Metrica: interrogazione
577 endecasillabi (recitativo) in Statira Venezia, Rossetti, 1741 
Basta, basta, Artabano, io de’ consigli
d’uopo non ho per divenir seguace
d’un desio che mi sprona; oppressa e vinta
debellar faticai, più non mi porge
la smarrita virtù l’antico freno.
acceso già di quest’amor rubello,
quel che aggiugner procuri ardor novello.
Dunque che tardi all’adorato Arbace
                                     Questo è quel passo
                                        Regina, imponi,
                                       Ah sì, Artabano,
vanne incontro ad Arbace, egli a momenti
giugnerà nella reggia. A lui tu stesso
svela... Ma no, non vuo’ scoprirmi ancora.
Perdonami, cotesta repugnanza
                                         E pur dovresti
compatir il mio stato. Amar Arbace
è un delitto per me; sposo a Rosane
Dario lo destinò. Pronuba elesse
me di tal imeneo. Tradir Rosane
l’onor mio non consente. Amar il prence
mi sollecita il cor. Confusa, incerta
fra il dovere e l’amor mi struggo e sfaccio;
son rea, se parlo, e morirò, s’io taccio.
Quello del proprio cuor parmi il maggiore
de’ stimoli, o regina. È facil troppo
l’esiggere pietà dal mondo tutto
ai deliri d’amor. Crescer potrebbe
sino alla morte il tuo dolor. Alfine
dal tuo cenno Rosane. Arbace forse
non disaprova nel suo cuore il cambio;
Persepoli ti adora. Il popol tutto
(Se d’Arbace è costei, Rosane è mia). (Da sé)
Ah purtroppo gl’è ver; d’amor la fiamma
d’uopo non ha perché si desti in seno
dell’umano voler, nasce con noi
de’ funesti deliri. In me destossi
all’incontro fatal de’ vivi lumi
ma nacque al nascer mio cotesta face.
finché visse il mio sposo; or ch’egli è estinto
freno il cor più non soffre; amore ha vinto.
giunse Arbace alla reggia.
                                                E il caro sposo
                                         A me vederlo
lungi dal fianco tuo so che non lice;
l’incontrerò. Vedi che giugne.
                                                       (Oh dei!
Più vago agl’occhi miei ritorna Arbace). (Da sé)
(Più ch’io miro quel volto, ei men mi piace). (Da sé)
un tuo fido vassallo ecco s’inchina.
Principe, sorgi ed i trionfi tuoi
che son dal regno al tuo valor dovuti.
(Mi perdo, oh dio! se più lo miro). (Da sé)
                                                                 Alfine
gionsero a provocar... Ma qui Rosane?
a te non volsi inavertito il guardo.
Generoso favor non è mai tardo.
destinato alle nozze; io non vorrei
il rimprovero udir di tardo amante.
un secolo formar suol chi ben ama.
Un saggio cor sa moderar la brama.
                                  Forzata forse
a me porge la destra? Odi, Rosane,
non m’ingannar, non ingannarti. Il padre
a me ti destinò; contento io venni
il nodo a stabilir. Ma se ripugna
il tuo voler, non soffrirò che venghi
                                     Un cor di figlia
coll’obbedienza il suo voler consiglia.
                                          Ignoto ancora
è al mio cuor questo nume.
                                                   Oh rara al mondo
amabile inocenza! Oh quanto accresci
                                     (Quanto, Rosane,
quanto invidio il tuo stato!)
                                                    Odi; poss’io (A Rosane)
sperar pietà, se non conosci amore?
forse un giorno amerò (ma non Arbace). (Da sé)
                                       Non son del tutto
                                Se la fredezza
di Rosane appagar puote il tuo foco,
perdonami, signore, ami ben poco.
ma che puoi vagheggiar? Di donna i lumi
vaghi non son, se dell’interno ardore
non ostentan la fiamma; invan si loda
il dolce nome proferir d’amore;
che non senta d’amor la viva face.
Dimmi almen la cagion per cui tu l’ami.
allo sposo la sposa e l’amo quanto
esigge dal mio cor. Però sì poco
parlai seco d’amor, finor sì poco
ch’io non sono di lei perduto amante.
                                          No, se alimento
il foco di Rosane a lei prestasse.
alla tua fedeltà stimolo eletto?
Mancherebbe anch’in me forse l’affetto.
del reale voler di Dario estinto,
principe, io son. Non è voler di Dario
a forzato imeneo. Tutto sospendo
e libertade ai vostri cori io rendo.
