fuor che in me più sperar? Megacle istesso,
nel bisogno maggior! Or va’, riposa
condannarlo però. Breve cammino
da Creta, ov’ei restò. L’ali alle piante
non ha Megacle alfin. Forse il tuo servo
subito nol rinvenne. Il mar frapposto
forse ritarda il suo venir. T’accheta;
in tempo giugnerà. Prescritta è l’ora
oltre il meriggio ed or non è l’aurora.
all’olimpica palma or sul mattino
dee presentarsi al tempio? Il grado, il nome,
la patria palesar? Di Giove all’ara
giugne tardi a compir? Vedi la schiera
de’ concorrenti atleti? Odi il festivo
tumulto pastoral? Dunque che deggio
attender più? Che più sperar?
presentarmi con gli altri.
prence, il saper come si tratti il brando.
Altra spezie di guerra, altr’armi ed altri
studi son questi. Ignoti nomi a noi
cesto, disco, palestra; a’ tuoi rivali
familiari esercizi. Al primo incontro
Megacle giunto a tai contese esperto,
pugnato avria per me. Ma s’ei non viene
che far degg’io? Non si contrasta, Aminta,
oggi in Olimpia del selvaggio ulivo
la solita corona. Al vincitore
sarà premio Aristea, figlia reale
dell’invitto Clistene, onor primiero
delle greche sembianze, unica e bella
fiamma di questo cor, benché novella.
più riveder non spero. Amor non vive
T’intendo. In queste fole,
trattener mi vorresti. Addio.
Parmi... No... Non è desso.
e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco
Vieni vieni al mio seno. Ecco risorta
Non perdiamo i momenti. Appunto è l’ora
si raccolgono i nomi. Ah! Vola al tempio,
di’ che Licida sei. La tua venuta
inutile sarà, se più soggiorni.
Vanne. Tutto saprai, quando ritorni.
possessor d’Aristea. Vanne, disponi
tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa
nel fingerti felice. Ancor vi resta
molto di che temer. Potria l’inganno
esser scoperto; al paragon potrebbe
Megacle soggiacer. So ch’altre volte
fu vincitor; ma un impensato evento
so che talor confonde il vile e il forte
né sempre ha la virtù l’istessa sorte.
perpetuo dubitar. Vicino al porto
vuol ch’io tema il naufraggio! A’ dubbi suoi
non sa mai quando è l’alba o quando è sera.
torni a render felice, o principessa?
potessi ancor come dagli altri. Amica,
giorno per me sia questo.
glorioso per te. Di tua bellezza
prova aver più sicura? A conquistarti
tutto il fior della Grecia oggi s’espone.
Ma chi bramo non v’è. Deh si proponga
al nostro ragionar. Dimmi, Licori.
riprendi e parla. Incominciasti un giorno
a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo
di proseguirgli. Il mio dolor seduci,
i miei tormenti in rammentando i tuoi.
Se avran tanta virtù, senza mercede
non va la mia costanza. A te già dissi
che Argene è il nome mio, che in Creta io nacqui
d’illustre sangue e che gli affetti miei
fur più nobili ancor de’ miei natali.
ecco il principio. Del cretense soglio
fu la mia fiamma ed io la sua. Celammo
prudenti un tempo il nostro amor ma poi
l’amor s’accrebbe e, come in tutti avviene,
la prudenza scemò. Comprese alcuno
il favellar de’ nostri sguardi, ad altri
i sensi ne spiegò. Di voce in voce
il maligno romor che il re l’intese.
Se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui
vietò di più vedermi e col divieto
gliene accrebbe il desio, che aggiunge il vento
fiamme alle fiamme e più superbo un fiume
fanno gli argini opposti. Ebbro d’amore
di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno
spiega in un foglio; a me l’invia. Tradisce
la fede il messo e al re lo reca. È chiuso
il mio povero amante. A me s’impone
porga la destra. Io lo ricuso. Ogniuno
contro me si dichiara. Il re minaccia,
mi condannan gli amici, il padre mio
vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo
al mio caso non trovo. Il men funesto
credo il più saggio e l’eseguisco. Ignota
in Elide pervenni. In queste selve
mi proposi abitar. Qui fra pastori
pastorella mi finsi; or son Licori.
fido in sen di Licori il cor d’Argene.
