Ergilda, addio. (In atto di partire)
l’empio balzato usurpator del regno,
allor sarò de’ sguardi tuoi più degno.
Nanzi del tuo partire, il sacro nodo
la destra tua porgimi pria.
eccola... (Ma che fo? Dorisbe, oh dio!
così pure favella entro al cor mio). (Da sé)
che risponder non so). (Da sé)
più di quel che giurasti. A me promessa
non hai la fede tua? Non furo i numi
testimoni di ciò? Pentito forse
ti sei del giuramento o pur non sono
or ch’ei si fa vendicator d’un trono?
né per giro di tempo o di fortuna
fin che tutto ad amor non cede il loco
l’ira nel petto mio, finché di Marte
non si accheta il furore, arder mal puote
di giocondo imeneo tranquilla face;
splenderà allor che si ameremo in pace.
misero core, ad un sì duro affanno
come resister puoi? Se non mi uccide
per estremo dolor, no, non si muore.
che gl’avvenne? Che fa? Partito è forse
senza almen congedarsi? Alla battaglia
solo o con pochi andò? Deh non tenermi
tanta cura di lui? Sei forse amante?
(Learco traditor! Questo è l’arcano). (Da sé)
spargasi in questo giorno il sangue mio,
spargi al vento i sospiri e l’ami invano.
dimmi o bella il perché. (A Dorisbe)
Io lo dirò; perché Learco adora.
Numi! Che sento mai? Possibil fia
a un ignoto stranier posposto Argeno?
farebbe insuperbir nel possederti,
non che donna vulgar, figlia reale.
Sol io, nel di cui sen destino impera,
conosco i pregi tuoi né posso amarti.
potrebbe ancor, di tue ripulse ad onta,
favelli, Argeno, a chi piacer pretendi?
è desio giovanile e non amore.
l’onte del tuo rival soffrir in pace?
se codardo ti rendi. Ah questa volta
Va’; ritrova Learco; a lui palese
fa’ ch’ei ceda Dorisbe e in premio ad esso,
guarda dove per te giugne il mio affetto,
offrigli la mia destra ed il mio letto.
usa l’ardir; vibra la spada e mora.
a Dorisbe piacer come potrei?
Ama tanto la donna, quanto spera.
Serbar la fede ad un amante estinto
non è usata virtù. S’ei cade, hai vinto.
Misero!... Ma che fo? Ma che più tardo
il consiglio d’Ergilda a porre in uso?
Si ricerchi Learco e se rimane
provi il furor d’un disperato amante.
che d’un empio tiran si scuota il giogo.
Da che l’avidità de’ re stranieri
fu di noi vincitrice o da noi vinta
contro questa felice ultima parte
volger l’armi superbe. Eccoci adesso
minacciati, assaliti; e ciò fia poco;
de’ cittadini. Quelle spade istesse,
che i miseri han svenato, oggi rivolte
son contro noi; felice quello a cui
servon d’esempio le miserie altrui.
oggi esporla per voi. Mi raccoglieste
povero, abbandonato ed han due lustri
che figlio son di Dalecarlia anch’io.
Che più si tarda? Ecco il pensier costante
degno di noi. O trionfare appieno
o invendicati non cadere almeno.
la tua destra, il tuo core; e se tu sei
liberator del nostro afflitto regno
il suo regge, il suo padre, il suo sostegno.
Or pensiamo a pugnar. Sarà fra noi
tutto l’onor della vittoria.
oh degna d’ogni lode anima invitta!
d’incognito stranier che in te si asconde
un eroe della terra o pur del cielo.
Tanto non vi trasporti il vostro zelo.
vidi al piano innondar le selve e i prati
passò di voce in voce e fra la turba
delle pavide genti altro non s’ode
che sospiri, che pianti e che lamenti.
chi cerca il padre e chi nasconde il figlio.
Dorisbe, non temer, vedrai fra poco
Learco è il duce e per noi pugna il cielo.
partir senza mirarmi? Ov’è l’affetto?
La tua fede dov’è? L’estremo addio
tradisca il mio dover. Sai quanto io t’amo
il primo duce delle schiere eletto;
pria si servi alla gloria, indi all’affetto.
troverà l’amor tuo che la tua gloria.
Amo Dorisbe anch’io; per te l’ingrata
mi disprezza spietata e nulla cura
Cedila generoso. In ricompensa
ma perdonami, amico, io non ho core
Se cederla ricusi, a questo brando
giovanile furor? Serba l’acciaro
della tua patria a vendicar le offese.
vieni, passa il mio sen, col petto ignudo
a Learco, al mio bene io farò scudo.
(Ira, amor, che far deggio?)