Tal favella Statira? Ella a cui spetta
dell’estinto signor la data legge
far ossequir; non son senza mistero
di Statira gl’accenti. A lei ben noto
sarà il cor di Rosane e d’altro foco
prevenuto il saprà. Pietà la move
del mio cuore a parlar. Tanto mi basta;
comprendo il mio destin. Misero Arbace,
ciecamente m’esposi? Assai di morte
vita è peggior quella che sposo odiato
soffre languendo a ingrata sposa allato.
di celeste pietà sottratto io fui,
e mi riduco a deplorar l’altrui.
                             Dove, Learco, dove
                        Vado a morire altrove.
                                    Perché non soffre
rimirarti vicina ad altro sposo.
                                         Pochi momenti
restano, ingrata, a stabilir il nodo.
No, soffrirlo non so; Rosane, addio.
con quell’autorità che sul tuo cuore
Mi conviene obbedir. Ma poi, se resto,
                                          Della speranza
                                Ma se d’Arbace al nodo
acconsente il tuo cor quale lusinga
Sposa d’Arbace io non divenni ancora.
che Learco anteponi ad uno sposo
dal genitor, non dal tuo core eletto.
t’accese alfin, con cui finor t’amai.
tutto soffrir, tutto sperar. Col sangue
la tua tradita libertà. Coraggio
non mi manca, Rosane; ardisci, imponi;
tutto saprò tentar; tutto, mia vita,
farò per te, pur che un tuo sguardo solo
del tuo amor m’assicuri. Ah tu non parli?
Son sinceri i tuoi detti o son mendaci?
Credi pur ciò che vuoi; ma resta e taci.
Infelice Learco, io di te meno
tormentata non son. T’amo, t’adoro
a penare e tacere e poi morire.
sol Learco mi piace e pur io deggio,
poiché la gloria mia serbar io bramo,
strigner chi abborro e abbandonar chi amo.
nacqui alla luce e di te prima amai.
e conosco il tuo cor più che non credi.
                                            Che te d’Arbace
e che serbi nel sen segreto amante.
               Non ti smarir. Tutto confida
a Statira il tuo cor. T’amo qual figlia,
compatisco il tuo stato; e quella legge
che del nostro voler si fa tiranna
abborrisco e detesto. Io son la prima
a renderti ragione; è vero, Arbace
non è per te; principe avvezzo all’armi
mal compagno saria. Scelta avrai forse
abbia tutti donati al sol tuo core;
felice te! Questo può dirsi amore.
il cor sì poco dell’onor geloso
col consiglio vogl’io del proprio affetto;
quel ch’il padre mi scelse io quello accetto.
Lodo la tua virtù ma, estinto il padre,
rimani in libertà. Se mai Learco,
ch’io testé vidi sospirando e solo
dal tuo fianco partir, se mai foss’egli
la tua fiamma, Rosane, amalo; è degno
il prence del tuo amor. T’assolvo io stessa
sposa fu di tuo padre ed è regina.
vivo nella mia mente e nel mio core.
                                                 Io nol ricchiesi
ma non dee ricusarlo il mio rispetto.
vanità ti seduca o pur amore.
Non conosci tu ben dunque il mio core.
voglio usarti pietà. Pensaci; ancora
tempo rimane a stabilir tua sorte.
se ti brama compagna il fato amico,
rissolvi a tuo piacer; più non ti dico.
Ho rissolto, regina; io dal volere
del padre mio non partirò giammai.
(Gl’arcani del mio cuor tu non saprai). (Parte)
già m’accende costei. Ma che rissolvo?
Ma frattanto che fo? Se la mia fiamma
perdo il cuor e la fama a un punto solo;
vo perdendo la vita a poco a poco.
Eh coraggio, Statira; alfin qual colpa
esser puote l’amar? Aman le belve,
amano gl’elementi ed aman tutti
della terra e del mare i figli e i frutti.
S’ami dunque e si scopra... Ah che il delitto
in amar non consiste. Evvi una colpa
maggior nell’amor mio che il giusto offende,
che rapire lo sposo altrui pretende.
che sarà? Che farò? Deh voi prestate
a una misera donna un pio consiglio.
Né m’inganni Artabano? È di me accesa
e se l’arti d’amor teco non usa
la trattiene il timor d’esser delusa.