Inver mi fai pietà. Ma la tua fuga
non approvo però. Donzella e sola
questi che il re mi destinò. Dovea
com’ei stesso dicea, ramingo, afflitto.
da stuol di masnadieri e oppresso ormai
la vita vi perdea. Licida a sorte
vi si avvene e ’l salvò. Quindi fra loro
fidi amici fur sempre. Amico al figlio,
fu noto al padre e dal reale impero
destinato mi fu, perché straniero.
bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri
vermigli sì ma tumidetti, e forse
lenti e pietosi, un arrossir frequente,
un soave parlar... Ma... Principessa
tu cambi di color! Che avvenne?
Quel Megacle che pingi è l’idol mio!
lunga stagion già mio segreto amante,
niegommi il padre mio né volle mai
ascoltarlo una volta. Ei disperato
da me partì; più nol rividi. E in questo
punto da te so de’ suoi casi il resto.
ch’oggi per me qui si combatte!
a lui voli un tuo servo e tu procura
è pur tuo padre; ei qui presiede eletto
arbitro delle cose; ei può se vuole...
principessa, il tentarlo?
Figlia, tutto è compito. I nomi accolti,
le vittime svenate, al gran cimento
l’ora prescritta. E più la pugna ormai,
della pubblica fé, dell’onor mio
io ti darei se ti dicessi tutti
quei che a pugnar per te vengono a gara.
v’è Clearco di Sparta, Ati di Tebe,
Erilo di Corinto e fin di Creta
(Ah, si scordò d’Argene).
Ah questa pugna, o padre,
dissi perché. Ma la cagion non trovo
sempre v’è tempo. È d’imeneo per noi
pesante il giogo e già senz’esso abbiamo
nella nostra servil sorte infelice.
Dice ogniuna così ma il ver non dice.
Convien ch’io siegua il padre. Ah tu che puoi
se pietosa pur sei come sei bella,
cerca, recami, oh dio, qualche novella.
già di me si scordò! Povera Argene,
a che mai ti serbar le stelle irate!
inesperte donzelle. Ecco lo stile
de’ lunsighieri amanti. Ogniun vi chiama
suo ben, sua vita e suo tesoro; ogniuno
vaneggia il dì, veglia le notti; han l’arte
di lagrimar, d’impallidir; talvolta
voglian morir fra gli amorosi affanni.
Guardatevi da lor; son tutti inganni.
Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio
per te mi presentai. Per te fra poco
vado al cimento. Or fin che ’l noto segno
della pugna si dia, spiegar mi puoi
non ha di me più fortunato amante
è una real beltà. La vidi appena
che n’arsi e la bramai. Ma poco esperto
la mia vita, il mio sangue, il regno mio,
tutto, o Megacle amato, io t’offro e tutto
al grato servo, al fido amico. Io sono
memore assai de’ doni tuoi; rammento
la vita che mi desti. Avrai la sposa;
speralo pur. Nella palestra elea
non entro pellegrin. Bevve altre volte
i miei sudori. Ed il silvestre ulivo
un insolito fregio. Io più sicuro
mai di vincer non fui. Desio d’onore,
stimoli d’amistà mi fan più forte.
d’esser già nell’agon. Gl’emuli al fianco
mi sento già, già gli precorro e asperso
dell’olimpica polve il crine, il volto
del volgo spettator gl’applausi ascolto.
nacque in riva all’Asopo. Al re Clistene
(Aimè. Questa è il mio bene).
Ed è tua speranza e tuo conforto
Non ti stupir. Quando vedrai quel volto
forse mi scuserai. D’esserne amanti
non avrebbon rossore i numi istessi.
Chi più lieto di me? Megacle istesso
quanto mai ne godrà! Di’, non avrai
Megacle di’, non ti parrà felice?
