Metrica: interrogazione
640 endecasillabi (recitativo) in Statira Venezia, Rossetti, 1742 
Persi, abbiam vinto; il vacillante impero
più non paventa il temerario orgoglio.
è il mio trionfo e della mia grandezza
voi siete il fato. Invitti duci e chiari,
sono la mia difesa i vostri acciari.
l’ornamento maggior. Fra tante spoglie
la clamide squarciata! In mezzo a questa
turba servil tu non ostenti il grande
lacerato cadavere! Quel sangue
trofeo del tuo furor! Su via s’esponga
quell’esanime busto; in esso sazia
l’odio crudel ma si conceda intanto
d’una sposa infelice ai baci e al pianto.
spoglia di Ciro il nostro amor accese,
qual doveasi al suo grado, illustre pira.
Ciro non fu; fu il suo delitto; e s’egli,
per desio di strappar dalle mie tempia
provocommi al cimento, io non dovea
con atto di viltà tradir mia gloria.
Pugnai forzato ed ottenei vittoria.
il mio sdegno, o tiranno. Odami il grande
genio di Ciro, al sangue d’Artaserse
che sparse il tuo, mio sposo e re, feroce
io tenterò quanto può mai l’acceso
quanto alle piaghe del tradito sposo
deve il dolor d’una reina amante
nel suo rigor, nell’amor suo costante.
un imbelle dolor freme negletto;
a cercar in Aspasia il mio diletto. (Parte)
Gran padre e re, se l’amor tuo divise
con Dario lo splendor del diadema,
poter coll’idol mio viver felice!
I promessi da te regi sponsali
chiede il mio amore ed il mio cor sospira.
Vanne, Ariarate; ora al suo cor di smalto
già porta il mio comando il grande assalto.
oggi favella il vincitor superbo.
il cognato amoroso ora qui parla.
parla sempre il tiranno e non lo ascolta
di cognata col cuor donna nemica.
                                    Egli nel padre
punisca il fratricidio, indi la destra
vendicatrice strignerò contenta.
se quel dolor che i sensi miei governa
il figlio d’Artaserse in lui discerna.
stendi la destra agl’imenei reali
soffrir può farti un vincitore offeso.
codesto offeso vincitor, di cui
non possa trionfar la mia fortezza!
Fa’ che giungano al cor, s’ho da temerle.
Dimani e nulla più, dunque, t’assegno
a cangiar core; se pietà ricusi,
userò di tiran che tu mi dai.
Vedremo allor se l’uso ancora io serbo
di trionfar sovra d’un cuor superbo. (Parte)
Mio dolor, mia virtù, voi favellaste
magnanimi, feroci e generosi
ma perché poi codardi or che siam soli
ingiuriosa a voi stessi, a me tiranna!
ch’io rifiutai del re nemico in faccia,
quegli è l’idol mio. L’odio m’accende
ma l’amor mi disarma. Abborro il sangue
del tiranno Artaserse e adoro il volto
del mio caro Ariarate; oh dei! Divisa
ora l’odio, or l’amor lascia e ripiglia,
che risolvo? Che fo? Chi mi consiglia?
Il cognato di Ciro, Oronte, in corte
Timagene, è il mio volto; ed Artaserse
discoperto dall’elmo unqua nol vide.
di mia venuta, alla real germana
solo l’affida e mi fa scorta ad essa.
col grande annunzio, or tu da saggio intanto
la gloria tua coll’amor tuo misura
e a cui tu debba il tuo gran cuor matura.
Ah qual mi giugne a folgorar sul guardo
Aspasia io non m’inganno, Aspasia è questa.
Ma chi è quel che la segue? Inosservato
osserverò. Guidommi a tempo il fato. (Si ritira in disparte)
Rigor inopportuno, o bella Aspasia,
la tua fierezza; e ti trarrà al mio letto,
quando il mio non ti basti, il suo comando.
La vittoria, che diede ad Artaserse
non porta il mio servaggio insino al core.
                                    È Dario questi?
                                                                   Sollo;
ma il poter dello scettro non si estende
a cotesta tua fé fia ch’io ti vegga
sposa fra le mie braccia, ad umiliarti
valerà la mia forza. (Vuol prenderla per la mano, in questo vien Artaserse)
                                      Indietro.
