Metrica: interrogazione
479 endecasillabi (recitativo) in Ottone Venezia, Rossetti, 1739 
la superba Adelaide i tuoi sponsali?
Ed io soffro l’oltraggio e neghittoso
trattengo un campo armato in vil riposo?
nacque reina e dell’Italia erede;
le togliesti gran parte e il suo consorte
per te le tolse intempestiva morte.
le mie nozze rigetta e in me tuo figlio
il nemico discerne e non l’amante.
Se nemico ti vuol, nemico t’abbia.
ad assalir de la città le mura.
e vuoi ch’io la combatta e ch’io l’atterri?
e veda alfin che Berengario io sono. (Parte)
a’ miei disegni e al tuo valor la sorte.
fra pochi istanti t’aprirà le porte.
Dunque, cara Matilde, il tuo consiglio...
il sospirato assenso al tradimento.
della prossima notte ogni tua schiera
nelle mura nemiche avrà l’ingresso.
(Ah mia cara Adelaide, a quai vicende
                                         Ora a’ miei danni
s’armi pur la Germania, io non pavento.
Adelaide spogliar d’ogni suo bene?
Nella immagine mia ravvisa quella
                               In tuo favore, o figlio,
usar vogl’io questa clemenza ancora.
vada un araldo e in queste note esponga
all’altera regina i sensi miei,
io sono accinto ad espugnar Pavia
e già sicura è la vittoria mia.
Se corona Adelaide il mio trionfo
impalmando Idelberto, e pace e regno
a lei, come a mia nuora, oggi si renda.
eterno ed implacabile il mio sdegno.
sarà tua schiava e tuo trionfo; ah pensa
a fortuna sì acerba e sì severa.
con eroica modestia; e sia tua gloria
vinta vederla sì ma non depressa.
ch’ebbe nel soglio, ella serbar tra’ ceppi
vorrà proterva, il regal fasto mio
sarò costretta a sostenerlo anch’io.
Ah la misera perde in un sol giorno
non gli rendo in un tempo e sposo e regno?
sembrano l’uno vile e l’altro odioso.
l’ampio diadema italico riposi,
è forza o ch’ella pera o che ti sposi.
È forza ch’ella pera o che ti sposi?
Finch’io non lasci di spirar quest’aure,
finch’io non chiudo a questo giorno i rai,
no, no, bell’idol mio, tu non morrai.
Ahimè! Tutto è perduto. I miei vassalli
sono i nimici miei. Gli empi ribelli,
m’han ceduta al tiranno. Eccomi alfine
schiava di Berengario. Odo le strida,
sento le mie catene. Ottone... oh numi!
Che fa? Dov’è? Così mi lascia in preda
                                        Eccomi, o cara,
                                        Oh dei! Che vedo,
                                 M’aperse Ormondo
per sotterranea via sicura il varco.
                                       Ah no; piutosto
accresci il mio periglio. E che pretendi
così solo d’oprar? Vanne al tuo campo.
                                          Vuoi ch’io ti lasci
                                       Anzi mi perdi
se qui stai neghittoso, all’inimico
                                          E questa mia
per mille e mille spade ha da pugnare?
Un’altra volta io te ne priego, parti.
Sieguo il mio amor. Voglio morirti a lato.
e che temo per te. Credilo al pianto
ch’ho già sugli occhi. In questo stato io sono
solo per te. Sì, per te sol sprezzai
d’Idelberto la destra. A Berengario
il messo rimandai. Minaccie, offerte
non temei, non curai. Nel caso estremo,
di me non dubitar. Saprò costante
soffrir la sorte mia. Deh vanne e torna
e assicura vincendo il mio riposo.
O del mio caro ben voci gradite
io già men volo al marzial cimento.
con quanto ha mai d’ardir nulla pavento.
il vostro amor, la vostra fede avanza
se quel serto che cingo è vostro dono.
ancor non si presenta al vincitore?
convien domar con la clemenza il fasto.
intrepida sostien la sua sciagura.
più che del tuo valore, illustre spoglia
eccomi, Berengario. Alza a tua voglia
sopra le mie ruine i tuoi trofei.
e sposo e regno e libertà perdei.
E sposo e regno e libertà se vuoi
tutta la mia vittoria a’ piedi tuoi.
devi ancora espugnar, prima che vinta
La rocca del mio cor, difesa e cinta
                                          Io la combatto
                                               E grazie chiami
                           E tradimenti appelli
l’offerta ch’io ti fo d’una corona,
d’un figlio generoso e d’un amante?