Sì. Come vuoi. (Qual nuova spezie è questa
lungo è per me! Che l’aspettare uccida
già l’avvenir, già col desio possiedo
Ma taci. Assai dicesti. Amico io sono,
Perché ti sdegni? In che t’offendo?
(Imprudente, che feci!) Il mio trasporto
è desio di servirti. Io stanco arrivo
dal cammin lungo; ho da pugnar; mi resta
picciol tempo al riposo e tu mel togli.
(Strana voglia!) E ben, riposa. Addio.
Che intesi, eterni dei! Quale improvviso
fulmine mi colpì! L’anima mia
dunque fia d’altri! E ho da condurla io stesso
in braccio al mio rival! Ma quel rivale
è il caro amico. Ah quali nomi unisce
per mio strazio la sorte! Eh che non sono
le leggi d’amistà. Perdoni il prence,
ancor io sono amante. Il domandarmi
ch’io gli ceda Aristea non è diverso
dal chiedermi la vita. E questa vita
di Licida non è? Non fu suo dono?
Non respiro per lui? Megacle ingrato
e dubitar potresti? Ah se ti vede
con questa in volto infame macchia e rea
ha ragion d’abborrirti anche Aristea.
No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto,
obblighi d’amistà, pegni di fede,
gratitudine, onore. Altro non temo
che il volto del mio ben. Questo s’eviti
formidabile incontro. In faccia a lei,
misero, che farei! Palpito e sudo
confondermi, tremar... No, non potrei...
Ah, sei pur tu. Pur ti riveggo. Oh dio,
di gioia io moro. Ed il mio petto a pena
può alternare i respiri. Oh caro, oh tanto
e richiamato invano. Udisti alfine
la povera Aristea. Tornasti e come
opportuno tornasti! Oh amor pietoso!
Oh ben sparsi finor pianti e sospiri!
(Che fiero caso è il mio!)
E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto
cambiarti di color? Quel non mirarmi
che timido e confuso? E quelle a forza
lagrime trattenute? Ah più non sono
forse la fiamma tua? Forse...
Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)
Ma tu mi fai gelar. Dimmi; non sai
Perché... Barbari dei! (Che inferno è questo!)
dubitar di mia fé. Se ciò t’affanna,
ingiusto sei. Da che partisti, o caro,
non son rea d’un pensier. Sempre m’intesi
la tua voce nell’alma. Ho sempre avuto
il tuo volto nel cor. Mai d’altri accesa
non fui, non sono e non sarò. Vorrei...
che mancarti di fede un sol momento.
(Oh tormento maggior d’ogni tormento!)
se a combatter venisti. Il segno è dato
che al gran cimento i concorrenti invita.
Assistetemi, o numi. Addio, mia vita.
E mi lasci così? Va’, ti perdono
È pur dura la legge, onde n’è tolto
forse pena maggior veder chi s’ama
in cimento sì grande e non potergli
porger soccorso. Esser presente...
presente ancor lontana. Anzi mi fingo
forse quel che non è. Se tu vedessi
come sta questo cor! Qui dentro, amica,
qui dentro si combatte. E più che altrove
qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi
i giudici, i rivali. Io mi figuro
questi più forti e quei men giusti. Io pruovo
ciò che or soffre il mio ben. Gli urti, le scosse,
gl’insulti, le minacce... Ah che presente
solo il ver temerei ma il mio pensiero
fa ch’io tema lontana il falso e ’l vero.
Vedi Alcandro che arriva.
Fortunate novelle. Il re m’invia
nunzio felice, o principessa. Ed io...
Tutto dirò. Già impazienti intorno
Sì, che giunse poc’anzi a queste arene.
(Che ricompensa ingrata!)
v’è sotto il ciel chi possa dirsi, oh dio,
provar mai le mie pene. Ah tu non sai
qual perdita è la mia; quanto mi costa
quel cor che tu m’involi.
non comprendi abbastanza i miei tormenti.
dunque ancor tu venisti? A saggio invero
regolator commise il re di Creta
di Licida la cura! Ecco i bei frutti
di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta,
d’andarne altier. Chi vuol saper appieno
se fu attento il cultor, guardi il terreno.
