Metrica: interrogazione
377 endecasillabi (recitativo) in Pelarina Venezia, Valvasense, 1734 
                                  Non ne faremo niente.
                                       A voi mia madre
in tutto obbedirò ma, perdonatemi,
a me deve piacere e non a voi.
Eh pazzarella, che al tuo ben non pensi.
Quel galantuom che a visitarti viene
di buon aspetto egl’è; paga il maestro
ed è cotto per te; ma quel che importa
che in questi tempi è tanto raro al mondo.
                                         Dite da vero?
Dunque credete voi che amar io possa
un uomo come lui rozo, sgarbato,
che non ha dritto né roverscio? Or teme
ora mille sciocchezze a dir s’avvanza.
non ha lindura e veste alla carlona.
Io non son così buona; un uomo io voglio
bello di volto, di trattar gentile,
generoso di man, grande di core,
che degno sia d’un musicale amore.
Il signor Tascadoro alfin non vuoi
                              M’intendeste.
                                                          Almeno,
potressimo sperar di ben pelarlo.
Ed io finger potrei, che in vita mia
non so d’aver mai detta una bugia?
E poi pelar colui? Ma non vedete
che donar ei non sa, che il suo dinaro
e lo spenderlo crede un gran diffetto?
tutto convien tentar; per poco abbiamo
da fare ancor di qua, se nol peliamo.
Basta, m’ingegnerò ma non so dirvi
                                   Coraggio, o figlia,
una madre amorosa al fianco avrai.
                                       Ma il protettore
senz’altri complimenti egli s’avvanza.
Ohimè, non posso più, presto ch’io sieda.
Ma signor Tascadoro ha qualche male?
               Ride? Di che?
                                           Del vostro inganno.
e ho dato una mangiata da gran porco.
                                     Tanto gonfiato
è il ventre mio che reggermi non posso.
                                          Eh già lo credo.
                              (Ma che mai fa? Che vedo?)
parmi d’aver ancora un salciccione.
                                         (Che mascalzone).
                                 Voi dite ben.
quanto voi mi vedete industrioso,
tanto son per la figlia anco amoroso.
Odi che bella sorte, o figlia mia.
sente per te d’amor qualche tormento.
                                     (Bel complimento).
ch’egli scherza così; sperar non posso
possa vantar un sì garbato amante.
Ma tutto, tutto per la schiena... (A farle
un complimento anch’io polito e nuovo
vorrei belle parole e non ne trovo).
Sangue... Schiena... (Un bastone).
                                                               (Oh me tapina!)
voi pelate il mio core e il mio polmone;
di parole per voi resta pelato.
                                        Sentite il core.
né vestiti così da capellone.
                               Politi nel vestire;
abito corto con larghi faldoni,
attillati calzoni alla spagnola,
di bianchi pizzi e fini il manicino,
piccolo capellino, anzi invisibile;
di dietro il maroné con borsa o coda,
scarpa senz’alzatura in su voltata,
calzetta fiammeggiante e ben stirata.
nel conversar civili e rispettosi;
m’intendete? Così van gl’amorosi.
ah Pelarina mia, che belle cose
io saprò far prima che venga sera.
Ma la lezzione non udiste intiera.
che debbo far per esser vero amante.
Vi resta da imparar il più importante.
                                     Voi le saccoccie
d’ampolline, di bussoli e di stucchi,
tutti ripieni di galanterie
o di qualche vital contraveleno.
massiccie con tabacco soprafino,
e quel che importa in tasca un gran borsone
gravido di zecchini traboccanti;
e questa è la lezzion de’ veri amanti.
quest’ultima lezzion ma vuo’ far tutto,
purché, o bella, ma bella voi m’amiate.
                               Non dubitate.
                                         Il mio tesoro
                                       Ah dal contento
quieto non posso star. L’oro e l’argento
che mi fa diventar gradito amante
porterò sempre ma ben chiuso adosso.
Così ti peleremo infin su l’osso.
vuoi lasciarti scappar la tua fortuna.