                                                         Ah sire,
la tua pietà, la tua giustizia invoco
                                             Ella è mia sposa.
                                    (Il mio sospetto
cresce per tal comando). Aspasia, io scopro
qual sarà il mio destin. Ma forse, ingrata,
che mal conosci ancora. Io non m’impegno
gl’impeti raffrenar del dolor mio.
Anch’io t’adoro e son regnante anch’io.
contro l’amor del temerario figlio
quella del cauto padre. Ama sì poco
all’onor del suo talamo già scelto
languido ei cede agl’imenei d’un figlio?
noto è al tuo cor. Tu degli affetti miei
sai che l’arbitra sei...
                                        Questo si tronchi
                             E che? Vive il superbo?
per vendicar l’ombra di Ciro estinto,
e di sangue e di foco i campi inonda.
Ahimè qual voce! Ah qual sembiante! Ah questo
è il mio diletto Oronte! E che fia mai? (A parte)
l’annunzio innaspettato.
                                              Un tuo vassallo,
                                              Il ciel secondi
vidi il campo de’ brandi e delle faci.
Udii le trombe e ravisai le insegne.
quel sembiante adorato entro al mio core,
può il segreto tradir. Meglio è ch’io parta. (A parte)
                                                I voti io reco
per esser tua ad amore. Io parlo teco. (Piano ad Oronte, finge parlar ad Artaserse e parla ad Oronte)
col suo furor l’arabo vile in lega,
tanti saran della vittoria nostra
Miei fasti accresceran le sue rovine.
Oronte non conosci; io so per fama
il valor del suo braccio; egli è il più forte
per sua gloria la Scitia, egli a suo senno
modera le vittorie; egli...
                                               Cotanto
esalti in mia presenza un mio nemico?
Do lode al merto e men del vero io dico.
della donna infedele amor mi guida.
O mia ritorni o di sua man mi uccida). (Parte)
Che risolvi mio core? Amar Aspasia,
poiché vive il suo sposo ora è un delitto.
la salvezza d’Aspasia. A Febo io posso
feminile beltà; questa si scelga
sacra ministra alla grand’ara e sia
l’onor d’Aspasia e la speranza mia.
                                     Ecco l’infida.
devo accoglierti, o caro, o del cor mio
Tu vivi ed io ti veggo? Oh dei! Che gioia!
Ti veggo in Artassata? Oh dei! Che pena!
A cui favelli, o principessa?
                                                   Eh caro,
il mio Oronte sei tu, mel dicon gli occhi.
E i risalti del cor mel dicon meglio.
se te lo disse il cor co’ suoi risalti,
dirti ancor ei dovea co’ suoi rimorsi
è troppo grave offesa un tradimento.
da tanta infedeltà la destra al nodo.
del talamo sleal; poscia alla morte
stenderò vendicato il collo invitto;
e sarà di quel cor perfido e rio
un eterno rimorso il sangue mio. (Parte)
Fermati... Oh dei! Né pur dirgli ho potuto
perché di Dario egli mi tolga al nodo.
Hai vinto, Aspasia, hai vinto. Il padre ingiusto
del tradito amor mio, ministra a Febo
                           Oh dei! Che sento?
                                                                Invano
ei pretende però ch’io d’amar lasci
                                  Cangia favella
con chi grado cangiò. D’umani affetti
non si tenti il mio cor. Di già mi sento
tutto accendermi il seno. Olà profano,
più non ardir di rimirarm’in volto.
Son ministra del nume, io non ti ascolto.
E tale dunque io regno? Un vuoto nome
di re, della corona il solo peso
Regnisi e pera... Chi! Sì, sì, Artaserse.
vinca del sangue mio l’arduo contrasto.
Tace natura ove favella il fasto.
Giugne Ariarate. A’ miei disegni ei serva;
senz’esso perirebbe il mio pensiero.
                   Mio re.
                                   Pria che altro io dica
giura su quanto ha di più grande il cielo
l’arcano ch’io ti svelo, onde sicuro
                             Agli alti numi il giuro.
il vuol senza rivali erede al regno.
ministra a Febo e intanto a noi destina
se non previen la nostra spada un padre,
ma il nostro cuor non ci abbandona ancora,
viviam entrambi ed Artaserse mora.
Numi eterni che ascolto! (Sopra la parte pensile del giardino)
                                               Ah sire, io sento
d’orror gelarmi entro le vene il sangue.