(Tutto già sa). Non da’ consigli miei...
v’è giustizia per tutti e si ritrova
talvolta anche nel mondo. Io chiederolla
agli uomini, agli dei. S’ei non ha fede
ritegni io non avrò. Vuo’ che Clistene,
sappia ch’è un traditore. Acciò per tutto
questa infamia lo siegua. Acciò che ogniuno
e con orrore a chi nol sa l’additi.
degni d’Argene. Un consigliero infido
anche giusto è lo sdegno. Io nel tuo caso
più dolci mezzi adoprerei. Procura
ch’e’ ti rivegga; a lui favella, a lui
le promesse rammenta. È sempre meglio
fosti l’idolo suo. Per te languiva,
delirava per te. Non ti sovviene
Tutto per pena mia, tutto rammento.
Insana gioventù, qualora esposta
ti veggo tanto agl’impeti d’amore,
di mia vecchiezza io mi consolo e rido.
chi sta per naufragar. Non che ne alletti
il danno altrui ma sol perché l’aspetto
d’un mal che non si soffre è dolce oggetto.
non ha le sue tempeste? Ah che purtroppo
ha le sue proprie e dal timor dell’altre
sciolta non è. Son le follie diverse
ma folle è ognuno. E a suo piacer ne aggira
l’odio o l’amor, la cupidigia o l’ira.
che in mezzo a tanta gloria umil ti stai,
lascia ch’io baci e che ti stringa al seno.
che un tal figlio sortì! (Se avessi anch’io
chi sa? Sarebbe tal. Rammenti Alcandro
con qual dolor tel consegnai? Ma pure...)
(Tempo or non è di rammentar sventure).
sarà del tuo valor. S’altro donarti
Clistene può, chiedilo pur, che mai
quanto dar ti vorrei non chiederai.
(Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio
e di tenero padre. Ogni contento
è insipido per me. Di mie venture
giungergli apportator, chieder l’assenso
per queste nozze e, lui presente, in Creta
senz’altro indugio. In vece mia rimanga
servo, compagno e condottier.
è quello mai! Nel rimirarlo il sangue
mi si riscuote in ogni vena!) E questi
Creta è sua patria. Egli deriva ancora
dalla stirpe real. Ma più che il sangue
l’amicizia ne stringe e son fra noi
comuni a segno e l’allegrezza e ’l duolo
che Licida ed Egisto è un nome solo.
Egisto avrà. Ma Licida non debbe
pena maggior. Mi sentirei morire
nell’atto di lasciarla. Ancor da lunge
tanta pena io ne pruovo...
come vittima io vengo all’ara avanti.
(Sarà mio quel bel volto in pochi istanti).
Avvicinati, o figlia, ecco il tuo sposo.
se giammai più bel nodo in ciel si strinse.
come il mio bene?... Il genitor m’inganna).
(Crede Megacle sposo e se ne affanna).
E questi, o padre, è il vincitor?
di polve asperso? All’onorate stille
che gli rigan la fronte? A quelle foglie
Non più dubbiezze. Ecco il consorte a cui
il ciel t’accoppia; e nol potea più degno
ottener dagli dei l’amor paterno.
E voi tacete! Onde il silenzio?
è la presenza mia. Severo ciglio,
rigida maestà, paterno impero
sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora
quanto increbbero a me. Restate. Io lodo
quel modesto rossor che vi trattiene.
(Sempre lo stato mio peggior diviene).
è tempo ch’io mi scuopra).
non celar che t’affligge.
Finiamo di morir). Per pochi stanti
Va’. Fidati di me. Tutto conviene
ch’io spieghi ad Aristea.
io lo farò. Poco mi scosto. Un cenno
basterà perch’io torni. Ah pensa, amico,
di che parli e per chi. Se nulla mai
feci per te, se mi sei grato e m’ami
mostralo adesso. Alla tua fida aita
la mia pace io commetto e la mia vita. (Parte)
il mio contento esagerar; chiamarti
non son per me. Serbali pure ad altro
di parlarmi così? Giunto è quel giorno...