                                      Eh non sì tosto
qual tu credi, signor; non è già questo
il momento primier ch’ella ti vide,
fosti tu il primo ad incontrarla allora
di Dario agl’imenei e allora forse
mentre ardeva per lei l’odiata face
più bel foco nel sen destolle Arbace.
                               Le trassi a forza
quest’arcano dal sen. Da’ suoi sospiri
conobbi l’amor suo. L’occulto oggetto
con quest’arte svelai; franca s’offerse
de’ principi più vaghi il pregio, il vanto;
quando udì il nome tuo, proruppe in pianto.
né dispiace al mio cor; ma...
                                                     Se Rosane
piace agli dei ed opra è del destino,
temi s’opponga, invan lo temi; Arbace,
non scaldò ancora di Rosane il petto
o la scaltra donzella ama altro oggetto.
                                Dunque di chi t’adora
la fé non obbliar. Vanne e consola
l’infelice regina. A lei, che teme,
dian coraggio i tuoi sguardi. Un qualche accento
cada da’ labbri tuoi che l’assicuri
del tuo tenero amor; sai della donna
il costume, il desio; gode vedersi
dal suo ben prevenuta. Ostentar suole
il rigido rossor ma a poco a poco
cede il rossore alla passione il loco.
Artabano, chi sa? Tu forse invano
in favor di Statira. Il tuo consiglio
da qual fonte derivi io ben compresi.
                                         Già tutto intesi.
si accendesse Rosane. Io dal suo labbro
se mi sprezza, se m’odia o se mi adora.
ciò che più si desia, quindi la brama
e mi piace Rosane ancorché finga.
di Statira ed Arbace e sperar posso
apra Rosane alla mia fiamma il seno.
questo nuovo silenzio? Io più non odo
favellar d’imenei. Parea stamane
ch’io fossi già della grand’ara appresso
e lontan piucché mai mi trovo adesso.
questa nuova favella? Io non ti vidi
di cotesti imenei. Tale ti rese
                                        Io son la stessa
né un bel volto mi cangia. A me sol basta
                                     Se il tuo destino
dal mio labbro saperlo ora tu puoi.
                                         Odilo; Arbace
                            Perché?
                                             Perché Statira
se ne invaghì, perché le corisponde
perché in breve sarà forse suo sposo.
si oblia così? Così Statira offende
chi la fece regina? E così Arbace
                                      Alfin, che perdi
il tuo volto, il tuo cor, che non ti stima,
che non cura di te; quanto, Rosane,
sarebbe l’amor tuo con chi t’adora.
io sospiro per te, ch’io son lo stesso...
di parlarmi d’amor. Vendetta io voglio;
con Statira ti sdegna e se tu brami
ch’ei ti serbi la fede, adunque l’ami.
Non mi spiego di più. Voglio vendetta,
questa prova mi dia di vero affetto.
sciolgasi questo temerario nodo,
poi mi parli d’amor, che in pace io l’odo. (Parte)
Che strano favellar! Ma non sì strano
l’arcano del suo core. Ama Rosane,
vuol celar l’amor suo. Perch’io ministro
lusingarmi procura; il so, lo vedo;
ma ingannar non mi lascio e non le credo.
Venga Arbace... Ma no; t’arresta. Oh dio! (Al paggio)
come potrei svelar l’interno ardore,
che dal seno al sembiante or si difonde
m’avilisce, mi turba e mi confonde?
tale confusion mi desta in petto,
d’Arbace, oh dio! che non faria l’aspetto.
se morir non vogl’io. Su via, si parli
ma col labbro non già. La man supplisca
della voce all’uffizio e, se mi priva
di coraggio il rossor, la mano scriva.
sturbarmi ardisca e più non entri Arbace. (Parte il paggio)
Destra coraggio. Una gran parte scema
non veduta parlar. «Mio caro Arbace (Scrive)
che la voce non può scopra la mano.
per poter non amarti. Abbi pietade
del misero cor mio. Per te sospira,
per te bell’idol mio piange...»
                                                       Statira,
                                               Il cenno mio
si rispetta sì poco? A te l’ingresso
contrastato non fu? Punir l’eccesso
                                  Ma ad Artabano
impedito giammai non fu l’ingresso.
Non è il regio voler sempre lo stesso.
                                             Basta, che vuoi?
                                         Arbace...
                                                            Arbace
forse è quel che t’invia?
                                             Sì.
                                                     Che richiede
il principe da me? Fido Artabano,
                                          Grazie agli dei.
                                        Non tormentarmi.
                                                Brama vederti.
