che voglion diventar sudditi nostri?
Vengano pur ma acciò scoprir io possa
come l’intende la lor mente stolta,
fateli a me venire uno alla volta. (I due servi s’avviano verso la collina)
dei sudditi del mio famoso impero,
provedetevi pur di carta assai,
perché crescono i pazzi piucché mai.
e fo col mio valor tremar il mondo.
Qual è il vostro mestier?
di farmi rispettar dalle persone.
Son pieno di coraggio e valoroso.
Anch’io, quando mi vien la mosca al naso,
ch’hanno molte parole e pochi fatti.
V’accetto nel mio regno e poiché siete
vi fo del regno mio guardaportone.
Accetto il grande impegno; e se qualcuno
mi vorrà dar una guardata storta,
fracasserò, se occorre, anco la porta.
perché siete venuto in questo regno?
Qui m’ha fatto venir l’ira, lo sdegno.
gente perfida e vil, senza rossore.
m’han fatto delirare e son venuto
a pregar l’Arcifanfano signore
sotto la formidabile mia spada.
Quest’è un pazzo infelice e sfortunato,
che sia meglio negozio esser poltrone. (Trattanto scende madama Gloriosa servita dai due servi e va al trono)
inchinatevi tosto al trono mio.
Una donna mia pari non s’inchina.
Io delle belle la regina sono.
Questo è un regno soggetto a molti danni
e suol durar al più sin a trent’anni.
di trentatré non me ne manca alcuna.
sono le mie bellezze trentasei.
un miracolo son della natura.
renderassi de’ pazzi il vasto impero.
non è degno di me, perché nessuno
quanto basta servita e rispettata.
di gente pazza, per costume avvezza
a incensar delle donne la bellezza.
Ma io, che di beltà m’appello il nume,
vogl’esser adorata oltre il costume.
tutti sian del mio viso adoratori.
a farli pazzi bastereste voi.
che non conosce e non apprezza il bello.
pazze per vanità, come costei,
empirebbero presto i stati miei. (Sordidone scende dalla collina con un scrigno sotto il braccio, servito al solito)
perché alla ciera due briconi siete. (Alli due servi che si ritirano)
pochissimo ho bevuto e mal dormito
e son andato sempre malvestito.
Benedetto denar, mi sei pur caro!
che alcuno mi sentisse. Eccolo qui.
quattromille filippi in doppie d’oro.
Ditemi in confidenza, quel denaro
ho prestato denar col pegno in mano.
colla mia borsa, ad aiutarlo intenta,
ho principiato a numerar dal trenta;
e m’hanno sopra tutto profittato
sedici soldi al mese per ducato.
qui si accettano pazzi e non bricconi.
perché in tasca il denaro m’ho tenuto
e un momento di ben non ho goduto.
e guardar il denaro io mi consolo.
Ma che volete far di quell’intrico?
hanno colle monete antipatia
a ricorrer da voi. Nel mio paese
non mi posso salvar. Perché si sa
né mi lasciano star notte né giorno.
Ognun mi va facendo il bello, il caro,
per rubbarmi di tasca il mio denaro.
Qui, dove di denar non si fa caso,
potrò in pace goder i miei tesori.
sempre nelle mie man voi lo vedrete.
Di vivere fra noi non siete degno;
e vi farò cacciar fuor del mio regno.
giuro da re de’ pazzi arcipazzissimo.
Ahi, che vi lascio nello scrigno il core!
della città felice. Io vi destino,
per secondar il vostro bell’umore,
economo de’ pazzi e spenditore.
Anderò... Ma non so... Vi raccomando
Dentro quel cassettino io l’ho nascosto.
Quello de tutti i pazzi è il maggior pazzo
che a nessuno fa bene e a sé fa male.
che pazzo non rassembro ma è dovere
che il re de’ pazzi nella mente stolta
dei lucidi intervalli abbia talvolta. (Scende dalla collina Malgoverno pazzo prodigo)
perché il mio patrimonio ho consumato.
e se prima ero bello ora son brutto.
Almeno avrete fatti degli amici
che si ricorderan dei dì felici.
se finito è il dinaro. Anco le donne,
che facevan di me le innamorate,
or che non ho denar si son cambiate.
delle femine al cor bugiardo e scaltro,
siete pazzo, pazzissimo senz’altro.
