a tutt’i forastieri dà ricetto
e gli convien dormir fuori del letto.
ei si va rovinando ed io, che sono
da questo sciocco economo creato,
or che manca il denar, son imbrogliato.
Orsù lo vuo’ svegliar. Già s’alza il sole;
fra quei che siamo e quelli che verranno,
mezza l’entrata sua di tutto l’anno.
Signor Fabrizio... Ehi, signor Fabrizio.
Che? (Svegliandosi un poco)
Egli si torna a addormentare.
Seguitate. (Si risveglia)
Tengo gli occhi serrati ma v’ascolto. (Dorme)
convien fare una buona provigione.
Che rispondete? Sì, dorme di gusto.
Voi avete timor ch’io m’addormenti.
Pericolo non v’è ma per gradirvi
non so più come far, che oggi s’aspetta
E buonanotte di vosignoria.
Signor Fabrizio... Ehi, signor Fabrizio...
Signor Fabrizio... (Più forte)
Dormo io? Signor no. Eccomi lesto.
Venite qua. (Lo prende per una mano e lo tien forte)
signor Foresto caro, non ne ho.
per supplire l’impegno in cui voi siete?
Sì. (S’appoggia alle spalle di Foresto)
La carroz... za... (S’addormenta)
di volervi servir di matarazzo.
O la carrozza o il carro,
che se non v’è denar l’Arcadia vostra
grazie vi renderà del dolce invito.
e l’Arcadia e i pastori impianterei.
son già stato graziato, il dover mio
vuol che st’anno lo stesso faccia anch’io.
E poi e poi vi son quelle ragazze
e spero aver d’innamorarle il vanto.
e quanto doverò spender ancora. (Tira fuori un foglio ed una penna da lapis)
bramo che siate voi mia pastorella.
e vi accetto, signor, per mio pastore.
seguendo dell’Arcadia il paragone,
ed il pover Fabrizio niente, niente.
s’uno di lor signor mi desse loco.
Intesi a dir fra l’altre cose vere
che non manca mai sedia a chi ha il sedere.
Io niente e loro tutto? Aspetta, aspetta).
Amico, una parola. (A Foresto)
Non m’intendete? Un capo storno!
Lauretta, adesso torno. (S’alza)
Passeggiate un tantino ed io mi sento. (Siede nel loco di Foresto)
io non voglio star senza pastorella.
cotanta inciviltà? (S’alza)
Dirò meglio; voi siete un villanaccio.
Questa casa ch’è qui non è più vostra.
noi siamo pastorelle e voi pastore;
e non serve che fate il bell’umore.
che non v’abbiam sinor cacciato via.
ve lo tornerò a dir un’altra volta.
Se commanda seder, si serva pure.
Io non voglio star senza pastorella. (Contrafacendo Fabrizio)
Siete l’amico mio più fido e caro.
che tutti se n’andiamo in compagnia. (Parte)
Andate col malan ch’il ciel vi dia.
che dite voi! Che dite voi, Giacinto,
scaltra finge odiar quel che più adora.
Più volte l’amor suo m’ha confidato.
Bellezze fortunate! (Toccandosi il viso)
s’ella v’ama, signor, io vado via,
che non voglio impazzir per gelosia.
Ma Laura sarà poi meco sdegnata.
Io non vuo’ quella donna indiavolata.
L’amicizia, il dover non lo permette.
aggiustiamo le cose infra di noi
e lasciate che poi Lauretta dica.
V’amo ma non vogl’io tradir l’amica.
più rispetto vi dico e più giudizio.
Rosana mi vuol bene e mi discaccia;
Laura mi porta affetto e mi strappazza.
s’innamoran così, son tutti matti;
questo sembra un amor tra cani e gatti.
Dille che venga tosto e non si penta,
che venga ad onorar l’Arcadia in Brenta. (Parte il servo)
Fosse di me invaghita! Allora sì
farei di gelosia diventar pazze.
Oimè, non posso più. (Indietro)
Per le mie pianticine è troppo e troppo.
io non posso sentir cattivi odori.
L’odor non è cattivo, faccia grazia.
Ho sentito l’odor di gelsomino.
che di madama hai conturbato il naso.
Mi volete stroppiar. Voi lo sapete.
Tre passi in una volta non fo mai.
Come dunque farà a salir le scale?
donna non v’è di me. Voi stupireste
non si fan quattro passi in su un mattone.
e perché il tempo veramente intendo,
quattro battute in ogni passo io spendo.
Dunque sopra una festa in tal maniera
un minuetto si farà per sera.
Or le farò venir. Ehi. (Chiama il servo)
Oimè, con quella voce così alta
Ella non può sentir alzar la voce?
Lo stranuto e la tosse ancor mi nuoce.
Credo provenga dalla gran bellezza.
