Metrica: interrogazione
182 endecasillabi (recitativo) in Aristide Venezia, Valvasense, 1735 
Sei amor, sei timor tu che mi guidi
nell’empia reggia a riveder la sposa?
prove mi diè. Ma prigioniera oppressa,
temo che la sua fé non sia la stessa.
Scoprasi dunque... Ma che miro! Al suolo
prosteso il servo mio riposa in pace!
Chi mi sveglia? Il demonio! O me meschino!
                                   Ahi che mi sento
l’anima distillar per lo spavento.
Non mi conosci ancor? Son io pur quello...
Vatene per pietà demonio fello.
Son pur quel tuo padron...
                                                 Il mio padrone
è Aristide di Grecia e non Plutone.
                              Lasciate un poco
che meglio vi contempli. Agl’occhi, al naso,
alle spalle, alla vita, ai piedi, al tergo,
alla voce senz’altro io vi discerno.
e lo spirito vostro andò all’inferno.
                                Per iscoprir la fede
                                    Male, malissimo.
Vi ponete padrone a un gran cimento.
Chi sapere e veder troppo desia
spesso discopre quel che non vorria.
                                           Sì mi conosce
                                            Eccolo appunto.
Guarda non mi scoprir, con la tua morte
Non temete signor, ch’io starò zitto.
Se il bel volto d’Arsinoe io mi rammento,
ardo d’amor. Ma se sovvienmi ch’ella
moglie è di quel per cui vacilla il regno,
s’accende nel mio cor l’ira e lo sdegno.
bearmi in lei pria che tramonti il giorno.
a me sia di piacere, a lei di scorno.
                                        Tu questo foglio
                                 Oibò.
                                              Come!
                                                             Non voglio
che mi venghi sul dorso un qualche imbroglio.
Prendilo temerario. Io vuo’ che tosto
o incontrerai nel mio furor la morte.
ora sei fra l’incudine e il martello. (A parte)
                                  Signor lo prendo.
è l’uso familiar del cortigiano.
pensa dal mio volere, invan lo spera,
ch’io son re vincitor, lei prigioniera.
                                         A me quel foglio.
Servo indegno, infedel, con questo ferro
Per pietade la vita, eccovi il foglio.
Ama la sposa mia Xerse crudele
violentarla il superbo! Eterni dei
giuro di vendicar gl’oltraggi miei.
Il padron da una parte ed io dall’altra,
punto non si confà col suo furore.
Quel giovine garbato, ehi dove andate?
ma con lei restarò se mel comanda.
                                   Tutto per lei.
                            No, ma la vorrei.
                                           (Quanto mi piace).
(Questo appunto sarebbe il mio bisogno).
(Vorrei dirli che l’amo e mi vergogno).
                                         Io non ardisco,
Se il genio mio non fosse troppo ardito
                           Che cosa!
                                               Il suo marito.
che indegna non foss’io di tanto onore
ma temo che di me prendiate gioco.
Io signora per voi son tutto foco.
tutto concederò quel che volete.
                                            Eccola pronta.
                                                Io vostra sposa.
                                    Oh bella cosa.
Ma non vorrei che queste vostre viscere
che furono per me tanto amorose
fossero in simil guisa altrui pietose.
Mi meraviglio. Non son io di quelle
per goder libertà. Son donna onesta,
porterete il mio onor sopra la testa.
                                  E si godremo in pace.
                                   Ressisti invano.
                                     Al re che t’ama.
e tu lo speri invan crudo ministro.
                                        Numi, che veggo! (A parte)
ad Aristide mio, sarò di morte.
Oh bella fedeltà, cara consorte. (A parte)
                                                Lasciala indegno.
                                    Alla tua voce
Numi del cielo a voi mi raccomando. (Si ritira)
                                      Ahi cruda sorte! (Cade)
Chi provoca Cireno abbia la morte.
Ma la donna dov’è? Fuggì, disparve,
rinvenirla saprò. Xerse l’adora
al suo core servir, dar pace al mio.
