Metrica: interrogazione
449 endecasillabi (recitativo) in Farnace Venezia, Rossetti, 1739 
perfide stelle, io son Farnace ancora.
ha in pugno ancor di Mitridate il brando,
ha in seno ancor di Mitridate il core.
Per lacerar i lauri in su la chioma
risorgerò, nemico ognor più crudo,
cenere anche insepolto e spirto ignudo.
Mio consorte, mio re, deh per le sacre
d’amor e d’imeneo, per quella fede
che annodò le nostre alme, arresta il piede.
Non ami ben, se l’onor mio non ami.
Amo, sì, l’onor tuo ma mi spaventa
l’orror dell’imminente alto periglio.
Dov’è più di periglio è più di gloria.
Vanne dunque, o crudel, e qui mi lascia
tra le fiere agonie de’ miei timori.
Lascia in balia del vincitor superbo
e l’infelice, oh dio! tenero figlio,
tra le schiave più vili a torcer lane
ed a baciar le clamidi romane.
ma lo domi virtù robusta e forte).
                                           Il cenno attendo.
Quest’acciaro fatal prendi, o regina;
che uscirà dal mio labbro.
                                                 Eccomi pronta.
idolatra di lei per lei pugnando
l’aquile abominate alzino il volo,
tutto nel cor del figlio, indi nel tuo
Dall’indegno servaggio esso vi sciolga
e l’ingiurie del ferro il ferro tolga.
L’una è degna di me perché son moglie,
l’altra è indegna di me perché son madre.
Anch’io son padre e tel comando. A noi
l’alta necessità d’oprar da grandi.
Torna tosto in città. Tamiri, addio.
l’ubbidienza tua, servi alla legge
che giurasti al mio amor e alla mia gloria
di Farnace non sei se non sei forte.
è giustizia, è dover e sì grand’atto
stabilito era già ne’ miei pensieri.
io sveni il caro figlio, il figlio amato
è fierezza crudel d’ingiusto fato.
che là si vede torreggiar vicina
è la città de’ regni suoi regina,
ei se non mente della fama il grido
dal romano valor fu debellato
ma non fu vinto; se alle sue congiunte
fian l’armi nostre, la vittoria è certa.
nell’insegne ondeggiar l’aquila invitta.
Amazone real dell’Oriente.
Debellator de più feroci imperi.
                    Pompeo.
                                       Roma t’accoglie.
                                    E con le mie riceve
l’Asia gli amplessi tuoi.
                                            Contro i ribelli
Mora Farnace. Altro da te non bramo.
Mora Farnace. Ad assalir le mura
ov’ei s’asconde io moverò le squadre
d’altra parte asseconda e vendicata
                                 Sì, col tuo esempio,
o renderò maggior la mia vendetta
lascierai l’ombra almen d’un nome grande.
pietade ha luogo e cortesia non toglie
punto di lena a marziali incendi,
dal militare ardir salva e difendi.
                                           Io son Selinda.
bella Selinda, e sicurezza e scampo.
finché di Roma il fulmine fatale
sul fratel contumace oggi sen cada.
la vittoria ci chiama. Andianne omai.
(Vendicato, mio core, alfin sarai). (Parte)
E congiurò con le romane squadre
contro l’unica figlia ancor la madre.
la ragion dello sdegno; e a questa cede
ogni ragion del sangue e dell’amore.
la più serena idea che mai scendesse
dall’alte sfere ad illustrar la terra.
Che? Non amano forse anche gl’eroi?
Sì, ma non sono eroi se sono amanti.
Vanne; non è possibile che mai
vaneggi adorator del mio sembiante.
Sei guerriero nell’Asia e non amante.
come tale m’accogli e mi concedi
generosa l’onor di tuo campione.
Senti; libera io nacqui e nelle vene
alla tua Roma i combattuti allori.
degna di te, degna di me. Riffletti
su le mie voci e su le mie vicende
e se sprone bisogna al tuo valore,
da’ sereni occhi tuoi non si difende.
Ma se tu non palesi il tuo desio...
Vanne e pensaci bene. Aquilio, addio.
in Aquilio abbagliò le mie pupille?
Ah se mai fosse amore! Eh, no, Selinda
servi, servi al tuo grado. A lui concedi
con le lusinghe libertà d’amarti.