Voi dite ben; peliamolo peliamolo
Quand’ei donato avrà, vorrà ch’io doni,
le speranze a pagar; la splendidezza
e voglion coi regali aver comprato.
quanto in uscir da perigliosi incontri
credimi, a un rischio tal non t’esporrei.
Ma tutta la mia pena or non è questa.
almen dell’amor suo vorrà parlarmi;
no con quel babuin; soffrir non posso.
Tutto ha il rimedio suo, fuor che quest’osso.
Diamogli quando vien quella pelata
ch’io penso, gli faremo un tal spavento
ch’ei mai più di vederti avrà ardimento.
                                           Ho preparato
                                   Ma il mio prendeste
che far pagar volete a quel buon uomo?
Sì, quel che l’impressario di Mazorbo
                       Ma poi quel personaggio
che fingerete in venezian linguaggio
la veneta adoprar favella amata,
su queste pietre cotte io sembro nata.
                                             Eh non v’è dubio.
                Sì, ma Tascadoro viene,
                            Addescarlo or mi conviene.
                                      (O che figura!)
                               Da parigin vestito,
nel favellar gentile e rispettoso
eccovi in Tascadoro un amoroso.
che incantata m’avete. (Oh bestia!)
                                                                 (Oh matto!)
Non vel dess’io che stupirete?
                                                        Andate.
                                           Voi sospirate?
                                   Oh dio! Non più,
che a questo vago oggetto e sì galante
resa abbastanza io son tenera amante.
O cara, o grande, o amabile lezione,
da voi poc’anzi a me insegnata!
                                                          Io vado
a scriver una lettera; tu intanto,
o figlia, il cavalier va’ rallegrando
con qualche scherzo; a te lo raccomando.
e so ben io di rallegrarlo il modo.
                          Restiam soli? Or sì ch’io godo.
                            In libertà vedermi
con voi empie di gioia il seno mio.
col riso accompagnar la vostra gioia.
il vedermi sì lindo e sì garbato?
da troppo fiera angoscia è questo core.
                                     Voi, voi la siete.
                      Sì; nel dirmi che godete
brillar faceste, oh cielo! agl’occhi miei
che mi fe’ ricordar d’un che perdei
maledetta lezzion!) Io vuo’ riporlo
consolarmi così per un momento.
(Ahimè!) No, che il vederlo è più tormento.
                         Ah crudel!
                                               Oh dio! Prendete,
vostro conforto ei sia, non lagrimate,
                                        Voi mel donate?
                   Grazie, grazie.
                                                A contemplarlo...
sempre il contemplerò; come è mai bello!
                                      (Povero anello!
                                           Ma che vi turba?
è pur la libertade a voi sì cara.
Sì. (Mai più solo. Oh libertade amara!
Ma non si perda in tutto). Or Pelarina
(Ecco la mosca che s’accosta al mele).
Mio bel sol che sereni i giorni miei
                             Sì sì mia bella Venere.
(Dell’anello il brugior già più non sento).
E amorosa così vi brama il core.
(Un nuovo segno or ti vuo’ dar d’amore).
                                      Che? Partite?
Alla conversazion del conte Cimbano
a mez’ora di notte io sono attesa.
fan di ventitré ore un quarto meno.
È ver, ma che disdetta a una mia pari
è il non aver cinque orologgi almeno.
un da conversazione, il quarto al letto.
(Ahi si fa brutto il tempo). E il quinto poi?
possa il quinto giovar vedete voi.
e l’ultimo che dite anzi è proibito,
acciò la virtuosa non s’affanni
e si faccia aspettar così al teatro.
Eh non scherzate. È debito preciso
                          Or favelliam d’amore.
Pria di parlarne più, debbo insegnarvi
come all’amata il vero amor ragioni.
No no, da voi non voglio altre lezzioni.
                                Ah che non posso.
                                                                   Andarne
                          Fermate. (Oh ciel!) S’ascolti
un vero amante alfin come si scopre.
D’un verace amator parlano l’opre.
(E gl’orologgi miei parlar dovranno).
                            Poneteli in mia mano
ve li consegno e ad ascoltar m’appresto.
(Che parlar assassino, o Giove, è questo).