Per tuo cenno venia, poi per tuo cenno
fu il suo passo arestato. Ei ne stupisce,
                               Per poco ancora
fa’ che là si trattenga.
                                         Invan lo speri.
Persepoli abbandona. Invan pretendi,
che il principe alla reggia io più trattenga.
Vanne, vanne, Artabano; Arbace venga.
                                   Oh dei! Va’ tosto,
(Quanto mi costi mai, Rosane ingrata!) (Parte)
Vuol partir se non l’odo? Amor sarebbe
l’intoleranza sua? Numi, foss’egli
a parte del mio cor! Mi prevenisse
con accenti pietosi! Eccolo, oh come
s’empie il mio cor nel rimirarlo in viso!
m’è concesso il vederti e deggio forse
questo regio favor. Ma d’un sol guardo
non mi degna Statira? In che t’offese
                                     Oh dio!
                                                      Sospiri?
Che t’affligge, o regina? A me palesa
ciò che chiudi nel seno. A consolarti
Arbace non sarà. Parla; fai torto
alla mia fedeltà, se il ver m’ascondi.
Che t’affligge, o regina? Oh dio! Rispondi.
Principe... se il mio cor... se gl’occhi miei...
Sappi... E pur tu dovresti... (Ah che mi toglie
                                    Ma qui, Statira,
non v’è alcun che ci ascolti. Io ti prometto
silenzio e fedeltà. Qual importuno
il tuo cor a celarmi? Ah se mai fosse
qualche tenero amor quel che t’opprime,
scoprilo pur; non arossir. Perdona
se cotanto mi avanzo. Io da’ tuoi lumi
interpreto il tuo cor. Su via, Statira,
                                       Ahimè! Qual gielo
per le vene mi scorre! Ah chi mi strigne,
chi mi lacera il cor! Più non resisto;
io mi sento morir. (Siede presso al tavolino)
                                    Deh mi concedi,
che per questo dolor certo mi renda
dell’interno amor tuo. Svelami, oh dio!
che palesi cogl’occhi e ascondi in seno.
Deh per pietà non tormentarmi almeno. (Si copre colla mano la faccia posandosi al tavolino, frattanto Arbace scopre colà il foglio da lei scritto; lo prende e legge furtivamente in disparte)
Stelle! Che leggo mai! «Mio caro Arbace
che la voce non può scopra la mano.
                                              Olà; qual foglio? (S’avede del foglio e s’alza furiosa)
                                                Alfin, regina,
                                         Come?
                                                         Tu stessa
rendimi il foglio mio. Chi ti concesse
                                           Credei...
                                                             Non odi?
                                           Eccolo. Oh dei!
Vanne, incauta cagion del mio rossore. (Lacera il foglio)
meco tanto rigor? Perché vietarmi
di scoprir la tua fiamma? Ingrato, infido
dubiti ch’io ti sia? Fai torto, o bella,
al tuo volto, al mio cor. Temi Rosane?
È vano il tuo timor; di Dario il cenno
interpretasti in mio favor tu stessa.
                                       Deh per pietade,
prence, lasciami sola. A ricompormi
un momento ti chiedo. Io non mi pento
disvelato il mio cor. Ma nello stato
non so dirti di più. Vanne; perdona
quest’ingiuria inocente a chi t’adora;
vanne, mio ben, se tu non vuoi ch’io mora.
sia del mio amor il primo segno. Oh come
da quel ch’io venni a te. Meco non torna
il mio povero core. Il tuo bel pianto
me lo trasse dal petto. Ei teco resta,
ei vive nel tuo sen. Regina, addio;
non negarmi il tuo cor, se hai teco il mio.
Numi! Respiro alfin; sedar il cuore
sento i palpiti suoi. Qual strano effetto
è mai questo d’amor? Suol recar pace
del suo bene l’aspetto e a me l’aspetto
del mio ben mi dà pena. Oh dio! Sarebbe
d’un colpevole amor? Sola Rosane
inocente può farmi. Eccola. Oh dio!
Come sperar poss’io pietà da un cuore
che mai provò la tirannia d’amore.
                                          A che, regina,
questi nuovi riguardi? Ha di bisogno
per penetrar nelle tue stanze?
                                                        Eh vieni,
vieni, figlia, al mio sen. Vuo’ nel cuor mio
                                      Senz’altra scorta
di già vi penetrai. Comprendo l’arte
con cui il nome di figlia a me concedi.
E conosco il tuo cor più che non credi.