Nasceran dall’amor le gelosie
e dalle gelosie l’ire e gli sdegni.
Roma contro di Roma e Berenice
contro di Berenice e così forse
degl’occhi miei con la fatal saetta
io medesma farò la mia vendetta.
L’empia Roma trionfa e a noi de’ numi
nessun più resta o restano i men forti.
Morir si dee; l’ora fatal è giunta.
delle viscere mie parto innocente.
d’un impero sì nobile e di tante
spazio di terra, ove un bambin s’asconda,
questo sacro e feral tempio dell’ombre.
nato all’afflitta patria e troppo presto
d’una servil catena. Abbila in grado
s’ella è pietà, s’è crudeltà, perdona.
Andianne, o figlio. (S’incamina ma ripugnando il fanciullo torna adietro) Ah tu ritiri il passo
e prendi a sdegno il vergognoso asilo.
diletto mio, cedi al destino e vivi.
Tempo forse verrà che tu ripigli
l’indole generosa e che ritolga
l’usurpato dominio. Oggi ti basti
d’ingannar la tua morte. Intanto, o caro,
del mio povero amor ultimo dono.
tutta sul labbro ed a seguirti impara.
anch’io verrò. Mi chiuderà l’istessa
veglierò su’ tuoi casi, ombra gelosa.
Vanne, idol mio; colà ti cela e posa. (Entra il fanciullo nella piramide e il servo chiude la porta)
Torniamo a ripigliar quel di consorte. (Cava lo stile datole da Farnace)
delle miserie mie rimedio estremo
aprimi il petto e col mio sangue scrivi
che da regina io vissi e da regina
seppi ancora morir. (Mentre vuol uccidersi vien arrestata improvisamente da Berenice)
                                       Fermati ingrata. (Togliendole lo stile)
                                       Qual folle ardire.
dimmi se giungi a me madre o nemica.
vedi in me la nemica e la tiranna.
E in che peccò quell’infelice, amando
e l’imagine tua nel mio sembiante?
In che peccò? Non ti rapì l’indegno
dalle mie braccia a mio dispetto?
                                                              Ed io
con ubbidir al mio destin?
                                                  Dovevi
alla madre ubbidir pria che al destino.
                        Non più. Dove ascondesti
Nella stragge dell’Asia il cerco anch’io.
Parla, il figlio dov’è?
                                       Dov’è il mio sposo?
con la mia libertà la mia grandezza?
Non passeggia il dolor con tanto fasto
ti trarranno dal sen l’alma o l’arcano.
Pensi di spaventarmi? Io sono avvezza
Chi ti chiede pietà? Giunta all’estremo
delle miserie mie, nulla più temo.
Signor, costei che audace empie le vene
del sangue mio ma nel suo core impressa
ha l’imagine sol del suo Farnace,
da che l’empia sdegnò d’essermi figlia.
cangi in quello di serva e de’ suoi regni
quanto può misurarne una catena.
pieno di fede e di costanza il core
come l’ereditò dal genitore.
la chiarezza del sangue e in un dell’alma.
Nulla io chiedo da te. Sei prigioniera
della tua genitrice. A lei t’inchina
la vincitrice tua, la tua regina.
ostinata nasconde il figlio indegno
ad onta del mio amore e del mio sdegno.
è comune al tuo amor. Ceda il tuo amore
dunque alla tua fortuna e non contenda
al vincitor della vittoria il frutto,
può germogliar un gran nemico a Roma.
la mia stolta pietà d’alto periglio.
Roma dunque ci teme? O fortunate
tanto da voi temuto, eroi latini.
dai voti della patria e dalle mie
la più nobile spoglia, in esso io tolgo
al domator dell’Asia, al gran Pompeo.
Come ben fa veder la donna eccelsa
che l’insolente arbitrio della sorte
non serba autorità su le grand’alme
va con libero piè sempre disciolta.
Vano è però l’ardir, vano è l’orgoglio
della femmina altera; a suo dispetto
l’ultima al regno suo fatal rovina.
cerchisi in ogni parte. Altro sospetto
                                  Ubbidirò. Ma donde,
donde contro Farnace odio sì fiero
Perdona al zelo mio. Tanto rigore
per esser giusto i suoi confini eccede.
nella rabbia crudel di Mitridate?
il mio sposo Ariarate. Egli recise
egli tutto tentò per mio periglio.