Parlan così; sentite: «È Tascadoro
Seguite, o cari, via parlate ancora,
Non parlan più, perché vi manca il quinto.
Or via mo, siate buona, e se m’uccise...
e cordoni de seda a un soldo al brazzo.
                                                 Sì; godrete,
è allegra assai, rider farebbe i marmi.
(E il diavolo or la porta a disturbarmi).
creature comprei a un soldo al brazzo.
(Brava mia madre). O Canacchiona addio.
Fazzo de reverenza a vusustrissime.
                                 Quanti anni e quanti mesi?
con un bel zentilomo in compagnia.
O cara donna quanto mi piacete.
S’è gonfiato in udir bel gentiluomo.
Che sielo benedio. Quanto che godo
co vedo zoventù che se vuol ben.
la fa cascar el cuor. Questo xe ’l tempo
che in vecchiezza se xe boni da gnente.
                              Non vel dissi?
                                                          O bona,
diga chi vuol, mi son la Canacchiona.
                            Un cao ma su la giusta.
                             E poi robba portata...
No da donna onorata... Uh si savessi,
ma no la vuol che in casa i ghe lo veda
za mez’ora in scondon la me l’ha dao.
                                            (Perduto
questo tempo è per me senz’alcun frutto).
Credo de sì; l’è un drappo a tutta usanza
e po basta saver ch’el vien de Franza.
Sì ben de Franza; no vedé che mina?
(Chi sa s’egli né men vide Fusina).
l’è longo, grando, ricco e ’l fa fegura
e per vu el ve anderave una pittura.
Dite ben; quanto è ’l prezzo?
                                                      El costa assae
a chi l’ha fatto far; ma chi lo vende
con puoco l’ha acquistao, ghe preme i trairi
per cento zecchinati anca i lo mola.
                            Che? Cento zecchini
                                         Anzi buonissimo
al merito del drappo; a farlo nuovo
ne vorrebbon ducento; e sol mi pesa
né poter perciò far sì buona spesa.
                                       Anca sti torti
vu fé a sto zentilomo? In so presenzia
tremé de bezzi? Nol xe minga un tegna
da no ve contentar de sta fredura.
alla conversazion; vi lascio, addio.
                                    (Amor mi tiene
ch’io v’obligassi a far questa spesetta.
che studian di pelar or questo, or quello.
(Gl’orologgi lo san, lo sa il mio anello).
                                               Che dite?
                                    Ma non udite
                                              Udiste?
                                                               Eh via,
lassé ch’el ve lo crompa.
                                             (Oh che maliarda!)
                                       (Or sì respiro).
                                   Io sarei pronto
                                              Quando si tratta
                                          Ma se badate...
ricevo il don, contategli il denaro.
(Ah per te borsa mia non vi è riparo).
dolce pegno d’amor perch’io vi creda?
                             Son qui.
                                               Via, che li veda.
                           (Sorte crudel!) Prendete
E ben, si qualche gran anca i calasse
                                                 Or vado
Eh non partite; al vostro amore appresso...
Olà; comandi a me? Vuo’ andarvi adesso.
Ecco a che ti conduce, o Volpiciona,
l’amor di madre. Il ciel la mandi buona.
È venuto il capriccio a Pelarina
di voler ella stessa travestita
far la filata a Tascador, se viene;
in caso di bisogno e trasformarmi
volli, per esser pronta all’occasione.
                                      Ottimamente
                                            Eh non temete.
                                                 Ancora
io te lo dissi già che per un uomo
noto a me, ignoto a lui, ma destro assai
e s’accostasse alla mia casa ancora,
se dal suo capo uscir farò l’umore
                                     Pure ho timore.
Eh so il parlar, so tutto ed ho coraggio.
talvolta delle belle io ne farei
come fan certi bravi al giorno d’oggi,
che con un magazin d’armi alle mani
voglion dar, amazzar ma stan lontani.
                                        Uh sento gente.
                                        Ci giovi or l’arte.
a che mai mi riduci. E pur io voglio
andar da Pelarina, anco al dispetto
di colui che mandò questo biglietto.