Germano, a che quel brando?
mi contrasta Dorisbe. Ardisce il cambio
da Dorisbe difeso. A miglior tempo
Cangia pensiero o di morir ti aspetta. (Parte)
sino d’Argeno a provocar lo sdegno?
ad Ergilda pur or gl’affetti tuoi?
Via, la tua infedeltà niega, se puoi.
colle menzogne tue coprir la frode.
La debolezza tua, la tua incostanza
debole assai nel rimirar Dorisbe.
ma infedel non ti sono. Adoro in lei
il suo volto, il suo cor ma non mi scordo
eppur di queste mie doppie ritorte
Fato, sorte, destin son nomi vani,
di’ che non mi ami più; questo, spietato,
è il tuo vero destin, questo è il tuo fato.
Se mi vedeste il cor, cotanti insulti
non avria la mia fé, spergiuro, ingrato
Movetevi a pietà, non m’imputate
ciò che destina il cielo.
della tua fé? Vuole che il primo affetto
cancelli dal tuo cor? Fa’ almen che sappia
Ecco, Ergilda, Dorisbe, il stato mio.
rammentati chi sei, pensa chi sono.
Tu straniera, tu ignota, io grande, io figlia
del maggior de’ vassalli. Or la mia pace
Non contrasto il tuo amor, difendo il mio. (Parte)
delle sventure mie... Ma già d’intorno
lo strepito guerrier strider io sento.
del destin di Learco... Ah che quest’alma
non sa voti formar; s’ei cade estinto,
pere la speme mia; ma s’egli vive,
Se lo temo d’altrui, gelosi affanni.
Fate quel che vi aggrada, astri tiranni.
Felicissimo giorno in cui riaquista
la nostra libertade il fregio antico.
l’importuno pallor. Richiama il riso
sulle timide labbra. Io stesso, io stesso
per l’afflitto mio cor. Deh, padre amato,
assicurar ti puoi? Non mi dicesti
di costei le lusinghe, ah se tu m’ami,
padre, lungi da noi scaccia l’ingrata.
l’abbandonar un’infelice.
fia del tuo cor la tenerezza eguale?
de’ nostri antichi re l’ultimo germe.
giunse nelle tue man? Da cruda belva
difesa per pietà? Che i suoi natali
per celare l’arcano. Io la sottrassi
dalla stragge crudel del regio sangue.
Tutti i figli del re, tutti i nipoti
di coltello perir. Solo in Gustavo,
vivea la nostra speme; e questo pure
ci tolsero li dei. Son già due lustri
che somerso è nell’onde. Or questa figlia
l’avanzo è sol della regal famiglia.
per frenar l’ira tua. Finché Dorisbe
si crede tale, è tua soggetta. Averti,
cederle i primi onori il tuo rispetto.
Tutto le cederei fuor che l’affetto.
Ma qual suono? Quai gridi? Ecco Learco;
Cotanto ardire ogni misura eccede.
Achetatevi, amici, e il vostro zelo
sciolga i suoi voti e renda grazie al cielo.
generoso garzon. Tu rendi a questa
patria, un tempo infelice, il suo riposo.
formar applausi alle tue glorie anch’io.
nulla si deve a me. Le calde preci
del popolo fedel giunsero al cielo
tutte pugnar le intelligenze eterne.
la favella qual sia de’ veri eroi.
celar la tua virtù. Come nel seno
così questo tuo cor fosse pietoso.
distruttor de’ nemici. Anch’io, Dorisbe,
fui compagno al trionfo e vinsi anch’io.
vuoi funestar con tue follie la pace?
per cui piango e sospiro il mio riposo.
più rispetto al mio grado; e il genitore
più pietoso vorrei d’un figlio al core.
il tuo benefattor. Del padre in faccia
modera il troppo ardir. Serba il tributo
dal cor del figlio al genitor dovuto.
(Taccia per or lo sdegno. A miglior tempo
vendicarmi saprò). (Da sé) Deh chi di voi
compatisca i trasporti al mio dolore.
di compita vittoria il certo frutto?
Non v’è più che temer. L’usurpatore
cadde fra’ primi. Al suo cader le schiere
volsero a noi le spalle. I nostri brandi
le giunsero però. Pagar col sangue
gl’ostinati l’ardir; ma fu da noi,
sparmiato il sangue a chi versava il pianto.
pria che tramonti il sole. Affar non lieve
teco deggio trattar. Voi me seguite. (Al popolo)
andiamo, amici, a ringraziar nel tempio. (Parte col popolo)
d’amore e gelosia! (Da sé)
(Come tosto mirò d’Ergilda il volto!) (Da sé)
per te vivere in pene? (Ad Ergilda)
Ecco l’oggetto (Additando Dorisbe)
che saprà consolarti. In lei, Learco,
Deh Ergilda, idolo mio...
Non tormentarmi più; sai qual destino
mi condanni a soffrir doppi legami.