Un bugiardo timor forse ti parla;
fosse l’atro disegno in Artaserse,
                                          Bella virtude! (A parte)
scettro in man, serto al crine e spada al fianco.
Doppo averti svelato il grande arcano
nemico al desir mio; scegli tua sorte,
o l’amor del german o la tua morte.
il di cui prezzo è un parricidio. Io stendo
il collo al colpo e intrepido l’attendo.
Dunque, se di tua vita amor non senti,
mori codardo. (Snuda la spada per uccider Ariarate)
                             Ahimè. (A parte)
                                             Dario che tenti?
del traditor su la cervice indegna
di fellonia, sin sovra il sagro stame
l’aiuto di mio scettro e di mia spada.
                                   Fellon, tu parricida?
che tu devi al tuo re? L’atroce mente
                                        Son innocente.
Innocente (Scesa al basso) è Ariarate, o Artaserse;
è Dario il reo; dell’attentato enorme
la sorgente è il suo cor; ei trar volea
il principe fedel nel suo misfatto.
implacabile donna odio ingegnoso!
uscì quel foco; Ariarate amante
a Statira dovea qualche olocausto
                                 Ne menti, indegno.
                             Che fede! Odi Artaserse,
benché giusto, il mio sdegno.
                                                      In quali atroci
pensieri ondeggia un cuor di re, di padre!
Dario, Ariarate, in qual di voi degg’io
punire il traditor, stringere il figlio!
Ah signor, e tu puoi temer ancora
un tradimento in me? Dell’empia donna
giugneresti a temer di Dario il core?
in Ariarate il tradimento; pronta
ho già nel tuo dolor la mia vendetta.
avrà l’empio tuo cor rimorso eterno.
innocente è Ariarate, è Dario il reo.
sempre l’alma crudel; né il tuo consiglio
o tema il traditore o stringa il figlio.
nell’odio feminil non si nasconde,
Sia carnefice tua la mia clemenza.
il candor non macchiai. Io giuro ai numi,
lo giuro a te, mio re. Di Dario in faccia
che più dirti poss’io? Padre clemente,
abbi pietà di me; son innocente. (Si canta)
imagine sublime in fronte impressa
malgrado a ciò che in me parlan gli affetti,
e condanno di falsi i miei sospetti.
mi svelasse di te l’orrido arcano,
pietà non isperar, sarò inumano. (Parte)
di virtude plebea, lungi del seno.
nel padre ingelosito il mio periglio;
giovi, per esser re, non esser figlio.
vanne di queste stanze e attento osserva
s’altri qui volge i passi e me lo avisa.
Il cenno ubbidirò. (Si ritira)
                                    German, t’inganni; (Ad Oronte)
non è tradito l’amor tuo. La fede
                                           Ah vidi io stesso
Ella finge così, perché si sciolga
il nodo che di Dario agl’imenei
Anzi va grido in corte, ed oggi ei nacque,
che mal soffrendo il suo geloso amore
moglie vederla in fra le braccia al figlio,
l’affascinato re prenda consiglio.
                              Regina, a queste soglie
                              O cieli! Ivi ti cela (Ad Oronte)
signor, finché dal principe raccolga
inaspettato alle mie stanze. Vanne,
                                Ad esequir son pronto. (Si ritira come sopra)
vado a celarmi or che mi rendi certo
della fé del mio bene; al rio destino
se la fiamma d’Aspasia ancor io sono.
                          Eccelsa donna, io reco
da due crudeli tradimenti impressa.
vostra nemica sì ma son regina.
Dario qui volge, alta regina, i passi. (Poi parte)
segreta stanza, Ariarate, ascondi
dal protervo german il tuo sembiante.
Ahi con troppo dolor del core amante! (Entra per un’altra porta che guida in altre stanze)
alle mie regie stanze? Anima infida!
le imposture, o Statira; e l’odio cieco
un fallace sentier calca sovente.
Errasti il colpo e l’infelice frode
abortì senza frutto e senza lode.
il mio sesso, il mio sangue ed il mio grado.
un fulmine del ciel lo incenerisca.
con tutto il suo splendor; e venga il giorno
al monarca di Persia il trono irrighe
e in Ariarate un traditor castighi.
di traditor il nome imporre ardisce;
                                 Ariarate in queste
segrete stanze? Ed in quest’ora oscura?
di Ciro, estinto sì ma vive ancora
nel reale mio cor, la moglie illustre,
Di quell’Oronte di’ che una vil fuga
se di cotesto fugitivo il volto
in privato cimento all’ira mia
il superbo suo capo ed esecrando.