La corona è già mia; l’amante e il figlio
perché son doni tuoi son miei rifiuti.
Clodomiro che porti? (Viene Clodomiro)
                                          Alte novelle.
sì temerario ardir donna superba?
non perde una reina il suo coraggio.
Giunto è Ottone al Ticino? (In disparte come sopra)
                                                   Al gran passaggio
tutte opponi, o signor, l’itale schiere.
Vanne ratto a spiegar le mie bandiere.
altrove mi richiama, or tu risolvi.
è tuo con Idelberto anche il mio trono.
è caduto in poter del vincitore,
ch’io son pronta a soffrir le mie ritorte.
volgi uno sguardo, indi al presente. Osserva
non ha molto regina; or vinta e serva.
Mostrano agli occhi miei l’istesso aspetto
del diadema perduto e grave il piede
di catena servil, sei tanto altera.
Fa’ pur ciò che t’aggrada. In te non fia
né pellegrina in me la sofferenza.
stringerti al seno anzi che in ceppi.
                                                                 Ed io
questa clemenza tua che la catena.
ove t’innalza la clemenza mia.
quando sarà dura servil catena
de la superbia tua gastigo e pena.
dalla tua crudeltà sarà il mio piede,
vie più care saranno all’alma mia.
il carcere sarà, tanto più fia
della costanza mia degno teatro.
Donna non vidi mai superba tanto!
né s’avvilisce allor che perde un soglio.
di quel rigido cor. Ma venga in prova
colla fierezza mia. Non sarà sempre
orgogliosa così. Spero vederla,
col pianto agli occhi addimandar perdono.
Ecco invitti guerrieri, ecco le sponde,
le vaghe sponde del Ticino. È questi
dee trionfar la vostra alta virtute.
è la cittade ove ristretta geme
preda infelice dell’altrui fierezza
de’ gravi oltraggi suoi giusta vendetta.
al mio gran nome ed a la vostra gloria.
                                     Vieni, o tiranno,
della tua crudeltade. Or lieto sono
che potrò darti morte e vendicarmi.
                                                All’armi, all’armi. (Segue il combattimento con la vittoria di Ottone)
Son vinto, o ciel, son vinto, un giorno solo,
funestissimo giorno ecco mi toglie
m’acquistò la mia spada e ’l valor mio.
Misero che farò? Figlio, consorte,
servi, amici, ove siete? Ah che io vi perdo,
se non vi lascio; e se vi lascio, ahi sorte,
vi lascio alle sciagure, alle ritorte.
Ma se è forza lasciarvi e se già sono
i precipizi miei là su prefissi,
morrò da re, dove regnando vissi;
e ad onta ancor del mio destin severo
                              Sei prigioniero.
Credei forse virtù pugnar col fato?
più che non pensi e che non brami alfine.
Non fosti il primo tu né pur sarai
l’ultimo re di cui trionfi Ottone.
Non ti vantar sì generoso e forte,
che me non vinse il tuo valor ma solo
lo sdegno rio di mia perversa sorte. (Gli dà la spada)
D’Italia il fier tiranno è già in catene;
contro i tiranni tuoi scudo e difesa;
tiranna del mio cor, bella ti fai.
cui l’empia crudeltà da me divise,
anima bella, da quell’alta sede
ove or godi in dolcissimo riposo,
fra questi cupi e tenebrosi orrori
all’infelice tua diletta sposa.
vita qui traggo e quanto grande sia
per te il mio amore e la costanza mia.
fra gli affanni mi resta e questa è morte.
che sciolse i lacci onde ti avvinse il cielo,
riunirà le nostr’alme; e in tante pene
dolce pace mi reca e mi consola.
Con due doni, Adelaide, a te mi invia
vedi la morte tua se tu ricusi
la tua felicità vedi nell’altro (Scopre l’altro in cui vi è scetro e corona)
Tu rifiuta qual vuoi, qual vuoi tu prendi.
che la sua tirannia con tanti doni
si dimostra ver me troppo amorosa
non è maggior della costanza mia.
Quanto imponi farò ma intanto scegli.
Vuoi mortal tosco? O vuoi lo sposo e ’l regno? (Accetta il bacile dov’è il veleno)
Questi doni io gradisco e quelli io sdegno.
animosa ne scegli un che di lei
voglio di morte un instromento stesso.
vivi o superba? E tutti i doni miei
                                        No quel che mi è caro,
ecco, già prendo e già l’appresso al labbro
per custodirlo nel mio seno.