Partì l’indegno ed il meschino al suolo
cadde per mia cagion; chi mai l’indusse
all’opra generosa? Ecco opportuna
Bellide a me sen vien. Fida compagna
delle sventure mie, soccorri questo
                                           Cieli che miro!
Zitto padrona mia, gettò un sospiro.
aspergi il volto suo. Chi sa? Potrebbe
                                Dove si tratta
donna di me più pronta non si dà.
Volesse il ciel che ritornasse in vita
                                 Eccovi un nappo
                                        Oimè mi sento
nel mirarlo sì brutto un gran spavento.
Via non temer, non ti starò lontana.
Par il diavolo proprio in forma umana.
Che mai sarà? Le donne per natura
del diavolo non sanno aver paura,
Voglio, quando è così, crescer la dosa.
Ma che veggo! Signora, oh che portento!
Si rischiara il color dal lato manco.
Il volto è mezo nero e mezo bianco.
Qualch’inganno tem’io. Finti colori
                                           Oimè!
                                                          Sentite
Alla voce, all’aspetto, ancorché informe
                                       Al certo è desso.
                                       Oh bel successo!
Che mirate ochi miei! Quest’è la sposa.
la tua sposa son io, sì quella sono
che costante al tuo amor ricusa un trono.
                                           Al giorno d’oggi,
credetemi signor, è una gran sorte
ritrovar fedeltà nella consorte.
                                          L’aque del fonte
                                      Eh non v’è male.
Sembrate un mascheron di carnovale.
Oimè che fia! Se discoperto io sono
Xerse m’ucciderà. Lascia ch’io vada
                               Potrai lasciarmi
                                 Fra brevi istanti
ritornerò. Non dubitar; destino
o liberarti o ver morirti appresso.
                                 Più non la sento,
Arsinoe addio; si rivedremo in breve. (Parte)
                                 Non v’afliggete,
un bravo greco valoroso e scaltro
ne trovarete in breve tempo un altro.
la dolce compagnia del caro sposo
egli dell’amor mio fu il primo oggetto,
ei l’unico sarà mio dolce affetto.
or che uniti si siamo in matrimonio
la vita del servir troppo è stentata,
non conferisce a gente maritata.
                                       Oh che ignorante!
D’una donna industriosa sei marito
e puoi temere che ti manchi il vito?
Signorsì, signor no (che brutto imbroglio).
Ad Arsinoe fellon non l’hai recato?
Dirò la verità, mi fu rubbato.
Servo indegno morrai. Tosto uccidete
                                           Aimè meschino.
se alcuno farà oltraggio a mio consorte
saprò con le mie man darvi la morte.
E superba t’oltraggia e ti disprezza.
                                       Tanta fierezza?
Inutile sarà. Se non consenti
                                       Ma la sua morte
                             Che miro! Incauto
vieni vittima indegna al sagrifizio?
dalle tue insidie a liberar la sposa.
per salvar l’onor mio che la sua morte
la mia sposa morrà. Sazzia crudele
uccidimi se vuoi ma nell’onore
a te preme la sposa e l’onor tuo?
Sì; darei per entrambi e sangue e vita.
Questa sola cagion qui ti condusse?
A costo ancor di mio periglio estremo.
d’una sorte miglior. Chi vide mai
per l’onor, per la sposa? Un raro esempio
tu sei de’ maritati. Un raro esempio
alle spose sarà la tua consorte,
che sì facil non è come si crede
una moglie trovar di tanta fede.
Il re per quel che io sento è molto scaltro.
Il re deve saperne più d’ogn’altro.
Che rissolvi perciò? (A Xerse)
                                       Sì bella copia
bastami sol per ricompensa al dono
che assicuri la pace a questo trono.
un’eterna amistade oggi prometto.
per Arsinoe fedel fiamme d’amore
con l’esempio del re smorzo l’ardore.
                                     Al sen ti stringo.
e sia la vostra fede altrui d’esempio.

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