Quando lo dice lei, sarà così.
per lei ci vuole almeno una giornata.
se si contenta lei, signor Fabrizio.
Ah vada, vada (che mi fa servizio).
Sia ringraziato il ciel che se n’è andata.
e il denar va mancando; e la carrozza
sarà vendutta ed i cavalli ancora.
di veder due ragazze innamorate
che per me tutte due son spasimate.
Viene il conte Bellezza? Venga, venga.
Giacché alla casa s’ha a veder il fondo,
costui porre mi vuole in soggezione.
al prototipo ver de’ generosi
l’infimo de’ suoi servi rispettosi.
i pregi vostri con eroica tromba;
di Fabrizio Fabroni da Fabriano.
benché il merito mio sia circonscritto,
nel ruolo de’ suoi servi esser descritto.
per far la mente mia sazia e contenta,
son venuto a goder l’Arcadia in Brenta.
poco disse finor di voi parlando,
che con raggi di placido splendore
spiega l’idea del liberal suo core.
Per andar alla breve, io tacerò.
quanto, quanto mi piace! Ella tacendo
col mutto favellar va rispondendo.
Ella vuol favorirmi ed io mi arrendo;
ed accetto le grazie e grazie rendo.
Se qui vuole restar, mi farà onore.
Cerimonie non fo, son di bon core.
Viva il buon cor. Anch’io l’affettazione
parlar mi piace natural affatto.
il più divoto e caldo sentimento,
trabocca dalle labra il mio contento.
che mi rese il più vago e il più giocondo
grazioso cavalier che viva al mondo.
Me ne rallegro assai. S’ella bramasse
che l’arcisoprafina sua bontà
gentilissimamente ora mi fa.
delle grazie, onde lei m’ha incatenato...
Vada lei, mio signore, o vado io.
Con due pazzi di più nella brigata
ora l’Arcadia in Brenta è terminata.
E viva l’allegria. Corpo del diavolo,
Per passare con esse i giorni miei,
cospetto... non so dir cosa farei.
dove mai sono? Ohimè, che nel cercarle
che mi sento di già mancar il fiato.
Anzi al provido ciel le grazie io mando,
perché degno mi fe’ di suo commando.
(Non mi dispiace, è tutto gentilezza).
obligato, divoto e profondissimo.
Deh, mi conceda l’alto onor sovrano
di poterle bacciar la bianca mano.
M’avete rovinato il mio ditino.
che non posso sì forte esser toccata.
alzo la lattea dellicata mano
l’acuto pelo che vi spunta al mento,
mi vedrete cadere in svenimento.
siate pietosa, oh dio, se bella siete.
vi domando pietà, grazia, mercede.
L’avete con il fiato un po’ alterata.
Riposate la man sovra il mio braccio.
Vi vorrei compiacer ma non vorrei
che non vi spiacerà. La bella mano
e mentr’ella s’appressa al labro mio
il labbro inchino e me gl’accosto anch’io.
Sian grazie al cielo, al fato;
generosa madama, io son beato.
Signor conte Bellezza, io mi consolo.
(Indiscreta fortuna!) Ma di che?
per tutto questo dì d’Arcadia nostra.
Anzi i meriti vostri a noi son noti
e creato v’abbiam con tutti i voti.
e d’esservi soggetta esulto e godo.
il bramato piacer de’ labbri miei.
Ahi mi fate morir con questi odori.
se lo prendo, potria maccarmi un dito.
Non mi piace, signor, va troppo in su.
mi voglio divertir con chi ne piglia).
È foglia schietta, schietta e leggierissima.
Questo, questo mi piace, obligatissima. (Prende tabacco)
li farà stranutar fino alla sera). (Parte)
Dai lacci neghitosi del silenzio
qual monarca di dive e semidei,
do glorioso principio a’ cenni miei.
gli manda un memorial, con cui lo prega
commandar ai pastor che per servizio
lascino qualche ninfa anco a Fabrizio.
Giuste le preci son ma non è giusto
delle ninfe arbitrar. Quella sia vostra
che inclinata e proclive a voi si mostra.
ma non vuo’ disgustar la mia Lauretta.
che a voi piace quel viso, io ve lo ciedo.
E fra due litiganti il terzo goda.
non mi vuo’ scommodar di dove sono.
(Maledetti! Mi mangiano le coste,
Or sì che i miei denar gli spendo bene).
a cui per vostro dono io son alzato,
due commandi vi do tutti in un fiato.
scelga il pastor, di tutti alla presenza,
ma non vuo’ che Fabrizio resti senza.
Secondo: quel pastor che sarà eletto
del regalo disponga a suo piacere.
(Già mia voi siete). (Piano a Rosana)
Deh lasciate che io finga e non temete. (Piano a Giacinto)
Lasciatela parlar. (A Giacinto)
sarà il signor Fabrizio il mio pastore.