Chi mai è quella maschera che veggo?
                                   Si può sentir di peggio?
«Signor buffalo». A me. «Se mai più in casa
di Pelarina andar e di guardarla
con la vita l’ardir tu pagherai.
La mascheretta è Tascadoro.
                                                     Eh via.
colei tanto infedel? Ma forse ancora
non sa di questo conte indiavolato.
così son travestito; in questa guisa
deludo il Campagnola e vado a lei.
Un altro più bel colpo io già pensai.
              Se alfin tradito è l’amor mio,
                   Vanne, trattienlo, usa con esso
ciò che a te alcuna volta è intervenuto.
Eh sono donne alfine e intimorirle
(Farsi animo convien e uscir d’imbroglio).
La ran, la ran, la ran, lan la ran lella.
                                       Mascheretta
                             A servirve, un galantomo
                                        (Ora comprendo.
ochietti bagolosi e comandeme.
Si no volé vegnir a l’ostaria,
anderemo al cafè, alla malvasia.
sbrigarmi io vuo’). Pe’ fatti vostri andate,
io di quelle non son che voi cercate.
a quella sottogola de alabastro,
a quelle ganassette delicate
ma si bella vu sé, sié mo anca bona.
(Che feci!) Ehem ehem, son raffredata.
                         (Volontier gli scoprirei
che son uomo ma poi per la mia vita
                   A un cortesan della mia sorte
sti torti no se fa; so la maniera
d’averme refudà ve pentiressi.
Signor no, signor no, l’è ben curiosa.
Si no vegnì con mi, gnanca con altri
vu no anderé; da vu mi no me parto,
magari in Inghildon, ve vegno drio.
Questa vi mancherebbe al caso mio.
mi te gh’ho pur trovada e l’esser scaltra
                                           (Eccone un’altra).
(Or sì ch’egli sta fresco).
                                              Siora maschera
la me fazza giustizia; sta sassina
in gheto za do mesi xe vegnuda
e tanto la gh’ha dito e tanto fato
a nolo senza pegno ghe l’ha dai
No me disé de più, za intendo il resto.
l’abito per truffar e ’l nolo insieme.
                                      Tasi sfazzada.
ch’esser posto tra un bulo ed un ebreo?)
tardo, costor di me faran strapazzo).
son qua tutto per vu; de consolarve
de le so baronae pagar el fio.
Eh la va lunga assai; mirate entrambi
l’insolenza che troppo or va avanzando.
(Già mi svelai. Giove mi raccomando).
                             Tasé. Vu dona mata
si megio no parlé, volé che fazza
de quella vostra mausa una fugazza.
                          Sì ben; no seu Pandora?
                                        Semio quagioti?
A la ose arzentina, a tutto el resto
                              Ch’io sono donna?
O questa sì che saria bella assai.
Or vedo ben che siete ambi d’accordo
                                 Oe, parla megio;
                              Semo galantomini,
qua no ghe xe d’accordi, è vero el fato
                             Ah tristo scelerato.
                         Via, che te averzo a mezo.
                                      Giustizia.
                                                          Adesso
vederé si so far la parte mia.
(Era pur meglio andar all’osteria).
si no, come i salai te tagio in fete.
Son putta, sì signor; ma che volete?
lei sbaglia in verità; questi vestiti
                                (Questa è più bella).
                  Via, tasi là; no la ghe creda,
                                         Eccoli subito.
(Che rabia!) Prendi sì ma un giorno... Basta.
                                         (Che figurina!)
                                           Olà, fermeve,
                                           Le mie sventure
a ela siora maschera ghe rendo,
che la m’ha fatto dar la roba mia
e la fa che culia vaga a radichi;
mandar ghe vogio de pastei bruicci.
Oibò; adesso vu sé sior Tascadoro.
                                 (Che piacere è questo).
                        Ah ah la mascheretta.
Questo dunque è l’amor?...
                                                   Stai ben burlato.
or v’uscirà dal capo la pazzia
                            Voglio la roba mia.
che mi parlasti; or che rubbato m’hai
                                        Taci insolente.

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