                                                    Bevi,
Così deluderò l’empia mia sorte. (Mentre vuol bever il veleno, giunge Idelberto colla spada impugnata respingendo in mezo a la scena una guardia)
libero mi permetti o ch’io t’uccido.
Hai tanto ardir? Né ti sovvien che sei
                                         Io qui non venni
a rintracciar in te la mia reina
Se per costei la genitrice implori,
la regina non t’ode e ti rigetta.
Son vani, o madre, i tuoi sospetti. Io chiedo
                                           Amato figlio
sola non può morir, prendi. (Gli dà spada)
                                                     (Che tenta?)
s’uccida pur con quel veleno; e l’altra
nelle viscere mie da te s’uccida.
Ah folle! Ah! Vile! Ed in tal guisa accresci
a me lo scherno, alla nemica il fasto?
Olà, bevi quel tosco. (Ad Adelaide)
                                       A me lo porgi.
                                      Ah madre almeno
                    Io t’ubbidisco.
                                                 Ed io mi sveno. (Mentre Adelaide vuol bere il veleno, Idelberto prende la spada e se l’accosta al petto in atto d’uccidersi)
Ah fermatevi entrambi (e pur trovossi
da spaventar la mia fierezza). Indegna. (Toglie il veleno ad Adelaide e lo gitta a terra)
Rendimi questo nappo; e tu codardo
non goderete no de’ miei disprezzi
femmina ingannatrice, ingiusto amante.
Regina, infausti avvisi, il nostro campo
vinto restò! Del re tuo sposo ancora
qui non s’ode novella. Ogni contorno
preda del vincitor s’empie di lutto.
                                          (Ecco dell’ire il frutto).
O stelle! E ciò fia ver? Cangiò d’aspetto
la fortuna così? Dov’è il mio sposo?
Berengario dov’è? De’ suoi vassalli,
dimmi, chi lo tradì? Mancò sì tosto
nelle schiere il valor? Ma qui mi perdo
i difensori alla città! Si cerchi
la gran sala i primati. In tal periglio
provido da più menti esca il consiglio. (Clodomiro parte)
delle sventure mie? Ma trema ancora;
trema sì del mio sdegno. E tu fellone, (Ad Idelberto)
sacrifichi all’altar d’un folle amore,
tu pur scopo sarai del mio furore.
O di padre miglior figlio ben degno,
non poter al tuo amor rendere amore.
gratitudine, affetto ognor potrai
trovare in Adelaide, amor non mai.
Tanta felicità sperar non lice
a chi nacque figliuol d’un tuo nemico;
non vietare l’amarti e son contento.
di tanta mia costanza ora mi pento.
del costante odio tuo, del tuo rigore,
è bello agli occhi tuoi quanto il tuo amore.
Sommo rettor del cielo, i tuoi consigli
mandi de’ mali miei nel punto estremo.
Nascer tu fai degeneranti i figli
da’ paterni costumi e mostri appieno
che la tua saggia e sì possente mano
l’antidoto sa trar sin dal veleno.
                                              Le rie catene
sciogli al piè d’Adelaide e a lei ritorna
o proverà qual fulmine il mio sdegno.
la provincia vassalla a me s’inchina.
Rendimi i pregi miei; dimmi reina.
a chi tu l’occupasti il regno e il nome.
Ma senti, o donna ambiziosa e vana,
libera in questo dì rendi al suo trono,
ogni ingiuria a lei fatta io ti perdono.
Ma se ricusi, io con orrendi esempi
farò di te non più veduti scempi.
Clodomiro, Adelaide a me s’appressi.
Vuo’ che veda costui da ciò che tento
se regina son io, se lui pavento.
                                     Il mio bel sole.
Vedi colei per cui tu porti guerra
                                       O tu ritira
l’armi da questo regno o ch’io la sveno. (In atto di ferir Adelaide)
altro indugio non hai che un sol momento.
con la vita di lei sta la mia gloria!
Il momento passò. Già vibro il colpo.
Fermati, o scellerata. Il tuo consorte
Lo sposo mio tuo prigionier? Nol credo.
Olà, qui voglio Berengario. In breve... (Ad una guardia)
Non mi lusinghi, no. Cessa dall’armi,
il cadavere esangue ora vedrai.
                                          E ancor non mi rispondi?
Gran re, deh non voler che il mio periglio
rattenga il volo all’immortal tua fama.
Adelaide da te tanto non brama.
mira il mio strazio; e poscia alla vendetta
tutti gli sdegni tuoi desta ed affretta.
salvisi quella d’Adelaide.
                                               Oh stelle!