È destino comun che un core amante
la dolce tirannia di sue catene.
questo è dolor che ogni dolore avanza.
rasembra agl’occhi miei vezzosa e bella.
lasciarne una non posso. Ah vuol fortuna
ch’io l’ami entrambe e non ne speri alcuna.
E Learco non viene? Ah non v’è al mondo
piena felicità. Chi più contento
oggi di me? Ma il pertinace affetto
turba la pace mia. Rivali entrambe
m’obliga amore a non tradir la figlia.
Figlio, sediamo (Siedono sui sedili erbosi)
privileggio d’età che porto in fronte
mercé del tuo valor, pace nel regno.
di cruda servitù, dispor potiamo
della nostra corona. Il popol tutto
quel che tu gli serbasti or t’offre in dono.
d’un popolo fedel che il trono stesso,
nol ricuso però. Ma Dalecarlia
picciola parte è del svezzese regno;
Tutti deggiono a te la libertade;
tennero intelligenza. Arbitro io sono
tal arcano scoprir, sicché dovuto
di sangue, di ragion parlar non devo.
Sol dalle vostre mani io lo ricevo.
Qual sangue? Qual ragion?...
non spiegarmi di più. Verrà fra poco
Signor perdona... (S’alza)
No, se piacer mi vuoi, siedi e ragiona.
e, benché fossi ancor di regio sangue,
vogliono sol del nostro sangue i reggi.
a seconda de’ casi anco i decreti.
Or prevale l’affetto. A un tal diritto
ciascun rinunzierà. Questo sol chiede
il popolo da te; vuol che una sposa
si assicuri la patria i reggi suoi.
che spiacer non ti può. So che Learco
ma non mi è noto a chi la mano ei serbi.
Sai ch’Ergilda è mia figlia e ciò sol basta
perché sia di te degna. Io ti assicuro
sangue illustre in Dorisbe. O questa o quella
queste del popol tuo le leggi sono.
Io sceglier? Come mai? Le adoro entrambe,
tutte e due, se non scegli.
restino in libertà gl’affetti miei.
S’una di queste due mi costa il soglio,
cedo lo scettro e più regnar non voglio.
Torna in te stesso. (S’alza e Learco sta sedendo)
Febo sen riede, a riposar va’ intanto.
Ti attendo al nuovo dì. Sì, mi lusingo
di mirar la tua pace in altro stato.
scherzo di ria fortuna? Iniqua sorte,
mi togliesti dal piè le rie catene
per raddopiarle al cor? Non ti bastava
i tre lustri d’esilio? Oggi che torno
degl’avi miei sul soglio, oggi, crudele,
mi tormenti così? Perché da morte
mi salvasti? Perché, barbara sorte?
qualche tregua fugace al suo dolore.
Deh immagini d’Ergilda e di Dorisbe,
deh non venite a tormentarmi il seno. (S’addormenta)
viver non posso... Oh numi! Eccolo; ei dorme.
povero afflitto cor? Coraggio... Ah veggo
Ombre gradite, a consigliarmi io vegno.
Deggio morir? Deggio sperar... Ma oh dio.
Qui dorme l’idol mio? Caro, il riposo
non ti turbin giammai larve funeste.
Godi... Gente s’avanza. Io qui mi celo. (Si ritira in un viale di sotto)
il superbo rival dell’amor mio.
fido la mia vendetta. Ah che dal core
sento rimproverarmi il tradimento.
la man che lo svenò, mi rendo poi
men orribile oggetto agl’occhi suoi. (Parte)
Che ascoltai? (Nell’atto che l’arciere vuole scoccar il dardo, Ergilda e Dorisbe l’arrestano. La prima gli leva l’arco, l’altra lo strale, l’arciere fugge)
se a tempo io non giungea.
Ad entrambe degg’io dunque la vita?
(Ahi qual nuovo contrasto alla mia fede!)
Ergilda, oh dio! mi chiamerai spietato,
crudo, lo so, mi chiamerai, Dorisbe;
ma che farvi poss’io? Per esser fido,
vi rassembro incostante. All’una o all’altra
manco s’io scelgo e se non scelgo, oh dio!
peno e merto non spera il penar mio.
tuo ben, tua vita? Non son io colei
più la speranza tua. Non ti sovviene
Venga Ergilda e Dorisbe, indi Learco. (Ad una guardia che parte)
d’un figlio disperato il furor cieco?
nel fren della ragion. Ch’ei non ardisca
Sì, son quell’io che non soffrendo
di crudel gelosia l’aspro tormento
non ha limiti, o padre, ah nel negarmi
del mio furor fosti cagion tu stesso.
per te privo d’amor, cela il delitto.
deve sceglier la sposa e se Dorisbe
quella non è, forse non speri invano.
l’adorata Dorisbe, il mio contento
potrà far che mi scordi ogni tormento.
per il ben, per la pace. (Siede al tavolino)
Da Learco che vuoi? (Qual vista? Oh dio!) (Da sé)
Figlie sedete; qui, Learco; in pace
(Che dirà?) (Siedono Ergilda e Dorisbe vicine e Learco presso ad Ernesto)
stravaganze d’amor simili a queste.
e per esser fedel diviene ingrato.
infelici rivali; e tutti intanto
altro frutto d’amor non han che il pianto.
