Metrica: interrogazione
519 endecasillabi (recitativo) in La generosità politica Venezia, Rossetti, 1736 
che sempre intorno al mesto cor t’aggiri
bel desio di vendetta in sen m’inspiri,
non temer di mia fé, riposa in pace;
dalla man d’una figlia in brieve aspetta
di tua barbara morte aspra vendetta.
Ma vien Pericle. Idolo mio che rechi?
Giace estinto il tiranno? Hai tu saputo
meritar l’amor mio col giusto colpo?
Non s’intraprese mai contro un tiranno
                                Dunque riserba
desio di libertà l’antica patria?
quando meglio il potea vile nol fece?
Non si conosce il mal se non si prova.
                                            Oronte ancora?
È il miglior de’ miei fidi e in lui riserbo
il segreto più grande. Io veggo un messo.
                             Noi lo saprem dal foglio. (Un paggio presenta un biglietto a Pericle. Legge il foglio)
Pisistrato signor di questo impero».
Cielo. Di’ che verrò. (Al messo che parte)
                                       Temo sventure.
de’ congiurati i primi capi è segno
                                         E che far pensi?
                                    Ah! Non vorrei...
Vano è il timor. Se penetrò il disegno,
non per questo il tiran potrà sfuggirlo.
Ahi, che del tuo periglio ancor pavento.
Se a te servo morendo, io son contento.
Aggiunge messi a messi; io già pavento
                                  Partì poc’anzi.
                                            Nulla si scosse.
Pieno di bello ardire, andò cred’io
                                          Corri dunque...
il periglio maggior dell’alma mia.
Ho la morte nel seno e pur non moro.
Parta ciascun fuorché Pericle e Oronte. (Partono le guardie)
Sedete amici e se fia ver ch’Atene
frutto del mio valor, cinsi il diadema,
mille labbra mordaci ascolto e miro;
                             Noi siam di libertade
contro te l’odio mio, se tu mel chiedi,
che impose alla sua patria empie catene.
vostro re, vostro duce altro non chiedo
                                       Eh che non soffre
questa parte di Grecia e nacque e visse.
visse Atene finor ma qual n’è il frutto?
fasto ne’ grandi e negli abietti invidia,
questo vostro terren del vostro sangue.
siede un monarca a moderar l’orgoglio
respirò questa patria. Oh voi felici
se un regnante pietoso... Eh ben m’aveggo
che pongon freno alla volgar licenza,
Via, sarete contenti; ecco mi spoglio
l’aurea corona e vi ridono il soglio. (Si cava la corona)
                             (Quasi lo sdegno è vinto).
Magnanimo signor quest’atto illustre
                                        Pericle aspetta.
che cotanto mi costa e sangue ed oro,
voglio ancora una volta usarne almeno
qual era il re che ricusato avete. (S’alza e si ripone la corona)
sia primo duce Oronte, in le sue mani
stia il destino d’Atene e la mia vita.
né temer che t’insidi Oronte il trono.
                                            Sire sapesti
superar l’odio mio con tua virtude.
Troppo ingiusto saria togliere un regno
a chi regnar nel mondo tutto è degno.
del mio folle disegno il fine incauto;
Così ciascun di voi siegua il mio esempio.
La catena d’un re giusto e clemente
                                         Cinga il tuo capo
questo del tuo valor frutto ben degno.
(Ho perduto il mio bene, ardo di sdegno).
                                         I voti miei
per te sono, o signor (a miglior tempo
                                            Or sì che lieto
ma chi sul cor de’ cittadini impera.
nel suo folle pensier l’uomo s’inganna.
d’un labbro infido i simulati accenti.
                                So che ti vinse il dono
Come bastò nel tuo l’illustre incarco
                             Eh semplicetto, io finsi
Finga chi può. Chiudo nel petto un core
                                            Ma se di Nicia
non t’avesse proposto il dolce nodo,
s’io non sono la rea, penare io deggio?
seco ho il sangue commun ma non il core.
                                    Sian grazie ai numi.
                                          Anzi giammai
con maggiore costanza io non t’odiai.
                                Dirla non deggio.
                                                                  Ingrato.
Per te piango crudel, per te mi struggo.
                                   Per non guardarti io fuggo. (Parte)
                                                   Io non comprendo
                                              Ama egli forse
Ciò palese non m’è. Senti Rosmiri,
soffri senza lagnarti il fier rigore.
onde avrà la sua pace anche il tuo core.
è il solito velen che l’alme inganna;
speriamo il bene e intanto il mal ci affanna.
                                     Dunque il tiranno
così tosto eseguisti il mio comando?
Dov’è del padre mio l’empio uccisore?
Vuo’ aprirgli il sen, vuo’ lacerargli il core.
Nicia, frena lo sdegno; io non uccisi
                                        E chi l’uccise?
e di regno e di vita oggi più degno.
prove mi diè; ceder voleva il trono;
Vinse la sua passion, vinse sé stesso.
Nicia dell’alma sua parte più cara.
La sua virtù per sì grand’atto è chiara.