Ah figlio traditor, figlio ribelle.
e son tuo prigionier finché sicura
                                    Avete, o stelle,
                                         Donna superba,
Pria così altera ed or nel tuo sembiante
Empio, avverso destin son disperata. (Parte)
Ottone, io parto e alla prigion ritorno.
Ed io resto a versar tutto il mio sangue
per la tua libertà, per la tua vita.
                                         Ottone... Adio. (Parte)
a sospender allor la morte mia?
che a Lotario togliesti e vita e regno.
Sovente avvien che il ciel ai gran delitti
da la sua sofferenza il ciel si scuote
e con più grave sferza allor percuote.
è la caduta mia. Queste ritorte
erano a te dovute ed io le avea
preparate per te; l’empia fortuna
che cieca il merto ed il valor non vede
al tuo braccio le tolse e al mio le diede.
                                   Iniquo fato.
Quando mai finirai d’esser spietato? (Parte)
alla fiera Matilde, assicurata
parmi la vita d’Adelaide. Alfine
dello sposo al periglio. Ed egli stesso,
ch’una strana fortezza ardito ostenta,
egli dell’ira mia trema e paventa.
gemono fra catene. Il regno stesso
malsicuro vacilla. Inique stelle
                                         Deh non lasciarti
in balia del dolor. Non è da grande
il disperar nelle sciagure. Ancora
se Adelaide è in tua man. Può la sua vita
salvar te stessa, Berengario e il figlio.
Sì, sì tutto si tenti, olà, qui tosto
sia condotta Adelaide. (Ad una guardia)
                                           Otton che l’ama
                                  Ma la superba
forse deluderà le mie speranze.
Non lo temer. La libertà, la vita
val più d’un regno; ne conosce il prezzo
anche Adelaide. La clemenza adopra
poi se sprezza pietade, usa lo sdegno.
Nomi tutti a me cari. Ognun di voi
può costarmi la vita. Ognun di voi
sollecita mi rende. Ecco Adelaide,
parta ciascuno. Si procuri intanto
l’ira celar della pietà col manto.
                                         Più che non pensi
pietoso ho in seno il cor, talor m’accendo
ma non dura il mio sdegno. Io su’ tuoi casi
pensai sovente e lagrimai talvolta.
                                           Siedi ed ascolta. (Siedono)
                               So che d’Ottone
tu vivi amante e so che lui t’adora,
che sei l’idolo suo. Scuso pertanto
né ti priego per lui né ti consiglio.
d’un’afflitta regina; e Ottone impera
È giusto l’amor tuo. Cieca non sono.
Sì, giusto è l’amor mio ma non so quanto
tu sincera favelli. In un istante
non si cangia in pietade un gran livore,
temo che mal s’unisca il labbro e il core.
potrei farti perir. Nelle mie mani
ti pose il tuo destin. Da me dipende
la tua vita, lo sai. Ma pur desio
con tutto il mio poter farti felice.
torna al tuo re, torna al tuo sposo, io rendo
a te la libertà. T’assolvo io stessa
ad onta del destin che ti condanna.
Ora ingrata, se puoi, dimmi tiranna.
ti cangiasti una volta. Andiam Matilde,
                                        Sì, ma sian fatti
pria fra di noi di giusta pace i patti.
                                 Che mai?
                                                     Che d’amistade
stringa il nodo con noi. Ch’alla Germania
riconduca le schiere, a Berengario
ceda il regno d’Italia e si contenti,
dell’acquisto ch’ei fa della tua mano.
Oh gran cor di Matilde! Ecco il bel frutto
d’un’eroica pietà, d’assicurarti
tenti il regno usurpato; e fingi poi
dispensar generosa i doni tuoi,
                           Superba, il tuo disprezzo
dovria farmi sdegnar; ma compatisco
il duol che ti fa cieca. Alfin non chiedo
più di quel che sia mio; d’Italia il regno
è in mio potere e quelle schiere istesse
ch’oggi l’hanno acquistato...
                                                    Anime vili.
se gli aperse le porte un tradimento.
Basta. Io regno, Adelaide, e assicurarmi
questo trono potrei colla tua morte.
quella che mi trattien. Ma se tu siegui,
anco della pietà saprò scordarmi.
la remora fatal son di tuoi sdegni.
teco inutil sarà? Trema alle voci
del giusto mio rigor. Sì, vo’ che il foglio
scrivi ad Ottone o la tua morte io voglio.
Pria morir che ubbidirti. Ottone in campo
                                        Invan l’attendi
                                   Vegliano i numi
a pro dell’innocenza e ancor può darsi
che tu sempre non sia fastosa tanto.