Ora che ho terminato d’impazzire,
tutti gli altri son savi e non ritrovo
chi si ricordi più per cortesia
che ha fomentato un dì la mia pazzia.
qualche pazzo di me forse a pietà.
se a pietade di voi non mi movessi.
Perché voi siete il capo de’ balordi,
vi fo mastro de’ chiassi e de’ bagordi.
Grazie a vostra maestà. Tenete, amici,
baroni, come prima, tornaremo.
che accumula con stenti il pazzo avaro. (Scende dalla collina madama Semplicina coi servi)
il regno spartirei della pazzia.
andatemi lontani. (Ai servi)
pazzarella gentil, che irata siete?
perché non voglio che nessun mi tocchi;
e mi voglion toccar quei pazzi alocchi.
Io maritata? Io? Come? Se mai
un uomo nella faccia non mirai.
Perché son un tantino vergognosa.
Voi siete fatta come il genio mio,
perché son molto vergognoso anch’io.
Se in faccia non li avete mai mirati!
non alzano mai gli occhi.
Si può ben dire qualche parolina.
Si può toccar la man con pudicizia.
Quando la cosa sia senza malizia.
doppo aver visto Il mondo della luna.
a ricorrer da voi. Gli uomini arditi
e oramai non so più dove salvarmi.
Perché non vonno i genitori miei
dar per marito a me quel ch’io vorrei.
È bello il vostro amante?
perché in viso mirato mai non l’ho.
di star fra queste pazze fortunate,
poiché senza veder v’innamorate!
Mi raccomando a vostra maestà;
arrossisco, signor, se sto più qua.
che toccata dai pazzi non sarete.
Non fate verun mal guardando me,
perch’io son alla fin de’ pazzi il re.
Nol farò mai se non allora quando
m’obligasse di farlo un suo comando.
alzate le pupille e poi miratemi.
col gel principia e termina col foco. (Madama Garbata con i servi dalla collina)
Arcifanfano mio, signor dei pazzi,
io vengo per goder spassi e solazzi.
vada in malora la malinconia.
non ci ho pensato e non ci penso mai.
sia pioggia o sol, sia tristo tempo o buono,
Amanti o non amanti, non m’importa,
drizzatemi la scuffia che l’ho storta.
del gran regno de’ pazzi! In fede mia
il ristoro de’ pazzi è l’allegria.
Io son fuggita dalla mia città,
sono pazzi tre volte più di noi.
Fan talora un festino e sul più bello
e si cambia in dispetti l’allegria.
Giocano col penin sotto la tavola
d’amor, di gelosia, di rabbia pieno;
spende il denaro e poi mangia veleno.
Oh che pazzi, oh che pazzi! Io di costoro
Sono pazzi assai meno i pazzi miei.
senza sentir sospiri e batticori.
che il cielo vi conservi in sanità.
Andate, andate dentro e ci vedremo,
perché la monarchia de’ pazzi è cara.
con diversa opinione e fantasia,
con diverso costume o sia pazzia.
vi faccio adess’adesso cascar morto.
in cui del vostro bel tengo il tesoro,
vi faccio il sagrificio di quest’oro. (Gli dà alcune monete e lei le prende)
d’oro più bel ricchezze peregrine. (Getta l’oro e fugge via)
v’offerisco il mio sangue ed il mio core. (La segue)
Oh fortuna, oh fortuna, oh me beato!
Se si trova così per tutto l’oro,
si puol senza sudar far un tesoro.
che qualcun me lo veda. Andrò a riporlo
Quanto del mio tesor cresce il valore,
tanto mi sento in sen crescer il core. (Parte)
Lo conoscete? (Gli mostra il nerbo)
questi nerbi gentili e sì ben fatti
si sogliono chiamar castigamatti. (Parte)
Per castigar i pazzi più bricconi
queste son le mie spade e i miei cannoni.
della mia arcipazzissima corona.
d’esser venuta qui! Vuo’ tornar via.
Voi m’avete col guardo tramortita.
dunque me n’anderò. (Vuol partire)
Cara, sono da voi. (Torna vicino a lei)
Che brio, che portamento! (Guardandosi in specchio)
Lo splendor de’ miei rai supera il sole.
per sostener della beltà il decoro.
datemi un solo sguardo e son contento.
Questo al merito mio non è un tesoro.
per la beltà che le mie guancie infiora.
Oh preziosa beltà che non ha prezzo!
troveria delle donne a bon mercato.
