Metrica: interrogazione
266 endecasillabi (recitativo) in La birba Venezia, Valvasense, 1735 
In camiscia restar sopra la strada
Cotanta crudeltade in voi non credo. (Li quattro lo salutano e partono alla muta)
Ecco dove alla fin m’hanno ridotto
il gioco rio, la crapula, etcaetera.
quando questo saprà? Purtroppo anch’essa
colle sue tante mode e tante gale
fu in gran parte cagion di questo male.
ch’ella mi ritrovasse in questo stato.
Vuo’ batter da Cechina mia sorella;
per cagion di mia moglie io la cacciai
ancor pietosa ad un fratel che langue.
                                         La mia disgrazia
                               Come?
                                               Di casa
per i debiti miei fui discaciato.
                                            In questo stato
                                          Me ne dispiace.
                                         Andate in pace.
Sapete quant’amor che vi portai.
Io veramente il vostro amor provai,
e la mia dote riduceste in niente.
(Lei ha ragion ma voglio far il bravo).
datemi da vestire e se da uomo
datemi un qualche andrien che tanto serve.
Orsù Cechina ho pazientato assai.
Aspetate fratel, ch’io l’aprirò.
sicché alla casa mia più non s’accosti).
Presto, se non la vuoi veder più bella.
Quanti fanno così con sua sorella!
che se qualcun mi vede in questa guisa
creperà certamente dalle risa.
sarà forse mia moglie. Oh questa è bella,
che fuor di casa dovrà stare anch’ella.
(Sempre da cavallieri ella è servita
ma adesso anco per lei sarà finita).
Sior Orazio in camisa e su la strada?
Io già pazzo non son ma disperato.
                                     Guardate in alto,
Qua dise: «Casa d’affittar».
                                                    Ridete?
Or sapiate che alfine i creditori
per le poste siam iti in precipizio.
Il vostro pratticar gran cavalieri...
El vostro morosar con questa e quella...
                                   Xe stà el motivo...
Cosa mai si puol far? Vi vuol pacienza.
Inzegneve pur vu, za mi gh’ho in testa
una ressoluzion bizzara e presta.
Mia sorella Cechina, a cui palese
                                               Arecordeve
che in casa de culia no voi vegnir,
se da fame dovesse anca morir.
ch’ella mi dia robba o denari, tanto
Ma non la vedo ancora a comparire.
Voglio batter di nuovo; elà di casa.
                                          (Oimè, che brutto imbroglio?)
                                     Chi domandar?
per sottrarmi così da un maggior danno).
Io timore non ho (ma però tremo).
                                           (Oimè che sento!
Mia sorella consorte ad un schiavone!)
e ti razza de puorco sbudellar.
o mi te dar su muso mia zavatta.
Cechina è vostra moglie? E voi chi siete?
Mi star Stiepo Bruich, da Pastrovichio.
Che mistier? Che mistier? Stara mercanta.
Taser, no me parlar de muggier mia.
Vostra moglie, dicevo, è mia sorella.
Star to sorella? Donca dar mia dota.
                                        Cossa parleu
de vostra dota, caro sior mustachi?
se no voler che te mandar Patrasso.
qualche cosa mi dia per carità;
                                      Se cortelada
O povereta mi, la xe intrigada.
a cantar canzonette per la strada.
Doppo che mio mario xe andà in rovina
quelle quattro strazzette el m’ha levà
che me giera restà. Ghe son scampada;
e me son messa a far sto bel mistier;
anca cusì se vive e se sbabazza,
che de zente da ben piena è la piazza.
che una sol volta l’ha cantada Agnese.
E chi la vuol la costa un soldo solo.
darghe la so resposta anca prometto.
per levar dal mio bozzolo la zente.
nol voi più soportar. Oe galantomo,
Digo cusì che con i vostri cani
Po... posso poste... te... teggiar anch’io.
E mi digo che voi che andé lontan,
perché se no dopererò le man.
pe... perché adopre... prerò anch’i... ch’i... ch’io
                                         Olà fermeu;
con i so cani m’ha levà la zente.
                                      Di... dite bene,
co... colei è una che che non sa nulla,
più più ignorante de de la baulla.
Steme lontan, no me taché la rogna.
                                      No me despiase
                                        S’a v’ cuntintè
farem, com se sol dir, tra nu de balla.
El zergh non intendì? Farem de balla
vuol dir ch’a s’unirem tutti tri assiem,
e goderem el mond ai spal del gonz,
che per no lavorar batte la piazza.
Per mi son contentissima. (In sta forma
nell’arte del birbar sarò perfetta).
(Già per costei ardere il cor mi sento).
(Così costoro mi faran le spese
fin che possa tornar al mio paese).
voi che tutta la zente a nu tiremo.
megl’è che se n’andiamo all’ostaria
a stabilir la nostra compagnia.
                                        Oibò, pensate!
È questa una finzione, acciò che il popolo
e con più gusto il suo dinaro ei spenda.
                                        Se voi credete
v’ingannate, signori, in fede mia;
in un linguaggio forastier ragiono.
chi sé? Za semo tutti d’una lega.
Io sono Orazio cavalier romano.
Io son Cechina giovine romana.
E mi che son Lindora veneziana
e ti quella petegola sfazzada
                                          Orazio voi?
e a far questo mestier ti sei ridotta?
                                       Ma non sei moglie
(Adunque dal schiavone io fui schernito).
                                       Io questi conti
ch’ha nella testa sua poco cervello.
Son quella apponto, cara la mia zoggia.
                                      Va’ pur al bogia.
Oh poveretta mi xe più d’un’ora
e ’l primo soldo non ho visto ancora.