Che pria del mio morir, vegga il tuo pianto.
La speranza t’inganna. Olà costei
perfida, e il pianto mio, no, non vedrai.
non è il maggior de’ mali miei; l’amara
lontananza crudel del caro sposo
toglie all’anima mia tutto il riposo.
Crudelissimo amor, tu mi accendesti
sol per farmi languir. Grandezze e trono
se del idolo mio, se del mio bene
non mi privavi ancor. Barbaro amore
questo è troppo al mio sen fiero dolore.
della mia sofferenza e ciò ch’io bramo
ancor niega adempir, si venga, o fidi,
delle mura all’assalto; io vi precedo.
La vittoria già stringo, all’armi, all’armi.
Misero me? Che veggio? Olà cessate
l’impeto arresta. A mortal rischio esposta
deh rimira colei, per cui difesa
venisti armato all’onorata impresa.
Spieghinsi bianche insegne; indi fra lacci
quanto quel del suo sposo e del suo figlio.
risparmia, Otton, del genitore il sangue.
No. Se l’iniqua donna ambo trafitti
l’innocente reina al fiero Marte.
Voglio schernir così l’arte con l’arte.
                                           A tempo, a tempo,
Berengario venisti. Olà soldati.
                                             Il figlio e il padre
vadano incontro a le lor proprie squadre.
tratti con modi sì scortesi e rei,
nelle vittorie ancor vile tu sei.
è l’empietà con Adelaide. Osserva
quel bersaglio innocente a mille armati,
poi di’ se al par della fierezza mia
di Matilde la rabbia infame sia.
difendi dal furor delle mie squadre;
pronto ritorna o miri estinto il padre.
a la bella infelice argine e scudo.
Disprezzo ogni periglio e sol desio
salvar morendo ancor l’idolo mio. (Idelberto entra per la breccia e fa ritirar Adelaide)
                                       Ad ogni insulto
dell’instabil fortuna il mio coraggio
né si turba giammai né si confonde.
Adelaide fu tolta. Ora miei fidi
si rinforzi l’assalto. Il varco aperto
avete da voi stessi. A compir l’opra
Ite, del trionfar la strada è questa. (I soldati saliscono la breccia e non trovando ostacolo entrano in città)
Adelaide a te vengo; asciuga intanto
dal giusto pianto il tuo vezzoso ciglio;
teco unito dar pace al mio tormento.
                                Pavia già cadde?
o sempre al voler mio figlio ribelle.
venga Adelaide e qui sugli occhi tuoi
del tuo malnato amor vittima cada.
non è più fra legami, io la disciolsi.
l’insolenza e l’ardir d’un figlio infido?
E ti soffro e t’ascolto e non t’uccido?
E che farai Matilde? E qual mai speri
argine opporre al rapido torrente
che impetuoso sopra te discende?
Chi consiglio ti dà? Chi ti difende?
di veder me da’ vostri lacci avvinta. (In atto di uccidersi)
non è maggior de la clemenza mia.
                               Al mio destino infido
ceder non mi vedrai. Vanne o m’uccido.
Matilde e qual furore? Il cor del forte
sa vincer col soffrire. Il cor del vile
si lascia in preda a disperata morte.
vieni, vieni, mio re. Lascia che io stringa
in ogni impresa a sé medesma eguale.
unirsi a te, già ’l promettesti. Lascia
possa stringerti al sen regina e sposa.
e della libertade e ancor del trono?
del mio trionfo e della mia vittoria.
del gastigo d’entrambi e del perdono.
Berengario, Matilde, or che s’aspetta
suplichevole un guardo a’ piedi tuoi.
serviti a tuo talento. Altra speranza
che quella di morir più non m’avanza.
                                               Ah mia regina,
quante volte da morte io te salvai.
de la pura tua fede e del tuo amore.
eccoti ancor la genitrice. Ah questo (Toglie le catene a Berengario)
non è premio che uguagli il tuo gran merto,
deggio, mio re, la vita. In ricompensa
qualche grazia maggiore a lui dispensa.
Io dipendo da te. De’ regni miei,
qual già de’ regni tuoi, l’arbitra sei.
quanto occupò già Berengario. Io voglio
figlio sì degno in sul paterno soglio.
                               Liete godete
e felici regnate, anime belle.
Sì sì. Spero goder sempre felice...
De la sorte crudel più non pavento...
Se in te, sposa gradita, ho la mia pace.
Se in te, sposo adorato, ho il mio contento.

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