Statira, Venezia, Rossetti, 1741

Vignetta Frontespizio
 SCENA V
 
 STATIRA, poi ARBACE
 
 Statira
 Vuol partir se non l’odo? Amor sarebbe
 l’intoleranza sua? Numi, foss’egli
520a parte del mio cor! Mi prevenisse
 con accenti pietosi! Eccolo, oh come
 di tremor improviso
 s’empie il mio cor nel rimirarlo in viso!
 Arbace
 Finalmente, o regina,
525m’è concesso il vederti e deggio forse
 ai merti d’Artabano
 questo regio favor. Ma d’un sol guardo
 non mi degna Statira? In che t’offese
 l’inocente mio cor?
 Statira
                                      Oh dio!
 Arbace
                                                       Sospiri?
530Che t’affligge, o regina? A me palesa
 ciò che chiudi nel seno. A consolarti
 forse inutile mezzo
 Arbace non sarà. Parla; fai torto
 alla mia fedeltà, se il ver m’ascondi.
535Che t’affligge, o regina? Oh dio! Rispondi.
 Statira
 Principe... se il mio cor... se gl’occhi miei...
 Sappi... E pur tu dovresti... (Ah che mi toglie
 la favella il rossor).
 Arbace
                                     Ma qui, Statira,
 non v’è alcun che ci ascolti. Io ti prometto
540silenzio e fedeltà. Qual importuno
 timor può consigliarti
 il tuo cor a celarmi? Ah se mai fosse
 qualche tenero amor quel che t’opprime,
 scoprilo pur; non arossir. Perdona
545se cotanto mi avanzo. Io da’ tuoi lumi
 interpreto il tuo cor. Su via, Statira,
 confidati ad Arbace.
 Statira
                                        Ahimè! Qual gielo
 per le vene mi scorre! Ah chi mi strigne,
 chi mi lacera il cor! Più non resisto;
550io mi sento morir. (Siede presso al tavolino)
 Arbace
                                     Deh mi concedi,
 bellissima regina,
 che per questo dolor certo mi renda
 dell’interno amor tuo. Svelami, oh dio!
 svelami il caro oggetto
555di quel tenero affetto
 che palesi cogl’occhi e ascondi in seno.
 Statira
 Deh per pietà non tormentarmi almeno. (Si copre colla mano la faccia posandosi al tavolino, frattanto Arbace scopre colà il foglio da lei scritto; lo prende e legge furtivamente in disparte)
 Arbace
 Stelle! Che leggo mai! «Mio caro Arbace
 soffri che il grande arcano
560che la voce non può scopra la mano.
 Troppo vago tu sei,
 principe, agl’occhi miei
 per poter non amarti...»
 Statira
                                               Olà; qual foglio? (S’avede del foglio e s’alza furiosa)
 Numi! Arbace, che leggi?
 Arbace
                                                 Alfin, regina,
565ho scoperto il tuo cor.
 Statira
                                          Come?
 Arbace
                                                          Tu stessa
 qui non scrivesti?
 Statira
                                    Audace,
 rendimi il foglio mio. Chi ti concesse
 leggerlo in faccia mia?
 Arbace
                                            Credei...
 Statira
                                                              Non odi?
 Rendimi tosto il foglio.
 Arbace
                                            Eccolo. Oh dei!
570Perché tanto rigore?...
 Statira
 Vanne, incauta cagion del mio rossore. (Lacera il foglio)
 Arbace
 Perché ostentar, regina,
 meco tanto rigor? Perché vietarmi
 di scoprir la tua fiamma? Ingrato, infido
575dubiti ch’io ti sia? Fai torto, o bella,
 al tuo volto, al mio cor. Temi Rosane?
 È vano il tuo timor; di Dario il cenno
 interpretasti in mio favor tu stessa.
 Che ti resta, o Statira,
580che ti resta a temer?
 Statira
                                        Deh per pietade,
 prence, lasciami sola. A ricompormi
 un momento ti chiedo. Io non mi pento
 d’averti incautamente
 disvelato il mio cor. Ma nello stato
585in cui mi trovo adesso
 non so dirti di più. Vanne; perdona
 quest’ingiuria inocente a chi t’adora;
 vanne, mio ben, se tu non vuoi ch’io mora.
 Arbace
 L’obbedirti, regina,
590sia del mio amor il primo segno. Oh come
 parto da te diverso
 da quel ch’io venni a te. Meco non torna
 il mio povero core. Il tuo bel pianto
 me lo trasse dal petto. Ei teco resta,
595ei vive nel tuo sen. Regina, addio;
 non negarmi il tuo cor, se hai teco il mio.
 
    Care luci, luci amate
 che ferite ancor piangendo,
 per pietà non vi lasciate
600sempre meste vagheggiar.
 
    Non piangete, o luci belle,
 che già vinto a voi mi rendo.
 Deh tornate, o chiare stelle,
 il bel lume a serenar.