è un continuo morir. Deh risolvete;
ceda alcuno di voi. Su via, miei cari,
continuate a penar. Mira, Learco,
degni dell’amor tuo. Potrebbe un solo
farti felice e, perché due ne adori,
nella miseria tua ti struggi e mori.
di viver mesto e di morire ingrato.
Orsù, vi compatisco. Il so; Learco
della bella delusa. E voi temete
che un atto di viltà sia la cessione
di un amante sì caro. Evvi un rimedio
opportuno però. Se il vostro core,
quanto all’uopo si chiede, opri la sorte.
scritti ho i nomi distinti. Eccoli; in questa
urna son chiusi. Or tu, Learco, in essa
tranne sol una e quella fia tua sposa.
(Spera mio core). (Da sé)
al consiglio d’Ernesto i pensier miei.
(Assistetemi voi, pietosi dei). (Da sé)
le ripulse del cor. Già del mio affetto
arbitro rendo il ciel. Dorisbe, Ergilda,
Learco spiacerà. Ma Ernesto, il regno,
il popolo, il dover, tutto m’astringe
al momento fatale. In testimonio
chiamo i numi del vero. Ecco, la mano
stendo di già... Ma dov’è l’urna? Oh dio!
Non la discerno più. Trema la terra,
vacilla il piè. S’abagliano le luci.
Non ho cor, non ho voce. Ah m’ha tradito
viltà forse vi sembra e pure è fede. (Siede)
Non so... Vorrei... ma il ciel... ma, se la sorte...
ministra del destin. Già traggo...
Ah ferma. (S’alza trattenendogli il braccio)
l’esito funestare. I miei trasporti
non sono in mio poter. Deh, se t’aggrada
un periglio vietar, lascia ch’io vada.
reca pena maggior quel che si teme;
il tormento maggior di chi ben ama.
testimoni del caso i vostri lumi.
L’affetto mio vi raccomando, o numi.
Ite, amici, a Learco. A lui reccate (Alle guardie)
che Dorisbe è sua sposa e a Dalecarlia
ch’ella è la sua regina. A caso il fato
in Dorisbe non opra. Oggi saprete
di qual sangue ella sia. (Partono le guardie)
nelle sventure mie? Questo mio pianto
questo del sesso tuo debol costume,
il tuo senno, il tuo volto, il tuo natale,
deh non mostrarti alle più vili eguale.
compatisco il tuo duol...
dalla presenza mia. Fuggi da questa
disperata rivale. Ah se più resti
Farò quel che mi detta il mio furore.
né ragion né dover. Già trasportarmi
sento dall’ira mia. Sì morir deggio.
ma non da vil, ma non invendicata.
il popolo consola; egli è impaziente
di vedere il suo re. Ma pria la destra
immagini d’Ergilda! (Da sé)
Così accogli la sposa? Ah dove sono
le tue dolci parole, i sguardi, i vezzi?
Amante ti piacea, sposa mi sprezzi?
cangiato in me l’amore, anzi paventa
un ignoto stranier mirar sul soglio.
nunzio di quel Senato. Ei ci assicura
l’orgogliosa Dorisbe). (Da sé in disparte)
Ernesto, il figlio tuo. Vive cotesto
de’ monarchi svezzesi ultimo germe.
del popolo fedel. Sarà contento.
Regni dunque Gustavo e quello io sono.
può temersi in costui. Dov’è quel foglio
diero in man di Gustavo? Il nunzio afferma
foglio chiuso è l’arcano; aprilo, Ernesto. (Dà un foglio ad Ernesto che lo apre e legge piano)
(Ecco un nuovo tormento all’alma mia). (In disparte)
Sì sì, questo è Gustavo. Il regio impronto,
tutto, tutto conosco, ah che bastante
prova sarebbe il suo valor. Signore,
un nemico di meno aver credesse.
Al mio liberator giurai che solo
che avessi di mia man l’empio svenato.
stravaganze inaudite! Errò la sorte,
(Oh cecità di nostra mente umana!)
Sappi ch’ella è Clotilde, è tua germana.
Può la mia fede (A Dorisbe)
Grazie, superni dei, grazie di tante
fortunate vicende; e chi mai vide
ad un gran re la sua corona il cielo?