzo a goder vita sì amena
il viver alla corte è dura pena.
cangierei con costor il stato mio.
senza pensieri in placido soggiorno.