Ma semplice ch’io son. Tu scherzi, o caro,
ma coraggio Aristea. L’alma prepara
a dar di tua virtù la prova estrema.
Parla. Aimè! Che vuoi dirmi? Il cuor mi trema.
mille volte d’amar più che ’l sembiante
il grato cor, l’alma sincera e quella
che m’ardea nel pensier fiamma d’onore?
Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti e tale
fosse Megacle un dì da quel che dici?
se spergiuro agli dei, se fatto ingrato
al suo benefattor morte rendesse
per la vita che n’ebbe? Avresti ancora
amor per lui? Lo soffriresti amante?
Megacle mio sì scelerato?
se tuo sposo divien, Megacle è tale.
ecco ti svelo. Il principe di Creta
langue per te d’amor. Pietà mi chiede
e la vita mi diede. Ah principessa,
se niegarla poss’io dillo tu stessa.
coronar l’opra mia. Sì generosa,
adorata Aristea. Seconda i moti
d’un grato cor. Sia qual io fui finora
Licida in avvenire. Amalo. È degno
di sì gran sorte il caro amico. Anch’io
e s’ei t’acquista, io non ti perdo appieno.
Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle
precipito agli abissi. Eh no; si cerchi
miglior compenso. Ah senza te la vita
contro la mia virtù. Mi costa assai
il prepararmi a sì gran passo. Un solo
Soccorretemi o numi; il piè vacilla.
Freddo sudor mi bagna il volto e parmi
che una gelida man m’opprima il core.
mancando va. Più che a partir dimoro
Ardir. Vado, Aristea. Rimanti in pace.
Ah l’oppresse il dolor. Cara mia speme,
bella Aristea, non avvilirti; ascolta,
Megacle è qui, non partirò. Sarai...
Che parlo? Ella non m’ode. Avete, o stelle,
più sventure per me? No, questa sola
mi restava a pruovar. Chi mi consiglia?
Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe
crudeltà, tirannia. Restar. Che giova?
Forse ad esserle sposo? E il re ingannato
e l’amico tradito e la mia fede
e l’onor mio lo soffrirebbe? Almeno
partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo
a quest’orrido passo. Ora è pietade
l’esser crudele. Addio mia vita. Addio
mia perduta speranza. Il ciel ti renda
più felice di me. Deh conservate
questa bell’opra vostra, eterni dei,
e i dì ch’io perderò donate a lei.
Licida. Dove è mai? Licida.
Tutto. T’affretta, o prence,
Deh pensa ad Aristea. (Che dirà mai
quando in sé tornerà? Tutte ho presenti,
tutte le smanie sue). Licida, ah, senti.
Che laberinto è questo! Io non l’intendo.
Semiviva Aristea... Megacle afflitto...
torna agli usati uffici. Apri i bei lumi,
Ah, non dirmi così. Di mia costanza
Ebbe cor di lasciarmi in questo stato!
l’amore, la pietà? Se questi iniqui
numi, i fulmini vostri in ciel che fanno?
Son fuor di me! Di’, chi t’offese, o cara,
parla. Brami vendetta? Ecco il tuo sposo,
Tu quel Licida sei! Fuggi, t’invola,
nasconditi da me. Per tua cagione,
perfido, mi ritrovo a questo passo.
E qual colpa ho commessa? Io son di sasso!
Perfido a me? Voglio seguirla e voglio
sapere almen che strano enigma è questo.
l’abbandonata Argene. Anima ingrata,
che fu gran tempo il tuo piacer. Se pure
delle antiche sembianze orma vi resta.
mi sorprende costei? Se più mi fermo
Aristea non raggiungo). Io non intendo,
bella ninfa, i tuoi detti. Un’altra volta
Tu non m’intendi? Intendo
ben io la tua perfidia. I nuovi amori,
le frodi tue tutte riseppi e tutto
se tardi ti ravviso. Io mi rammento
gli antichi affetti e se tacer saprai
ingiuria più crudel? «Chi sa» mi dici!