                                      Io tal favello
                                      (Oh dei!)
                                                          Qual drito
hai tu sul di lui cor? Qual legge ingiusta
il consorte rapir? Così tradisci
d’un monarca la figlia? È questi il zelo
onde procuri del mio cor la pace?
                                     T’acheta, audace.
del mio cuore l’arcano. Adoro Arbace
e mio sposo sarà. Chiederlo in dono,
superba, a te pensai ma, poiché ardisci
rimproverarmi il contumace affetto,
sarà Arbace mio sposo a tuo dispetto.
Forse tal non sarà. Forse tu stessa
finirai di regnar. Persia non soffre
                              Su via fa’ prova
dunque del tuo poter. Solleva, irita
i miei fidi vassalli. Audace, invano
tenti di spaventarmi. Io regno, io sono
l’arbitra de’ tuoi giorni. Ah se mi sdegna
ti pentirai d’avermi offesa invano.
quest’ingiuria con pace. Alla vendetta
                                        Rosane, alfine
                           A che mi chiedi?
                                                            Io vengo
da te il vero a saper. Vuole ciascuno
sia del cor di Statira. È vero?
                                                      È vero.
                                    Learco, adori
                                      Il sai, mia vita,
s’io sospiro per te; nuova più lieta
sperar io non potea. Se tu d’Arbace
                                      S’è ver che m’ami
questa prova ti chiedo. Il nodo ingiusto
fa’ che tosto si sciolga. Usa la forza
se il consiglio non vale. In tuo potere
sono le regie guardie. Ad un tuo cenno
non si opporanno le milizie. Ah vanne,
usa l’ardir, usa la frode ancora.
Ceda Arbace Statira o l’empia mora.
Barbara, a che mi sproni? Io dovrei dunque
guidarti in seno al mio rival? Spietata
                                        T’inganni; aborro
non vuo’ che ad onta mia stringa uno sposo.
                                 Sì, pria che Arbace,
la morte io sposerò; lo giuro ai numi,
fidati pur di me. La mia vendetta
                                     E poi, mia vita,
sarà mio quel bel cor? Della tua fede
Vanne; pensa per ora a vendicarmi.
puote albergar alma sì cruda? Oh dei!
Sol di straggi t’appaghi? E sol ti piace
sospirando veder fra mille affanni?
Se mi credi crudel, troppo t’inganni.
mi riducesti, amor? Deggio la destra
la mia felicità? Deggio un rivale
riserbar mio malgrado? E creder deggio
mostra solo ingannarmi e non m’inganna?
Si servi al rio destin. Tutti gl’amici
dell’armata mia destra. Oggi dal trono
mi paventi Statira; ed in Learco,
il novello amor suo trovi un nemico.
E Learco non veggo? Il nuovo sole
verso il meriggio e ancor non odo intorno
non bastò al gran dissegno? O pur Learco,
su morbido origlier giace avvilito?
più l’induggio non soffro. In me il desio
cresce ognor di vendetta. Ognor dinanzi
l’orgoglioso sembiante ho di Statira
né si pasce il mio cuor che d’odio e d’ira.
                         Che rechi? Occupa ancora
                                         È d’ogn’intorno
circondata la reggia. I miei seguaci
non attendon che un cenno...
                                                      E questo cenno
perché mai si ritarda? Il tempo vola.
talora un gran dissegno. Ah vanne; al trono
tolgasi una tiranna; al mondo tutto
l’onta mia, l’amor suo, l’arbitrio ingiusto
                                           E poi...
                                                           Paventi
ancor della mia fé? Prendi; la destra
ora in pegno ti do. Torna felice
e mio sposo sarai. Con quest’amplesso
                                       Destra soave,
vinto sono, il confesso. A farmi cieco
                                Ad obbedirti io volo.
quest’altera tremar. Sì, di Learco
già m’è noto il valor. Ma se Learco
di Statira gl’amici? Oh dei! S’estinto
ei cadesse per me? Qual ria sventura,
qual tormento al mio cor! Eh lungi ormai
di funesto pressaggio... Oh dei! Qual odo
strepito d’armi! E chi son quei che arditi
scendon le regie scale? Oh ciel! Statira?
fugge inseguita o a vendicar sen viene
le deluse mie trame? Io non discerno
in qual stato mi trovi. Ora comincio
di Learco a temer. Ora del fato
comincio a dubitar. Nel sen mi desta
                                           Olà, t’aresta.
                                       Inique stelle!