Evviva, evviva. Ah! Che ne dite? Oh cara!
Per la mia pastorella io già vi accetto.
Piano, piano di grazia, padron mio,
la maschera mi levo e parlo chiaro.
impazzir e creppar voi mi vedrete.
(So che finge). Ma come! Se Rosana...
Di cedere Fabrizio io non intendo.
Signor principe, questo è un brutto imbroglio.
per consolar delle due ninfe il core,
abbian due pastorelle un sol pastore.
Evviva, evviva; bravo per mia fé.
Son capace, lo giuro, anco per tre.
s’ella dice da vero e non ischerza,
io fra le ninfe sue sarò la terza.
Venga la quarta ancor, mi fa servizio;
non mi perdo in la folla; io son Fabrizio.
Una volta per uno, tocca a me.
Se voi pastor delle tre ninfe siete,
regalar le tre ninfe ora dovete.
questo favor mi vuol costar salato).
Via, portatevi ben, signor pastore.
perché mi brilla in sen il cor contento,
questo picciol brillante io vi presento.
È molto spiritoso, è molto bello;
brilla comecché a voi brilla il cervello.
per cui ognora tormentato sono,
quest’orologgio d’or presento in dono.
in lui la vostra amabile figura,
perché voi siete tondo di natura.
perché si guardi dalla stranutiglia,
le do una tabacchiera di Siviglia.
Ed io che v’amo tanto bramerei
per poterne goder a tutte l’ore,
fosse polverizzato il vostro core.
ne disponga ciascuna a suo talento
e faccia al donator un complimento.
ch’io lo delusi e questo è il mio pastore.
che già di lui non me n’importa un fico.
al principe presento e mio pastore,
perché quel tabaccaccio mi fa male
e chi me l’ha donato è un animale.
Che siate maledetti tutti sei. (Tutti si alzano)
Oh quanto mi fa ridere, ah, ah. (Ride)
non posso respirar. (Si getta a sedere)
Il rider mi scompone e mi rovina.
siete tenera assai, vi compatisco.
(Con questa smorfia anch’io mi divertisco).
vuo’ seguitar Fabrizio. Egli è arrabiato.
Vuo’ veder di placarlo. A dirla schietta,
tutto il torto non ha. Ma questo è il frutto
di chi vuol far di più del proprio stato;
spende, soffre, non gode ed è burlato. (Parte)
certi pazzi che fan gl’innamorati
Quando il genio non v’è, non fanno niente.
e se si voglion rovinar suo danno.
non l’intendo, Lauretta, come voi.
e per non ingannar nulla prometto.
Parliam d’altro di grazia.
andiam per questi deliziosi calli,
la vil bellezza a svergognar de’ fiori.
vi dovrebbe piacer). (A Rosana)
(Per qual ragione?) (A Giacinto)
(Piace alle donne assai l’adulazione). (A Rosana)
Rosana se n’andrà col suo Giacinto
Lei di cavaleria non sa la scola.
io son un mentecatto, io son un bue.
Servirò, se il permette, a tutte due.
Io son contenta e le sue grazie attendo.
Eccomi. Favorisca. Faccia grazia.
Su l’umil braccio mio poggi la mano.
(Più grazioso piacer non ebbi mai). (A Giacinto)
Con questo andar sì pian, voi m’ammazzate.
nel terribile impegno). Via, madama,
Più piano di così? Mi vien la morte.
Vi dico ch’io non posso andar sì forte.
(Cosa invero piacevole e gustosa!)
Madama, andate pian quanto volete,
per non venir in vostra compagnia,
vi faccio riverenza e vado via. (Parte)
non convien per certo ad una dama.
Affettar noi dobbiam, per separarci
una delicatezza estraordinaria. (Parte)
Io che stolto non son scelta ho per ninfa
donna di senno e di beltà.
non seguite anche voi quel vil costume
io vi stimo assai più che non credete.
ma terminata poi l’Arcadia nostra,
pastorella non son, non son più vostra.
io per sempre sarò vostro pastore.
Felicissima Arcadia allor direi,
lieta passar potessi al colle, al prato,
col mio pastor, col mio Giacinto allato.
Purtroppo è ver che s’introduce il foco
d’amor ne’ nostri petti a poco a poco.
tratta e conversa ognun di vario sesso,
nella stagion di temperati ardori
impegni, servitù, dolcezza, amori.
non fate che vi domini la bile.
Ve ne dovete andar qualor vi mando.
l’orologgio, la scattola e l’anello
Ciò ch’ha di vostro ognun di noi vi rende
né d’usurpar il vostro alcun pretende. (Gli dà l’orologio, la scattola e l’anello)
Eh non dico, non dico ma vedermi
per prendersi piacer ma dietro poi
le vostre spalle ognun vi reca lode.