Invero io son la rea. Picciole pruove
le vie che m’offri a meritar perdono.
io non mi vidi mai. Tutto è in ruina
raggiungerla, placarla... E chi trattiene
la principessa intanto? Il solo amico
potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno
sì bei giorni troncò? Trovisi; io voglio
ch’esempio di vendetta altrui ne resti.
Principe nol cercar. Tu l’uccidesti.
il ciel ch’io delirassi. Odimi. In traccia
mentre or di te venia, fra quelle piante
sento; mi fermo, al suon mi volgo e miro
prono già s’abbandona. Accorro; al petto
con l’altra il ferro svio. Ma quando al volto
pensa com’ei restò, com’io restai.
Dopo un breve stupore «Ah qual follia
io volea dirgli, ei mi prevenne: «Aminta,
dal profondo del cor. «Senza Aristea
non so viver né voglio. Ah son due lustri
che non vivo che in lei. Licida, oh dio,
m’uccide e non lo sa. Ma non m’offende,
suo dono è questa vita, ei la riprende».
come partico stral. Vedi quel sasso,
signor, colà che il sottoposto Alfeo
signoreggia ed adombra? Egli v’ascende
in men che non balena. In mezzo al fiume
si scaglia; io grido invan. L’onda percossa
balzò, s’aperse in frettolosi giri,
si riunì, l’ascose. Il colpo, i gridi
replicaron le sponde e più nol vidi.
or si scuopre al mio sguardo!
vadasi a ricercar. Da’ mesti amici
questi a lui son dovuti ultimi uffici.
Dove son! Che m’avvenne? Ah dunque il cielo
rovesciò l’ire sue! Megacle, oh dio,
Megacle dove sei? Che fo nel mondo
senza di te? Rendetemi l’amico,
ingiustissimi dei. Voi mel toglieste,
lo rivoglio da voi. Se lo niegate,
barbari, a’ voti miei, dovunque ei sia,
a viva forza il rapirò. Non temo
tutti i fulmini vostri; ho cuor che basta
d’Ercole e di Teseo le vie di morte.
Che in vergognoso esiglio
quindi lungi ti vada. Il sol cadente
a mentir nome, a violar la fede,
Non più. Principe, è questo
mio dover, l’ho adempito. Adempi il resto. (Parte)
il sen ti passerò... Folle che dico,
che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io,
io son lo scellerato. In queste vene
con più ragion l’immergerò. Sì, mori,
Licida sventurato... Ah perché tremi,
timida man? Chi ti ritiene? Ah questa
è ben miseria estrema. Odio la vita,
m’atterisce la morte e sento intanto
in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
da tanti affetti e sì contrari! Io stesso
minacciando tremare, arder gelando,
bramar la morte e non saper morire.
Lasciami. Invan t’opponi.
una volta in te stesso. In tuo soccorso
del pescator ch’or ti salvò dall’onde,
credimi, non avrai. Si stanca il cielo
d’assister chi l’insulta.
inumana pietà! Niegar la morte
a chi vive morendo. Aminta, oh dio,
s’io mi affretto a morir, tu torni in vita.
adorata Aristea, la mia sventura.
Io non posso morir. Trovo impedite
tutte le vie per cui si passa a Dite.
nuovi disastri, Alcandro?
se ’l ciel nol difendea, ne avrebbe involti!
Già sai che per costume antico
questo festivo dì con un solenne
sacrificio si chiude; or mentre al tempio
la sacra pompa a celebrar Clistene,
perché non so né da qual parte uscito,
ci attraversa il cammin. Non vidi mai
più terribile aspetto. Armato il braccio,
nuda la fronte avea, lacero il manto,
scomposto il crin. Dalle pupille accese
uscia torbido il guardo e per le gote
d’inaridite lagrime segnate
traspariva il furore. Urta, roverscia
i sorpresi custodi. Al re s’avventa:
«Mori» grida fremendo e gli alza in fronte
il re sito o color. Severo il guardo
gli ferma in faccia e in grave suon gli dice:
«Temerario! Che fai?» Vedi se il cielo
veglia in cura de’ re. Gela a que’ detti
il giovane feroce. Il braccio in alto
sospende a mezzo il colpo. Il reggio aspetto
attonito rimira, impallidisce,
incomincia a tremar, gli cade il ferro
minaccioso parea, prorompe il pianto.
nulla risponde. È reo di morte e pare
che nol sappia o nol curi. Ognior piangendo
il suo Megacle chiama; a tutti il chiede.