Ecco Oronte; ecco il campo; ed ecco il brando.
                      Oh dei! Che sento!
                                                          Ahimè che fia!
Sì, quell’Oronte io son che una vil fuga
                                          Oronte dunque
della Persia allo sdegno il suo olocausto?
Ma per trarlo all’altar della vendetta
non avrà Dario un braccio.
                                                  Ed Ariarate
sempre rubello al suo signor e padre,
Né Oronte io vidi mai né di Statira
nelle stanze io ’l sapea né in Artassata.
neghittoso ti pende ancor dal fianco,
colà fra le mie schiere o in vuota arena
mi pagherai del folle ardir la penna.
No, traditor, non fugirai. (Vuol seguirlo)
                                                T’arresta,
o per questo mio sen passi quel ferro.
Nieghi il passo al tuo re, barbara donna? (Vuol ritirarla per forza dalla porta per seguire Oronte)
Devesi più rispetto a una regina.
se il difenderla è colpa, ora son reo. (Per difesa di Statira snuda il ferro contro Dario)
Fellon! Contro il tuo re! Niega, se puoi
il sacrilego ardir! Paventa indegno
il mio volto, il mio scettro.
                                                 Eh no, Ariarate,
l’effimero poter. Credi che il cielo
impunito un ribaldo. Anima indegna (A Dario)
pendono sul tuo capo. Il mondo aspetta
contro te scelerato una vendetta.
mira di tua virtù; ma che virtude?
all’impresa fatal, per esequirla
colla sola tua destra. Il sagrificio
ti richiese Statira e tu il giurasti.
vittima d’una donna all’empio sdegno.
                                             T’accheta, indegno. (Parte)
tolerar io dovrò? La mia innocenza
quando al mondo fia nota? Ah sì, cotesta
nube infedel, che il bel candor ne oscura,
svanirà, perirà; lo spero; i dei
questi disastri miei toleran forse,
apprenda i danni a tolerar più forte.
è l’atto grande, o bell’Aspasia; io sveno
una speranza in me, perché svenata
Dario la senta; quindi a Febo io cedo
ciò che tolgo al mio cor; egli è ben vero
fisso gli sguardi, io gelo e di repente
ne sospira il mio core e si risente.
Eh no, signor, questi sospiri ormai
di sì bella virtù non son più degni.
Signor, in Artassata e nelle stanze
della superba vedova di Ciro,
                             Oronte?
                                               Ahimè che sento! (A parte)
Tratto dal suo furor, osò egli stesso
col ferro in pugno ardì...
                                              Che?
                                                          Minacciarmi.
V’era ben anche un traditor che puote,
opponendo al mio sen l’indegno acciaro,
al mio nemico assicurar lo scampo.
sul vassallo fellon la mia vendetta.
signor, il tuo gran cor all’empio nome.
             Geli il tuo sangue entro alle vene
dal perfido misfatto profanate.
               Che più ti tarda?
                                                Ei fu Ariarate.
l’orror in petto; e della mia grandezza
tutto sento il furor che il cor m’ingombra.
                                       Io già ne diedi
                                       Ah il custodite
svenato Ariarate a’ piè del trono;
s’egli figlio non è, padre io non sono.
Se non toglie la fuga al nostro sdegno
svenar dovrà la gran ministra a Febo!
Che di barbaro mai, che mai d’atroce
                                     L’orribil voto
                                       No.
                                                 Se d’Oronte,
tra le nostre catene il piè sia cinto,
trarlo ei giurò del maggior nume all’ara,
perché da sagra femina svenato
del suo furor il sagrificio adempia.
si aspergeranno i laureati altari?
                                Prima la destra
                                     Come?
                                                     Pietosa
                                               Vana richiesta.
                                                 Io non pretendo
al tuo grado, al tuo core; a me sol basta
sguardi, de’ soli vezzi io mi contento
né cerca altro ristoro il mio tormento.
ciò che lice si tenti. (A parte)
                                      Ah tu sei meco
troppo rigida, oh dei! troppo severa.