(M’affatico parlar in veneziano,
che un tal mestier non fa perfetamente
chi la favella ed il vestir non mente.
novo mestier da certa vecchiarella
che con simil finzion vive ancor ella.
Infatti mi contento. In pochi giorni
che alle miserie mie può far riparo.
vorrei pigliar marito e benché fosse
molto inferiore alli natali miei
senza riguardo alcun lo piglierei).
nelle gambe e le braccia stropeato.
che canteraggio na canzuna bella
napoletana sopra na cittella.
na lemosena fate. (Oh che bel volto,
da una cieca gentil lo stroppio è colto).
                              (Oh che peccato!
Costei rassembra il cieco dio bendato).
Bella figliuola mia, dime no poco,
                                 (Com’è cortese!)
Perché per mia desgrazia no ghe vedo.
se te vuoi maretar te piglieraggio.
                                            Siente feliulla,
no secreto t’affido ma sta’ zitta.
Se no lo cride aspetta, in un momento
io ietto le stampelle e san deviento.
ma son, figliola, un galantuom romano.
                                             In questo modo
cento scudi avvanzati ho nel taschino,
so certo che di me vi invogliereste.
                                     Ciel ti ringrazio!
                                         Che ma?
                                                            Quel volto
sì sporco e quel vestito da birbante...
Io non voglio più far vita sì trista,
qualche miglior mestier vuo’ che facciamo
Anch’io tengo una borsa di denari,
Voglio che si vestiam da cortigiani.
E poi doppo faremo i ciarlatani.
uno che compra e vende li vestiti.
Comperarne vorrei; s’egli l’avesse
                                           Giove il volesse!
Io già la carità non vi chiedea.
Son strazariol ma mi non vendo strazze.
Un abito vogl’io da cavaliero.
Ed io da gentildonna uno ne voglio.
Varé che musi! Dove gaveu i bezzi?
Quando la xe cusì gh’avé rason.
Ve mostro un per de cai ma su la giusta.
e su la vostra vita el par tagiao,
se lo volé vel dago a bon marcao.
Quanto costa? Non dite uno sproposito.
Appian che voi che femo un sol contratto.
e la lo pol portar senza sottana.
                                        Poche parole
                                         Uh uh uh uh.
me remetto alle cose del dover.
                                           In ogni forma
Tiolé la robba e deme i bezzi.
                                                       In questa
                                        In un’occhiada
dove alcun’altra bagatella io tengo
addattata al bisogno. Indi alla piazza
e faremo stupir tutta la gente.
mi voglio porre in buona positura
e in piazza voglio far la mia figura. (Via)
che do pitochi avesse tanti bezzi.
Cossì anca mi cantando canzonette
e me son messa a far sto bon mistier,
con el qual delle volte in un momento
se ghe pol vadagnar cento per cento.
Però sto capital tutto no è mio,
da quel mio sior compare strazzariol.
me cognoscesse gh’averia paura
che despoggiada resteria a dretura.
me vien da pianzer. Povero mario
el sarà in sepoltura o all’ospeal.
Questo è ’l solito fin de chi vol far
el voler col poder puoco la dura.
L’abito che ho venduo lo vedo adosso
Lu è quel che l’ha comprà, lu xe el pitocco
e Cechina sarà forsi culia.
e in desparte ascoltar voi quel che i dise.
Orazio xe alla fin le mie raise. (Si ritira)
Cara Cechina mia, già che la sorte
Signor fratello mio, quel che vi piace;
di venire con voi non mi ritiro
e vi starò lieta e contenta ognora
purché assieme con voi non sia Lindora.
                                          Eh non temete,
alla moglie scacciata io più non penso,
vadi pur a cantar le canzonette.
Se la farem tra noi cara sorella.
(Adess’adesso ghe la voi far bella).
voi col cantar il popolo atraete;
venderò quel vital contraveleno
ch’io già composi di farina giala,
ch’è quel composto che si vende a maca
da’ ciarlatani in nome de teriaca.
                                           Andiamo al banco;
se capitasse un qualche fazzoletto
e a chi ve lo cercasse poi direte
ch’egli si è perso ed altro non sapete.
Su via signora Olimpia, a sti signori
Oggi non parlo di medicamento.
Adess’adesso canteremo il resto.
Quest’è l’arcano mio, chi vuol comprarlo
Vi do per dieci soldi il vaso grosso.
fa buona pelle, scalda, scaccia e sana
botte, percosse, calci di cavallo.
e con celerità guarisse i calli.
Quelli che son vicin lunghin la mano,
chi è da lontan mi getti il fazzoletto.
Oltre l’altre virtudi io cavo denti
meglio che non faceva il paduanello.
Siori non ghe credé, ch’el xe un furbazzo,
credeme a mi, son vostro patrioto,
gh’ho posto in piazza e gh’ho bottega vecchia
e cavo denti meggio de Scarnecchia,
me deffendo col nome e tanto basta.
                                   Tasi che deboto
                                          Che arrogante!
Sfidatelo a pigliar qualche veleno.
Ho il privileggio del gran can de’ Tartari
già mi rese famoso a tutto il mondo.
Di’ pur quel che ti vol, mi te cognosso.
Siori, saveu chi l’è? L’è un tal Orazio
Doppo aver consumada ogni sostanza,
doppo aver maltratada so muggier,
con culia che è Cechina so sorella
e facendo el mistier del vagabondo.
È un mendace custui, nessun gli creda.
che quel che digo xe la verità,
mi son Lindora; mi son to muggier.
co ti finzevi d’esser un pitocco.
Vi fate svergognar dalli ascoltanti.

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