Lo vuol da tutti e fra’ suoi labbri, come
altro non sappia dir, sempre ha quel nome.
Più resister non posso. Al caro amico,
sarebbe il tuo disegno? Il genitore
sa che Megacle sei. Perdi te stesso,
presentandoti al re, non salvi altrui.
consiglio assai miglior che il padre offeso
vada a placargli io stessa?
o pietosa Aristea. Facciano i numi
quell’alma bella in questa bella spoglia
lungamente albergar; ben lo diss’io,
quando pria ti mirai, che tu non eri
cosa mortal. Va’, mio conforto...
mi costringe a voler ciò che tu vuoi.
la pietà d’Aristea. Chi sa se ’l padre
però si placherà? Troppa ragione
ha di punirlo. È ver, ma della figlia
lo vincerà l’amore. E se nol vince?
veder come l’ascolta. Argene, io voglio
non prender di costui. Vedi che il cielo
è stanco di soffrirlo. Al suo destino
Lasciar l’amico! Ah così vil non sono.
sento pietade anch’io. Tento sdegnarmi,
n’ho ragion, lo vorrei ma in mezzo all’ira,
mentre il labbro minaccia, il cor sospira.
dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato!
la mia pietà. Ma più mirar non voglio
quel volto ingannator. L’odio. Mi piace
di vederlo punir, trafitto a morte
non verserei per lui stilla di pianto.
Misero dove fuggo? Oh dì funesto!
Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi
molti compagni, onde già mai non sono
Non v’è più che sperar. Contro di lui
gridan le leggi, il popolo congiura,
fremono i sacerdotti. Un sangue chiede
l’offesa maestà; de’ sagrifici,
che una colpa interrompa, è il delinquente
vittima necessaria. Ha già deciso
il pubblico consenso. Egli svenato
fia su l’ara di Giove. Esservi dee
l’offeso re presente e al sacerdote
porgere il sacro acciaro.
già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori
io coronar gli vidi e il vidi, oh dio!
incaminarsi al tempio. Ah forse è giunto;
la bipenne fatal gli apre le vene.
Giunse ma nulla ottenne. Il re non vuole
che ne andavano in traccia. Or l’ascoltai
di morir per l’amico. E se non fosse
ottenuto l’avria. Ma un reo per l’altro
O forte! O generoso! Ed io l’ascolto
senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi
l’amistà che l’amore? Ah quali io sento
d’un’emula virtù stimoli al fianco.
Sì, rendiamoci illustri; infin che dura
parli il mondo di noi; faccia il mio caso
meraviglia e pietà né si ritrovi
chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.
Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde
tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh dio,
senza Licida io vado? Io l’educai
con sì lungo sudore. A regie fasce
io l’innalzai da sconosciuta cuna
partir così? No. Si ritorni al tempio,
dell’oltraggiato re, Licida involva
si mora di dolor ma accanto a lui.
Giovane sventurato, ecco vicino
de’ tuoi miseri dì l’ultimo istante.
Tanta pietade, e mi punisca Giove
se adombro il ver, tanta pietà mi fai
che non oso mirarti. Il ciel volesse
che potess’io dissimular l’errore.
Ma non lo posso, o figlio. Io son custode
della ragion del trono. Al braccio mio
illesa o vendicata a chi succede.
necessario è così, come penoso
il dover con misura esser pietoso.
a desiar, fuor che la vita, esponi
libero il tuo desire. Esserne io giuro
fedele esecutor. Quanto ti piace,
figlio, prescrivi e chiudi i lumi in pace.
non di giudice e re que’ detti sono,
non lo spero, nol chiedo e nol vorrei.
ch’io la vita pavento e non la morte.
pria di spirar. Già ch’ei rimase in vita,
d’abbracciarlo una volta e lieto io moro.