(Lusingarlo mi giovi); amami e spera.
non paventi il furor? Quivi t’esponi,
                                     Le rozze lane
m’asconderan. Voglio veder Aspasia
                                Vedi la turba
                                              Io fra le guardie
                     Non trarrò lunge il piede
dal fianco tuo, che così vuol mia fede.
fonte di luce, il di cui raggio avviva
ciò ch’ha di chiaro il ciel, di vago il mondo,
delle palme, che il tuo propizio nume
più che il nostro valor mi trasse al piede,
tutta la gloria al gran delubro io reco.
destra cadan le vittime svenate
a’ piè dell’immortal tuo simulacro,
una vergine illustre io ti consacro.
l’impeto del furor. (Piano)
                                    No; vuo’ un esempio
lasciar del mio coraggio. Attendi.
                                                             Al cenno
                                           All’ara inanzi
conducetela voi ministri eletti.
Nuova lode al gran nume indi s’intuoni,
onde il tempio giulivo al ciel risuoni.
cingan le tempia alla donzella eletta;
alla fiamma dopoi la mano stenda,
onde al nume così sacra si renda.
                                               Fermati. (Impedisce che Aspasia s’avanzi)
                                                                  Oh numi!
per donarla agli dei la fida sposa.
d’Aspasia il rito ed il tuo cor rubello.
Vive ancora il suo Oronte ed io son quello.
                       S’arresti.
                                          Olà. Siam noi
nel gran tempio di Febo; ei mi difende;
vostre stesse, o Persiani, a me son note.
la patria, il cielo e la ragione offende.
                                         Due re crudeli
non conoscon ragion; la patria, il cielo
amano calpestar; su via, Artaserse,
un nemico trafiggi; il sacro tempio
nol difenda da te. Dario, su via,
a due barbari re già tutto lice.
No, perfida, no, ingrata, io non calpesto
le sacre leggi e non profano i dei. (Scende dal trono)
che proceda l’ardir de’ scelerati?
Ariarate il fomenta. Egli è il maggiore
                                  Menti; Ariarate
                                   Barbara donna,
             Fu seco Ariarate?
                                               È vero.
                                         Egli difese
l’immunità del mio real soggiorno.
E non è traditor? Ah scelerata
nel cor d’Ariarate. Egli ti piacque
empio, fellon e parricida, or vanne;
qual ti piacque l’hai già. Piacciati ancora
qual mel chiedesti; egli quel sangue sparga
al più fiero leon ch’Asia spaventi.
Tale il vegga Statira e tal le piaccia;
né più il dolor che i sensi tuoi governa
il figlio d’Artaserse in lui discerna.
                                           Deh che facesti?
                                               Ministri, in parte
sia scortato costui del sacro tempio,
sicché del nume il simulacro puro
co’ sguardi scelerati ei non profani.
il nume non vedrà. Del tuo nel tempio
core non v’è più contumace ed empio. (Parte colli ministri)
                                       In lui riguardo
il bel core d’Aspasia. Io so che l’ama
questa ch’è l’idol mio. Ma di tal tempra
che in mio danno piacerle anco pretende.
Sì, bellissima Aspasia, in me ritrovi
d’Oronte il difensor. Ma non negarmi
la pietà che promessa oggi tu m’hai.
Non negarm’il favor de’ tuoi bei rai.
Statira, per pietà deh mi consiglia,
                                                Ho di bisogno
Aspasia, più di te. Vanne e mi lascia
                                          In tanti affanni
è prodigio s’io vivo, astri tiranni. (Parte)
Ariarate morrà? Mio cor, tu il senti
e mi palpiti in sen con tanta pena?
a dispetto del cor m’esce dal labro.
d’un colpevole amor. Già tu mi detti
degno del tuo dispetto e degno ancora
di quello stesso amor che tu detesti.
sia mio castigo e l’alma fiera ed empia
colla mia morte il mio supplizio adempia.
e di sangue e d’amor, lunge da un core
che occupato esser dei da giusto sdegno.
Prove di mia giustizia attende il regno.
Non già, signor, a mendicar in dono
la tua pietà, la vita ora qui vegno.
Odiata da te m’è troppo infausta.
l’estremo addio dal dolce padre amante.
non ricercar ad Artaserse in fronte.
Il tuo giudice io sono, il tuo nemico.