E le colpe del padre ascrivi al figlio?
allor che mi rapì la mia Tamiri.
guidò Selinda ne’ miei lacci, io voglio
cominciar da costei la mia vendetta.
                                             Ah mia regina. (S’inginocchia)
Che pretendi da me? Levati e parla.
per la grandezza tua, dona al mio zelo,
                                     Selinda?
                                                        Ah l’innocente
che divenuto sei un folle amante.
è fallo amor. Cangia però pensiero.
No, che amor non è fallo in cor guerriero,
al pari della gloria è spesso amore.
Berenice non s’armi o in pena attenda
ch’io crudeltà per crudeltà le renda.
No, che ceder non voglio. Ancor mi resta
che renda memorabile e tremendo
al gran giro de’ secoli il mio nome.
Oppressa libertà ti devo ancora
l’ultimo sacrificio. Oggi s’adempia.
Son già scelte le vittime e son tali
che ben ponno illustrar la mia sciagura.
di due tiranni trucidati e carco
stancherà l’ombra mia sul guado estremo
dell’antico nocchier il fatal remo.
(Pupille, o voi sognate o questi è certo
(Cieli! Vive Tamiri e il mio comando
mosso a pietà degli aspri miei tormenti
ti riconduce a consolarmi, o caro?
                              Ah che quel nume stesso...
dolce la vita ai miseri che ponno
goderne ancora in servitù crudele?
fuggir l’ingiurie della mia fortuna
col sangue suo la sua viltà. Ma forse
e all’oltraggio del barbaro trionfo
Ah lo serbai (deh secondate, o cieli,
ma lo serbai di quella tomba in seno.
l’unica tua delizia e l’amor mio.
Dunque morì l’amata prole? Ah troppo,
troppo ottenne da me la mia sciagura.
Si è servito alla gloria, omai si serva
alla paterna tenerezza. Parli,
poi la virtù il sommerga entro del core.
insidiosa a Berenice e a Roma.
                                           Oh dei! Che sento?
E ’l cenere infedel disperda il vento.
Ah regina, ah soldati, avida tanto
che s’avanza a cercar nell’ossa ignude
de’ reali sepolcri esca funesta!
Alla vendetta mia non basta il sangue,
dell’ingiusto offensor qualche memoria.
Ah madre, ed è pur questo un sì bel nome
che raddolcir potria quel di nemica,
per quei teneri amplessi, onde una volta
ti circondava il sen, per quei soavi
risparmia alla tua gloria e alla tua fama
da cui degno di te frutto non cogli.
ma pietà non ottenga. Ite, atterrate...
non è degno di me, di me più degno
sarà il furor, contrasterò feroce,
darà forza lo sdegno al braccio imbelle
del suo regale avello avrò compagna
Tutto invano ho tentato). Empi fermate.
                      (Che farò? Materno amore
seguo, sì, le tue voci e il tuo consiglio;
mi trafigga lo sposo e viva il figlio).
                                               Oh con qual prezzo
la tua clemenza oggi a comprar m’accingo.
che finor t’occultai voglio svelarti.
Ma cara madre, hai ben di sasso il core,
s’ei la vita d’un figlio oggi mi niega.
                                         Dallo e poi priega.
stanze di morte. Esci dal tuo ricovro
flebile furto d’infelice madre.
terror di Roma, ecco l’avanzo estremo
picciola fronte e al piè regale imprimi
dell’ava eccelsa ossequiosi bacci.
ciò che comanda ai miseri fortuna.
Questi, o regina, è il tuo nipote. In esso
del suo genio guerrier l’indole osserva;
ma col tuo sangue il tuo rigor consiglia
                                            Non mi sei figlia. (Parte col fanciullo)
d’una libera morte? E quando mai
t’insegnò tal viltà la gloria mia?
al romano carnefice la spada,
in quel tenero sen tutta l’immerga.
Vanne... Anzi resta... Io tolgo agl’occhi miei
codardo, abominevole, funesto
spettro vendicator, larva sdegnata
là degli Elisi in su le nere soglie.
Sposo... Farnace... Oh dio...
                                                   Non mi sei moglie.