Va’, che un vile tu sei. Ti fe’ spavento
di punir col mio sdegno un tanto eccesso.
senza sangue versar stringer assieme,
                                     Sparger quel sangue
                                         Va’ dunque ingrato,
siegui la sua virtù, lascia d’amarmi;
Ch’io t’odia? Ch’io non t’ami? Ah di’ più tosto
                                      Io non mi curo
del viver tuo né la tua morte io bramo.
                                               Perché non t’amo.
                                    Non t’ingannai.
Ma più grato al mio core io ti sperai.
                                        Sorgi mendace.
Fuggi dagli occhi miei; se a vendicarmi
altra ragion che il tuo voler non vedo.
M’ingannasti una volta, io non ti credo.
                                        Del giuramento
degnami almeno; all’amor mio costante
sperami all’amor tuo; ma se m’inganni,
saranno gli odii miei sempre tiranni. (Parte)
ingannarlo, tradirlo! Ah no, più tosto...
Ma il giuramento mio? Che fo? Che tento?
Eh Pisistrato! Oh Nicia! Oh giuramento!
Volgasi il piè... Ma dove? Ah che non posso
muovere il piè, se mi trattiene il core.
deh porgete consiglio a’ pensier miei.
il dovere d’amico e quel d’amante.
ch’esser doveva il barbaro stromento
d’una morte più ingiusta, entro il mio seno
passi con più ragion. (In atto di ferirsi)
                                         Ferma Pericle,
per la giurata impresa. Il tuo rossore
                                            Eh di menzogne
l’opportuno coraggio, io già t’assolvo.
deggio usare il valore e non l’inganno,
sfiderò il tuo nemico, andrò io solo
contro l’armate squadre; allor saprai
s’era vile il mio core e s’io t’amai.
No no. T’arresta pur; d’un disperato
passati pur il sen, ch’io già t’obblio.
Deh se deggio morir, fa’ almen ch’io speri
                                      Assai t’inganni.
                                                        Risolvi
o vendicarmi il padre o t’abbandono.
                                        M’assolve il cielo,
M’ingannasti fellon... (Ma viene Oronte.
l’affetto di costui contra l’infido).
                                   Dal mesto ciglio
comprendo, Oronte, il tuo celato arcano.
                                            Nicia adorata
                                       Hai core in seno
                                        E sangue e vita,
                                  Va’ dunque ardito,
                                      Ah! Più non posso
l’oltraggio tolerar. Nicia t’intendo.
saprei, fuor che vederti ad altri in braccio.
Ed io sarò per compiacerti ingrato. (Parte)
Prevenirlo vogl’io... (In atto di partire)
                                      Ferma, potresti
d’uccidere il tiranno, avranne il premio?
                           E vuoi ch’io soffra adunque
ch’ei mi preceda! Nol farò... (In atto di partire come sopra)
                                                     T’arresta.
Nicia crudel, gl’inganni tuoi previdi.
Ma se pianger degg’io, non vo’ che goda
                                  Dove rivolgi
                                      Ragion non rendo
                                        Forse di Nicia
                                        Che dir vorresti.
Tu mi sprezzi a ragion, poiché di Nicia
                         Tu mi deridi. Intendo
del pungente tuo labbro i falsi accenti.
che vuo’ Nicia adorar, benché crudele,
che abborisco il tuo cor, benché fedele.
giunsi per il rigor d’un core ingrato!
Ma non dispero ancor. Chi sa. Potrebbe
vincer d’Oronte il pertinace orgoglio.
Vuo’ serbar fede e lusingarmi io voglio.
                                                    Io stesso
se tradito son io da’ miei più cari?
che far di più potea? Ma dimmi Oronte,
se il popolo d’Atene a ciò consente.
questa saria; se un tradimento indegno
non punisci, signor, qual tema avranno
                           Purtroppo, Oronte,
nell’impugnar lo scettro, io m’acquistai
il nome di tiranno, ora m’è d’uopo
                                                        Io temo
Vedi signor; quegli è Pericle, osserva (Additando dentro una porta)
                                     (Soccorso amore). (Parte Oronte)
(Eccolo. Morirà...) (Entra in scena risoluto)
                                    Pericle amico.
                                             E perché mai
                                                     E non rispondi?
sai per prova s’io t’amo; e sangue e vita
ti vanti, non celarmi il tuo pensiero.
                                   Dal tuo silenzio,
ahi Pericle, comprendo il chiuso arcano.
forse ancor di tradirmi! Orsù. Vogl’io
risparmiarti il rossor d’un tradimento.
Vieni, passami il sen, ch’io son contento.
(Più resister non posso). Ah sire, io sono
l’uom più vil della terra. Io meditai
con cui darti volea barbara morte. (Getta lo stile)
con chi di tua pietà si rese indegno.
                                            Ah! Giuro ai numi,
                                  Ma che t’indusse
                                              Invan mel chiedi.
So che ingrato ti son; purtroppo il veggio;
ma l’arcano svelar, sire, non deggio.