                                       È dessa; armata
lusingato da te, da te voluto.
                                          Eh di’ piuttosto
che una barbara donna i sacri nomi
cancellò in te col suo crudel consiglio
di vassallo, di principe, di figlio.
Tua fronte il ciglio mio più non offenda.
parto, o signor, ma non negarmi almeno
Queste innocenti lagrime ch’io spargo
il primo sangue son ch’esce dal core,
spremuto dall’amor, non dal dolore.
Ah che il giudice fugge e torna il padre!
involarsi tentò. Fu prevenuto
dell’audace il dissegno ed eran scorta
                                  I servi miei?
S’asconda il padre e il giudice ritorni.
Vattene e mori, un traditor tu sei.
Sconosciuto campion, mio re, che sotto
al bel ciel europeo trasse i natali,
col feroce leon s’offre alla pugna.
pien d’innocenza; o la sua morte adempia
il rigor della legge; e viva lungi
poi dalla regia il principe sospetto.
al paterno dolor. Entri in arena.
interessato io son nel suo consiglio.
È colpevole, il so, pure m’è figlio. (Parte)
                                        Ah sire, Oronte...
il destino nel cuor. Aspasia senti,
ma rendo ad esso e libertade e regno,
la germana Statira e te sua sposa.
ah magnanimo re. Di quanta gioia
                                       Sol che tu il voglia
e il voglia Oronte ed una sola impresa
degna dell’odio suo non mi ricusi.
                                         Ah sì, purtroppo.
dunque allo sdegno suo. Per la sua destra
                                            Ahimè che sento!
                                             Inorridisco.
                                  Un grande amor non mente.
                              La real mia fede.
No, no, signor, devesi a tanta impresa
vergato di tua man rechi l’inchiesta
ed il premio assicuri alla grand’opra.
che i gelosi caratteri non fia,
toltone Oronte sol, ch’altri mai vegga.
E se la sua virtù, siccome io temo,
le grandi offerte all’amor mio ricusa,
                               Avrai fra breve istante
delle note fatali il foglio impresso.
Con qual cuore puoi tu, mal saggia Aspasia,
chieder il gran delitto, anzi sperarlo?
Pure per trovar pace a’ miei tormenti
da un disperato amor tutto si tenti.
vergognoso rifugio all’onor mio?
                                  Oronte, a te ne vengo
colpevole non già qual mi credesti;
                                   Vengo, o mio caro,
ad aprirti uno scampo; o morte o vita
Dario il foglio vergò; prendilo e leggi.
si ha d’Oronte il timore, Oronte fugga.
La reale mia fé tanto assicura,
son testimoni i dei e Dario il giura».
Ad Oronte si chiede un tradimento.
indegno foglio ad esso rendi e digli
che l’orribile aspetto della morte
cotanto non ottien dal cor del forte.
Io lo sapea, cor mio, che la gelosa
tua gloria ne fremea. Ma dimmi, o caro,
Dario ti addita pure in Artaserse
                                          Ei me lo additi
dagli eserciti suoi o in vuota arena
e privata tenzon col ferro in pugno;
egli vedrà s’io so ruotare il brando.
Né i prieghi miei potran...
                                                  T’escan dal core
                                         Sì, sì, comprendo
la tua virtude, il mio dover. Perdona
se cotanto tentai la tua costanza.
alla tomba la gloria invitto eroe.
che al tuo voler s’opponga il voler mio.
Amami, ciò mi basta, Oronte addio. (Parte)
Facciasi pur di me ciò che la sorte
già decretò; ma non sarà giammai
mi giunga ad avvilir. La vita è un bene,
se pur ben si puol dir, che rato fugge;
vive eterna la gloria; io questa ad onta
del barbaro destin riserbar voglio,
men di questo mi cale e vita e soglio.
                                      Veggasi in campo.
lieto di giusto ciel folgori un lampo.
Regi, l’ingordo dente e l’unghia fiera
arruotò omai della nemea foresta
Intrepido io l’attendo; ancorché inerme
l’innocenza del principe Ariarate
Di mia virtù, di mia fortezza armato,
sprezzo la parca e non pavento il fato.
                                      Dell’insano fasto
il folle punirà l’arduo contrasto.
l’innocenza, l’amor, la fé, la vita
d’Ariarate e di me. Ma vien la fera.
Regga il vostro potere i colpi miei.