Signor tu piangi? E quale
eccessiva pietà l’alma t’ingombra?
stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,
la voce di costui nel cor mi desta
che lo risente in ogni fibra il sangue.
la cagion ne ricerco e non la trovo.
Che sarà, giusti dei, questo ch’io provo?
di verace amistà. Megacle amato,
voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,
Licida, non andrai. Noi passeremo
ombre amiche, indivise il guado estremo.
O delle gioie mie, de’ miei martiri,
finché piacque al destin, dolce compagno,
separarci convien. Poiché siam giunti
quella destra fedel porgimi e senti;
vivi; io bramo così. Pietoso amico,
chiudimi tu di propria mano i lumi,
ricordati di me. Ritorna in Creta
al padre mio... Povero padre! A questo
preparato non sei colpo crudele.
raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto
lo raccomando a te. Se piange, il pianto
e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio.
resister più. Guarda que’ volti, osserva
que’ teneri sospiri e que’ confusi
fra le lagrime alterne ultimi baci.
l’ora permessa al sacrificio.
la vittima prendete. E voi custodi
volete dal mio sen svelto il cor mio.
O degli uomini padre e degli dei,
il mar, la terra, il ciel, di cui ripieno
è l’universo e dalla man di cui
pende d’ogni cagione e d’ogni evento
sacra vittima accogli. Essa i funesti,
vengo a renderla a Giove. Una io vi reco
vittima volontaria ed innocente
pel più forte morir non è permesso.
per lo sposo a una sposa. In questa guisa
serbò la vita Alceste e so che poi
l’esempio suo divenne legge a noi.
in pegno la sua destra e la sua fede.
son più folle di te. D’un regio erede
né son Licori. Argene ho nome; in Creta
chiara è del sangue mio la gloria antica.
E se giurommi fé Licida il dica.
questa volta pietà). No, non è vero.
Come! E negar lo poi? Volgiti, ingrato,
se me non vuoi. L’aureo monile è questo
ebbi da te. Ti risovvenga almeno
che di tua man me ne adornasti il seno.
sacri ministri, eterni dei, se pure
n’è alcun presente al sacrificio ingiusto
protesto innanzi a voi, giuro ch’io sono
morir per lui; né... Principessa ah vieni,
ch’io mi riduca a delirar con voi?
Parla. Ma siano brevi i detti tuoi.
io tacerò. Van di tai fregi adorne
Se ’l riconosco? È quello
che al collo avea, quando l’esposi all’onde,
Tremo da capo a piè). Licida sorgi,
morir per me. Fu la promessa occulta;
non ebbe effetto e col solenne rito
il genitor degli anni miei la cura.
Rispondi e non mentir. Questo monile
qualche traccia in quel volto. Io non m’inganno.
Certo egli è desso). Ah d’un antico errore,
mio re, son reo. Deh mel perdona. Io tutto
non esposi il bambin, pietà mi vinse.
mi venne innanzi e gliel donai, sperando
E quel fanciullo, Aminta,
empio, di’, che ne fu? Tacendo aggiungi
all’antico delitto error novello.
L’hai presente, o signor, Licida è quello.
finì la vita. Io, ritornato appunto
con lui bambino in Creta, al re dolente
l’offersi in dono; ei dell’estinto invece
al trono l’educò per mio consiglio.
Ah numi, ecco Filinto, ecco il mio figlio.
gemello ad Aristea. Delfo m’impose
d’esporti al mar bambino, un parricida
l’orror che mi gelò, quando la mano
l’eccessiva pietà che nel mirarti
Megacle d’Aristea vorrei consorte
ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.
Non è più reo quando è tuo figlio.
permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro
a dimostrar valor; l’unico esempio
esser degg’io di debolezza? Ah questo
di me non oda il mondo. Olà ministri,
risvegliate su l’ara il sacro fuoco.
Va’ figlio e mori. Anch’io morrò fra poco.
Tu non puoi condannarlo. In Sicione
sei re non in Olimpia. È scorso il giorno
a cui tu presiedesti. Il reo dipende
dunque il pubblico voto. A pro del reo
non prego, non comando e non consiglio.