Riverisco, signori; e che si fa?
Pazza voi, se pietade a me negate. (A Gloriosa)
della propria beltà concede i frutti.
tutti i denari miei e li ricusa
Il denaro ricusa? Oh che pazzia!
Se l’offerisci a voi, l’accettareste?
Sì signor, sì signor; l’accettarei
sempre vi porterei scolpito in petto,
vi farei, occorrendo, anche un balletto.
alla bellezza mia sì fiero torto? (A Malgoverno)
di tutto l’oro mio padrona siete.
Giuro che se mi fate un tal onore
voi sarete padron di questo core.
Tenete, o cara. (A Garbata)
Voi siete fra le belle la più bella.
che a chi chiede pietà pietà riserba.
Pera con suo rossor pietà superba.
il tesoro miglior della bellezza.
d’esser bella chiamata in faccia mia.
e crede non si trovi altra bellezza.
accettar quel denaro non dovete.
e avendo di beltà ricco tesoro,
lo dovete tener con più decoro.
Io non so se sia brutta o se sia bella.
e che l’oro fa belle anco le brutte.
spender per la beltà sospiri e pianti,
coi regali ciascun si fa la strada;
che se una ricusa, un’altra accetta.
d’amar un uom di mia bellezza indegno.
Se Giove non discende in pioggia d’oro
io non voglio nel mondo altro marito.
Il mio scrigno, il mio scrigno.
Ah che sanno rubbare ancora i pazzi!
a levarti d’attorno il precipizio?
Il mio core, il mio core, ov’è il mio core?
non cercare il tuo cor, cerca il cervello.
ma prima di morir v’ammazzerò. (Impugna un coltello contro Arcifanfano)
moderategli un poco la pazzia. (I servi alzano i bastoni)
Questo è il degno piacer del pazzo avaro.
E il diavolo me l’ha portato via.
Frutto dell’avarissima pazzia.
Oimè non posso più. Che fiamma è questa
Chi sei tu, chi sei tu? Gradasso o Orlando?
Io ti sfido a battaglia. Ecco il mio brando. (Leva il bastone a un pazzo)
o a tutti vi darò delle stoccate. (Bastona i pazzi e fugono. Vuol fuggir Arcifanfano e lo trattiene)
O damm’il mio denar, che m’hai rubbato,
o ti faccio morire bastonato.
lasciatemi partir e tornerò
ed il vostro denar vi porterò.
(Se potessi fuggir da questo imbroglio!)
Vanne... Resta... Va’ pur... Ferma, non voglio.
Dove sei? Dove sei? Ah m’è fugito!
Ah ch’io sono da tutti assassinato!
che smania! Che dolore! Io manco, io moro.
Morto è il mio cor, voglio morir anch’io. (Si leva una corda con cui è cinto)
Giacché niente più v’è che mi consola,
io mi voglio appiccare per la gola. (Attacca il laccio per appiccarsi)
Si può saper cosa volete fare?
E appiccar vi volete senza il boia?
venite dunque a far voi da boiessa.
Son qui, datemi il laccio.
Eh via. (Getta via il laccio)
Questa de’ pazzi è l’ultima pazzia.
Zitto, che il vostro scrigno io l’ho trovato.
che vuo’ che stiate meco allegramente;
e che lasciate andar la morte a spasso.
Se mi restituite il mio denaro,
il viver mi sarà prezioso e caro.
Il mio scrigno, il mio scrigno. Oh che contento!
Il mio core, il mio core. Oh me beato!
Ora m’avete a mantenere il patto.
Presto, presto, allegria, presto allegria.
il chittarin. Io suono e voi sonate.
Io vi voglio cantare e voi cantate. (Toccano il chittarino e l’orchestra coi violini pizzicati l’accompagna)
anzi sempre sarò vostra difesa.
il mio valor? La protezione mia?
Son un che fa terror a tutto il mondo
e di nome mi chiamo Furibondo.
voi mi fate tremar dalla paura.
Come! Villano a me? Corpo del diavolo,
ch’io non vi getti con un pugno in aria.
Vi vorrei strittolar, ridurvi in polvere
«Non si sdegna il leon coll’agneletta».
Oh che pazzo egli è mai spropositato!
Per veder che sa far e che sa dire,
se goder non poss’io qualche contento
con quella pazzarella un sol momento?