Dite che v’ho fatt’io, ditelo, o cieli!
una giusta pietà che si punisca
Sol perché salvo un misero innocente
dalla rabbia crudel del mio destino,
numi a voi per pietà chiedo la morte.
signor, il tuo coraggio e il tuo destino?
                                       Io voglio or ora
                                      E donde speri
dopo il colpo fatal rifugio e scampo?
                                         Ai gran delitti
talor la sorte ammiratrice arride.
te stesso perdi e non racquisti il figlio.
del fuggitivo esercito raccolte
le disperse reliquie e degl’amici
ragunati i soccorsi a sé ti chiama.
di dar morte a Pompeo. L’esito attende
contro i nemici impetuose e fiere
è il tuo disegno ed il tuo rischio. Vanne,
vanne german, dove Emiren ti attende
d’eseguir ciò che brami. A secondarmi
disporrò in breve Aquilio.
                                                 Ammiro il tuo
generoso e magnanimo ardimento;
ma compagni non voglio al gran cimento.
Del nemico Farnace eccoti il figlio.
del genitore la perfidia. Abbatti
pria che spiegata la superba spoglia
di pestiferi semi ingombri il campo.
Duce, regina, in che v’offese questa
                                Spesso il torrente
che pria dimesso e tacito correa,
sormontando superbo il suo confine,
e porta al mar tributo no ma guerra.
finché di lui disponga e del suo fato
l’autorità di Roma e del Senato.
Ah! Sei col sangue tuo troppo tiranna.
Sarò sempre crudel qual tigre irata
Voglio il suo sangue e allor sarò placata.
Sì, sì, mora... Ma chi? M’offese forse
l’innocenza del figlio? Ah no. Sarebbe
crudeltà senza pari. Ei viva... E in esso
Vivranno i scorni miei? No, mora. Il padre
basta per farlo reo. Quel sangue indegno
poiché solo dell’ira odo il consiglio.
                                          Entro la reggia
                                      È comun grido
che nel bosco vicin perduto il campo
le tue promesse e le mie brame adempi.
Appaga i voti della mia vendetta
e la metà d’un regno in premio aspetta.
d’un’alma grande e generosa, rendi,
a una madre infelice e in ricompensa
dell’eroica pietà, gradisci in dono
Un fanciullo io ti chiedo e ti consegno
per un fanciullo la metà d’un regno.
Donna real che in tal fortuna ancora
l’ossequio accetto e i doni tuoi rifiuto
che a guerreggiar non a cambiar qui venni.
non è l’ultima gloria, anzi la prima
quanto dal tuo diverso è il mio consiglio.
Rendi a costei coi tesori il figlio.
la tua pietà nel dar la vita al figlio!
con la man di Pompeo a me lo rende.
Son rea però di mille morti e mille
a te ne chiedo. Squarcia questo petto.
Ma caro sposo, allor che ai piedi tuoi
ravvisa la cagion dell’error mio
che vivo il figlio al genitor serbai,
perché nel figlio il genitor amai.
riconosce il mio cor la sua fierezza.
qualche raggio di luce e di speranza
ben farà scintillar sui casi nostri.
sempre armato di folgori il sembiante,
può la vita mancar ma non la morte.
Sì qualche nume o qualche stella alfine
ne darà qualche aita. Il cielo sempre
d’uopo è soffrir finch’ei non cangi tempre.
che ritorni a regnar Farnace in soglio.
                  Sì. Vive Farnace e quando
ei raquisti per te la sua grandezza
ti promette in mercede i miei sponsali.
                                              E tu procura
                                    Che mai far deggio?
Fa’ che delle romane altere insegne
ricada in te l’autorità suprema
e con libero impero allor farai
il desiderio mio. Tu pensa il resto.
da romano guerriero, un tradimento,
ma qual vile rimorso in cor amante!
Coraggio Aquilio. Un’anima feroce
l’error che giova alla virtù che nuoce.
Io dunque... Ecco Pompeo. A lui mi celo. (Si ritira)
nuovo riceverà Roma un trionfo.
fausta protegga il colpo mio la sorte,
prospero il fato al mio disegno arrida,
                                       (Pompeo s’uccida). (S’avanzano ambidue colle spade impugnate dietro Pompeo e nell’incontrarsi restano. Pompeo frattanto si volge verso di loro)
                                              (Evento strano!)