Oh de’ numi pietosi alta clemenza!
Han servito le stelle all’innocenza.
Campion, cui debbo un sangue a me sì caro,
guardami in volto e riconosci in esso
quanto di zelo abbiano i numi eterni.
onde mai scese in cor di donna imbelle?
Chi diè tanto di lena al braccio inerme?
aprigli di tua man, barbaro, il seno,
perché sazi tu stesso e Dario sazi
in quel misero cor l’avida brama.
di Ciro all’ombra, un olocausto grande
a quel furor che tutto m’empie il petto.
Che più tardi, o tiran? Su via l’aspetto.
                    Padre, i dei d’Averno ha in lega
l’orribil donna. Il portentoso, il strano
Alla tua pace, al mio regnar funeste
d’arabici prestigi opre son queste.
Prendi, o Dario, il tuo foglio. Oronte sdegna
prestar la destra ad una strage indegna. (Dà a Dario il foglio antedetto)
                        Ahimè! Signor... (Confuso)
                                                        Veggasi. (Tolto a Dario di mano il foglio, lo legge)
                                                                          È giunto
Che di grande darai giorno fatale. (A parte)
Oronte, Ariarate in libertade
intera ubbidienza. A voi soldati. (Le guardie circondano Dario, poi Timagene parte)
                                 Che re? Son io
il monarca di Persia. Un folle amore
teco diviso avea di rege il nome,
il potere non già. Popoli, io regno.
Dario s’arresti, egli è un vassallo indegno.
nome non profanar di genitore.
Mio figlio più non sei! Va’, traditore.
Empio barbaro cor, comincia pure
a punirti il rimorso. Alfin sei giunto
presso alla tua pena. Sarà la morte
pena leggiera al tuo fallire.
                                                  Oh sorte!
Dario, che fai? Non cerchi in questo volto
gli sguardi, i vezzi? E che? Sei tronco o sasso;
Oronte vive, Aspasia io sono.
                                                      Ahi lasso!
Signor, come tu qui? Come tu sciolto
                                        La regia fede
Artaserse mi diè, perch’io sicuro
qui venissi a goder ciò che di grande
                                                  Comincio
a risguardar in me la maggior opra
del poter degli dei. Test’è qual reo
il genitor provai meco inclemente;
ora in faccia di lui torno innocente.
vieni, o figlio diletto; in me perdona
quella rea cecità che la tua vita
non men che l’onor tuo pose in periglio.
Sì umil non parli il genitor col figlio.
                                      Signor, ti rendo (Ad Oronte)
e sposa e libertà. Meno non merta
chi seppe ricusar sì grandi offerte
                                                  Anima grande,
dono sì bello ogni gran merto eccede.
                              Son tua.
                                                Che bella fede! (A parte)
Olà, venga Statira; amato figlio,
                                   Ma se ricusa
di vederla cangiata oggi m’impegno.
                                         Vedi, o regina
colui per cui vincesti, egli assai meno
                                Che mi richiede?
La tua pace, il tuo amor e la tua fede.
la memoria fatal s’espone, oh dei!
si richiedon da me novelli amori?
turba gli spirti tuoi. Vadan sotterra
e succedan a lor giulivi oggetti. (Qui sprofondano i mausolei, si cangia il grottesco della scena in apparato giulivo, vedendosi la dea dell’Alegrezza con coro de’ musici e sonatori di stromenti da fiato)
                                           Non è cotesta
di magico poter opra qual credi;
di artefice la man tutto dispose.
Deh quai spariro agli occhi tuoi, Statira,
sparisca dal tuo cor l’odio importuno,
                                  T’amo Ariarate,
lo confesso purtroppo. Io mi lusingo
svelarti un dì quanto il cuor mio ti adora.
Ma l’onor mio non mel concede ancora.
siav’il piacer dell’Allegrezza, io stesso
nuovo stimolo reco al piacer vostro.
sagrificio di quest’alma corona
ch’or rinuncio per sempre; io la ripongo
nella destra del padre, ei ne disponga
in favor d’Ariarate; è giusto premio
questo di sua virtù, di sua costanza.
Atto sì bello ogni tua colpa avanza.
                                              Ad altro tempo
gare del vostro amor. Tutto si sacri
ciò che di questo dì rimane ancora,
alla più lieta e più felice diva.

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