Mi dispiace che sia tanto ritrosa.
non doverebbe aver tanti riguardi.
ora leva il cervello, ora lo rende.
se n’anderà quando sarà destata;
dunque è meglio lasciarla addormentata.
non puol dell’amor mio sentir pietà.
Dunque è meglio svegliarla; e che sarà?
svegliandola, chiamandola pian piano,
non starò né vicino né lontano.
O state zitti o provarete il resto.
dieci ducati quando li averò.
o il ferro romperò colle mie mani.
ch’io vi farò star tutti in allegria.
Le vostre istanze, o gente pazza, ho udite.
Quello ch’io vi rispondo, ora sentite.
fin che scema la troppa vanità,
fin che perde l’amor del suo denaro.
fin che il meschino è asciutto come l’esca.
come dovete uscir da questi guai,
E di me che sarà? Se uscir io deggio
quando amica sarò d’affanni e guai,
anch’io dico cogli altri: «Mai, mai, mai».
onde la libertade ora le dono. (I servi pazzi aprono la di lei gabbia ed ella esce giuliva)
non mi rubberan più l’argento e l’oro.
Ho nascosto, ho nascosto il mio tesoro. (Parte)
condannate in prigion, che avete fatto?
Sepellir il denaro? Oh che gran matto!
Ecco lo sprezzator di mia bellezza.
ma voi l’oro e l’argento ricusate.
che dite ch’io son bella fra le belle.
Splendete come il sol tra tante stelle.
Prendetelo, mia cara, io ve lo dono. (Le dà lo scrigno e parte)
perderò delle guancie il bel rossore. (Parte)
Chi nasce matto non guarisce mai.
Che ho da far, che ho da far di quest’imbroglio?
L’ho donato una volta e più nol voglio.
che del dinar no me n’importa un fico.
si vede ch’è dinar mal acquistato.
io ne posso disporre a modo mio;
a Semplicina mia dar lo vogl’io.
come se io fossi un cavaliere errante. (Frattanto che si fa il ritornello dell’aria viene madama Semplicina)
che quando si vuol bene si regala.
dunque l’affetto suo sarà per me.
di queste luci rare, chiare, avare.
ed a vostro dispetto lo vogl’io.
Crede d’avermi fatto un dispiacere
L’oro delle fanciulle è il precipizio.
vuol che il suo re si unisca in matrimonio.
l’hanno ben ritrovata fuor del mazzo,
per farmi diventar sempre più pazzo.
aspirano de’ pazzi alla corona,
che una di loro sceglierò per me... (Parte una guardia e Arcifanfano va in soglio. Vengono le tre donne)
sia sempre e stia da voi lungi la barca
di Caronte che l’alme a Stigie varca.
Viva la bella Laura del Petrarca.
il cielo vi mantenga e stia lontano
dal vostro corpo il morbo oltramontano.
Elena siete voi del ciel troiano.
perché ho un po’ di rossore ed ho timore
di perder, se vi miro, il mio pudore.
Siete sorella del bambino Amore.
esponete e sedete, se potete.
se la vostra rozezza non mi sprezza.
A me troppo non piace la grassezza.
fra queste pazze rare incoronare.
Voi mi fareste in pochi dì creppare.
Oimei, che di vergogna morirei.
Ho inteso, ho inteso e tu mia sposa sei.
e siete voi di mia bellezza indegno. (Parte)
La bellezza superba è un grande impegno.
Che già di voi no me n’importa un fico. (Parte)
Il ciel m’ha liberato da un intrico.
Per darvi confidenza scenderò. (Scende dal trono e va a sedere vicino a lei)
Lo scettro mi darete? Il prenderò.
tutti, tutti quei patti ch’io farò.
il nome della nostra gran città;
ora, ve lo prometto, si saprà.
uniti alla real persona mia,
il nome alla cittade oggi si dia. (Vengono avanti sei pazzi cantando)
una lettera a ognun dell’alfabetto
che il nome abia a compor chiaro e perfetto. (I servi pazzi danno a tutti una lettera dell’alfabetto ed una anche all’Arcifanfano)
e in buona consonanza accomodatevi.
il nome della nostra alma città. (Li va accomodando ma non si vede nome perfetto)
Eh lo farò ben io venir or ora. (Li dispone diversamente e unendosi lui agli altri si vede dalle lettere a formare queste due parole: «Il mondo»)
Poco vi vuole a soddisfare i matti.