                                               Ella si vanta
                                         Io di Pericle
                                   Ma la superba
                                      Ah, poiché il cielo
l’innocenza salvò nel tuo bel seno, (S’inginocchia)
sire pietà; non già per me la chiedo
l’acceso ardor di vendicare un padre.
(Stelle che veggo mai?) Che fa Pericle
                                       Chiede perdono
                                     Ei mal intende
la mia virtù; chieder perdon non soglio
Sì vogl’io la tua morte; ei la doveva
egli è tal per viltade e non per fede.
                                             Io compatisco
                                          Ah tu non sai
                                        Taci fellone;
vanta mendace il tuo scoperto inganno.
chi di noi è più reo. T’uccisi il padre
ma da guerrier; tu il mio morir tentasti
per tradimento. Io ti perdono il fallo.
Tu siegui ad ingiuriarmi; or veder puoi
Dell’innocenza è protettore il cielo.
                                         Io so che adori
                                            A te non spetta
                                           Fa’ quanto puoi;
l’incostanza di Nicia e la mia fede. (Parte Rosmiri)
Fuggi dagli occhi miei. Scordati ingrato
dell’amor mio, ch’io già del tuo mi scordo.
                                              Ecco l’usato
stile de’ falsi amanti. Assai mendace
                                        Ah se non credi
ch’io per te morir sappia, eccoti il seno,
                                    Il so, vorresti
con mendaci sospiri e il finto pianto.
No no la frode tua non giunge a tanto.
tutti i mezzi opportuni alla vendetta?
                                       Oh dio perdona...
                                        Barbare stelle!
io vibrarlo saprò più cauto e certo.
                                     Taci, di nuovo
                                      Il nuovo sole
Odimi. Ho già risolto. Io vuo’ che mora
l’usurpator di questo regno, il crudo
so ch’ei verrà. D’acuto ferro armata
sarà la destra mia. Saprò io stessa,
quel barbaro svenar; ma se il tuo braccio
non andrà l’opra tua senza mercede.
fra quest’ombre fiorite e il tuo nemico
                                        Oronte addio. (In atto di partire)
                                    (Vuo’ tormentarla).
Uno sguardo non sol ma il core istesso
fora scarsa mercé d’Oronte al merto.
                                        (Sogno o son desto).
                                           Eccoti Oronte
la destra mia; pegno d’eterno affetto
                                     Oh me beato!
(Ma voglio prima il traditor svenato). (Piano ad Oronte)
il cielo e amor; in quella guisa istessa
sei sprezzata, delusa e invan sospiri.
L’onta e lo scherno io sofferir non posso.
contro la mia nemica; io sento il core
                                              (Ecco l’indegno).
                                            (Per le mie mani
Difenditi, signor, che sei tradito. (Sopragiugne e lo difende)
Traditori così... (Pericle si pone contra Nicia)
                               (Numi crudeli!) (Pisistrato contro Oronte)
Nicia ancor non sei paga? Oronte indegno
tu pur col ferro in man? Tu vuoi svenarmi?
                                        Io ti difesi
                                           Adoro anch’io
Essa chiede il tuo sangue; io per piacergli
                                  Sì traditore,
                                Ma tu mi credi
s’io punirti saprò; vedrai fellone (Ad Oronte)
s’io saprò vendicarmi. A te Pericle
                                    Sire, in quest’atto
                                     Su via Pericle
Per l’amor del tuo re passami il seno.
                                           In tua difesa
Io vidi il tuo periglio, onde v’accorsi
Opportuna giungesti. A voi consegno (Alle guardie)
                                   (Misera Nicia).
Crudel non mi spaventi; io più di morte
viver con Nicia, almeno avrò la sorte
d’esser compagno alla mia bella in morte.
                                      Taci Pericle.
M’offendi se più parli. Al regio trono
siano condotti i rei; fra brevi istanti
                              Nicia, di mie sventure
spero veder le mie vendette ancora. (Parte con Oronte fra guardie)
non ti sdegnare, Oronte è l’idol mio,
vive amante il mio cor, se tu mi privi
merta che mi sii grato, altro non chiedo
                                     Oh dei! Tacete.
mentre in virtù più t’assomigli a loro.
                                Non più; partite; io voglio
                      Per ubbidirti io vado
che la vita o la morte a me dar puoi. (Parte)
                              Pensa che sei
l’arbitro tu, signor, de’ giorni miei.
Mio cor che mi consigli? E voi che dite
perdo ad un punto e mi vacilla il trono.
che m’insidian la vita i rei superbi
l’odio destar ne’ miei fedeli ancora.
il mio morir con un tuo sguardo almeno.
                                Nicia...
                                                Che chiedi indegno?
                                             Anch’io
                                         È fuor di tempo,
               Contro di me sfoga lo sdegno.
Sì lo dovrei, poiché l’offeso io sono;
                                        Alfin vincesti,
                                          Da te richiedo
                                             No no mi basta
                                Eccola; essa lo merta.
                                Nicia adorata
                                        Giorno beato!
                                               Bastami amici
del vostro amor, se le vostr’alme unite
che il sincero mio cor più non tradite.

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