Perché nudi gl’acciari ambo stringete?
Quindi col ferro che impugnai, fuggendo,
                                         Ed io che ’l vidi
accorsi e strinsi in tua difesa il brando.
                            Costui dagl’occhi spira
non so che d’ardimento e di spavento. (Ad Aquilio)
                              Sei guerrier?
                                                         Pugnai
sotto l’insegne d’Ariarate.
                                                Ed ora?
di Berenice ho luogo e nome ancora.
                               Ergildo.
                                                (Il cor mi balza
                                         S’altro non chiedi
Berenice s’appressa. Ella ti vegga,
qual tu dicesti, a tuo talento andrai.
in costui riconosci un tuo custode?
ma nell’avverse ha in un coraggio e speme.
                                   Non lo ravvisi?
Al favellar superbo, al volto audace,
all’orgoglio del cor? Egl’è Farnace.
entrar furtivo e contro me t’armasti?
finché avrà lena il braccio e taglio il brando.
Renditi; si disarmi e s’incateni.
facil trionfo. Io solo... (Mentre Farnace è assalito dalle guardie sopraviene ed entra fra l’armi Tamiri)
                                         Oh dio! Fermate,
a me quel ferro, a me lo cedi. Io sono
la tua Tamiri. Io te ne priego. Lascia
se non può trionfar tutto il mio pianto
della fierezza d’una madre.
                                                   Prendi, (Getta la spada a’ piè di Berenice)
sparso l’avrai dalle feroci vene,
fera crudel, ne lambirai l’arene.
perdei la sua, perdei la mia speranza
e lo stesso Farnace anco perdei.
il disegnò tradì, l’opra riprenda;
con ardire maggior facci l’emenda.
mostrano d’esser numi e d’esser giusti.
Giusti li crederei, se dal mio piede
trasferissero al tuo queste ritorte
secondati essi avessero i miei voti.
il tuo giudice io sono, a me Pompeo
sopra te diede autorità sovrana.
le sue ragioni al tribunal indegno
e basso adulator della romana
temeraria baldanza. Al tuo delitto
il supplicio che brami è già prescritto. (Si leva)
inflessibile sia la tua grand’alma?
io ti inondo coi pianti e nulla impetro.
con le lagrime mie. Da questi amplessi
di Farnace la vita a me non doni.
Vendicata non sei? Non lo spogliasti
d’ogni suo ben? Quanti supplici ancora
                                        Voglio che mora. (Alle guardie che s’avanzano, uno de’ quali con sciabla nuda)
ad eleggere un re. Noi non dobbiamo
In perpetua prigion sia custodito.
finché non ha per carcere un sepolcro.
Voglio che mora, ei di più colpe è reo.
Berenice morrà, morrà Pompeo. (Assaltano le poche guardie di Berenice e le fugano)
                            Qual tradimento?
                                                               A terra
Compisci di tua man la tua vendetta.
si rispetti la vita. In Berenice
vadan tutti a ferir le nostre spade.
Traditori venite. Eccovi il petto,
che meritai con ritardar la morte
al più fiero e crudel de’ miei nemici.
di questo scempio. (Vuol ferir Berenice e Pompeo gli si oppone)
                                     Ah principe, rifletti... (In questo Tamiri preso il figlio che da un servo era tenuto in disparte, s’avanza col medesimo)
dallo sposo la madre? Ah, se in te resta
scintilla di pietà per chi t’adora
                                     Sì, sì, vincesti.
Berenice crudele eccoti il petto,
sfoga pur l’ira tua, non mi difendo. (Getta lo stile)
fenito è l’odio mio. Vedo che il cielo
apertamente lo condanna. Vieni,
ch’io t’abbraccio qual figlio. Abbia Tamiri
un sì degno consorte, abbia il mio trono
un sì nobil sostegno. Omai vivete
e felici regnate e vostra sia
ogni fortuna, ogni grandezza mia.
Per sì lieti successi anch’io ti rendo
il tuo scettro, il mio amor. Con Berenice
                                             Io gli perdono
ch’egli sii tuo consorte, a te lo dono.
Ti debbo oltre Selinda e vita e regno.

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