                                     Sì, quest’è il frutto
del tuo soverchio ardir. Fur prevenuti
di Learco i dissegni. Ad iscoprirli
venne in tempo un mio fido. Ora assaliti
fuggon gl’assalitori e forse giace,
spento per tua cagion, Learco audace.
                        Tu piangi? Io non ardisco
quel pianto interpretar. So quanto sia
del tuo core scoprir. Ma pur quel pianto
d’amor deluso e d’infelice sdegno.
Via scherniscimi pur. Già tel concede
il mio crudo destin; deridi audace,
                                     Che rechi Arbace?
cessero al braccio mio. Gl’attesi al varco,
tutti son vinti, è prigionier Learco.
                                       Il traditore
                                     Barbara, ah sfoga
contro me il tuo furor. Quell’infelice
colpa non ha; per mio consiglio ei venne
la reggia ad assalir; per me s’accinse
all’impresa funesta e quanti stenti
mi costò il persuaderlo! E quante volte
ressistermi provò! Le mie lusinghe
lo convinsero alfin. Se vendicarti
vuoi di chi t’oltraggiò, rammenta, oh dio!
che Learco è inocente e rea son io.
si è scoperto il tuo cor. Se di Learco
il periglio ti fa mesta e tremante,
se il difendi così, ne vivi amante.
venir in faccia mia? Non arossisci
                                     Tu chiami invano
infedele il cuor mio, se mai sapesti
                                        È ver; non serbo
la beltà di Statira; ella sa l’arte
di lusingar. Ella possede appieno
le finezze d’amor nel proprio seno.
                                        Eh no, Statira,
seco non ti sdegnar. Perdona in lei
la sua tenera età. Crede Rosane
che degl’affetti universal tributo
sia da ogni core alla beltà dovuto.
che la sola beltà non inamora.
                                              Oh dei! Fermate.
                                  Lasciar non voglio
                                       In me la rea
                                      Te di re figlia
giudicherà il Senato. Io vuo’ frattanto
                                       Misero prence,
per me dunque morrà? Nel fior degl’anni
                                  E pur potresti
                                   Come?
                                                   Spietata,
qual tu credi, non son. L’audace orgoglio
cangia meco, Rosane, ed io cangiarmi
forse teco saprò. D’Arbace il nodo
di contendermi cessa ed io Learco
libero renderò. Lieve contrasto
tu saresti al mio amor; ma pur desio
il volgo persuader. Bramo con pace
passar i giorni in compagnia d’Arbace.
di Learco, di te, di me a pietade.
di regina il comando, ora deposto
parla solo al tuo cor Statira amante.
chi più crudel sarà di noi? La vita
chi difender potrà? Pensa, risolvi.
Tu il condanna, Rosane, o tu l’assolvi.
Cedo al fato, Statira; io vinta sono
dalla giusta pietà d’un infelice.
il mite favellar de’ labbri tuoi.
sia tuo sposo, il consento; e perché mai
timor non giunga a perturbarti invano,
oggi a Learco io porgerò la mano.
possa strignerti alfin. Diletta figlia,
tu mi rendi felice. Olà, Learco (Alle guardie)
sciolto sia da catene. Oh dio! Rosane,
qual sarà il piacer nostro? Io mi figuro
tante felicità che tutte appieno
in sé non basti a contenerle il seno.
le amarezze d’amor, tempo è ch’io provi
dunque le gioie sue. Sì sì, Learco,
ch’è il tenero amor mio, ch’è del mio core
a me rechi d’amor la bella pace.
ebbi del vostro amor prove sicure;
di vostra fedeltà più certa prova.
io mi scelsi in isposo e fin che giunga
ad età di regnar Dario capace,
tutto il regio poter cedo ad Arbace.
e la tua libertade a lei sol basta.
s’io mi cangiai sì tosto; il tuo periglio
                          Vedi se un tuo comando
                                         Statira, Arbace,
della mia nobil cura il degno frutto.
                                       Chiedi.
                                                       Rosane
è colei che il cuor mio sospira e brama.
Ma la sospiri invano; ella non t’ama.
perché a lui vuo’ donar la destra e il core.
                           Oh sventurato, oh invano
mie gettate fatiche! Oh donna ingrata!
Quest’è dell’opra tua mercede usata.
Vieni, Arbace, al mio sen; vieni e ricevi
                                Felice appieno
teco sarò, se vi acconsente il regno.
Persia non ebbe re di te più degno.

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