E del vostro bon cuor favella e gode.
Son bon amico; e faccio quel ch’io posso.
tanti bei ducatoni sono andati?
I debiti maggior si son pagati.
Consigliatemi voi, se lo sapete.
Foresto caro, a terminar la festa.
non abbiate il tesor maggior del mondo
(che presto noi gli vederemmo il fondo).
Un certo non so che si va ideando.
Qualor torno saprete il come e il quando. (Parte)
Tutto va ben. Lo so che mi rovino.
Ma non importa. Almen anch’io godessi
da coteste mie ninfe traditore
un qualche segno di pietoso amore.
Signor Fabrizio. (Di lontano)
mi par troppo flematica).
Signor Fabrizio. (Come sopra)
di far un poco il cicisbeo con lei).
Si... gnor Fa... bri... zio. (Con caricatura)
Ho gridato sì forte che la gola
quas’in petto una vena m’è creppata.
Impastata mi par di ricottina.
Sederei volontier ma questa sedia
Sul morbido seder son avvezzata.
Ehi... Dico pian, non tema. Ehi reca tosto
una sedia miglior. (Viene il servo)
Molt’obligata. (Il servo va e torna con una sedia di damasco)
ch’io non posso sperar di starvi bene.
Ella è padrona. (Torna il servo colla poltrona)
il guancial di vacchetta è troppo duro.
quell’odor di vacchetta, ahi, mi fa male. (Torna Fabrizio con un matarazzo)
lo conosco, lo so; no, non credevo
ahi, che mi vien per il dolore il pianto.
Si contenga chi può. Corpo del diavolo,
il principe d’Arcadia ha comandato
che dobbiam recitar all’improviso
Non temete ch’io vi contenterò.
da innamorata dovrà far madama.
e voi dovete far da servitore.
Il buffo io dovrò far? Quest’è un mestiere
ma far rider i savi è grand’impegno.
andatevi a vestir, ch’io venirò.
Mi dispiace il parlar all’improviso.
Se fosse una comedia almen studiata,
si potrebbe salvar il recitante,
dicendo che il poeta è un ignorante. (Parte)
Certo, non dice mal, sogliono tutti
gettar la colpa su la schiena altrui.
Se un’opera va mal, dice il poeta:
«La mia composizion è buona e bella;
quel ch’ha fallato è il mastro di capella».
e che il difetto vien da chi la canta.
senza saper qual siane la cagione,
se ne va dolcemente in perdizione.
s’oppone al sole e l’ampia terra oscura,
coperto il mio bel sol cui l’altro cede,
l’occhio mio più non vede, ond’è che afflitto
i nuovi raggi del mio sole attendo.
Tu me parle tidisca, io non t’intendo.
in un quadro si batte o in una sedia,
come i comici fanno alla comedia.
Aggio caputo ma famme na grazia;
pe che da tozzolare aggio alla porta?
che facciano l’amor sopra la strada
ma ciò sogliono usar i commedianti.
Sì sì, tozzolerò ma se qualcuno,
quando ho battuto io, battesse a me?
Lascia far, non importa, io son per te.
Io sono Colombina Menarella.
ch’a nce devertarimo fra de nuie.
se i padroni fra lor fanno l’amore,
fa l’amor colla serva il servitore.
A chi non piaceresti, o Menarella?
Ecco viene quel bel che m’innamora.
Con essa vene Menarella ancora. (Vengono Lindora e Lauretta)
Vengo, vengo, mio bene, eccomi qua.
Ah, voi siete il mio caro Pulcinella.
Per te me sento lo Vesuvio in pietto. (A Laura)
Cotto è il mio core al foco dell’affetto.
Ohimè, che son andato in precipizio.
Povera Arcadia! Povero Fabrizio!
è venduto il vendibile. Ogni cosa
alfin s’è terminata il giorno d’ieri
e non v’è da mangiar pei forastieri.
Io non so che mi far, son disperato.
Signor Fabrizio d’ogni grazia adorno,
mi sento nello stomaco aggravata.
Beverei volontier la cioccolata.
(Certo tu non la bevi stamatina).
Signor Fabrizio amabile e garbato,
la mia colanzioncina praticata.
E in che consiste la sua colazione?
poscia lo fo bollire a poco a poco
e lo fo consumar fin che vi resta
e vi taglio due fette di panino.
Se il cappon non vi fosse...
certo per debolezza io morirei.
stamattina, madama, ha da creppare).
anco per questo dì fui confermato,
una solenne strepitosa caccia.
sono i cani ammaniti, altro non manca
supplisca dal suo canto al grande impegno.
torta, latte, insalata e pochi frutti
e poi il di lei bel cor contenta tutti.
Ah, non vuol altro? Sì, sarà servito.
Stamane il desinar sarà compito.
È un’ora che vi cerco e non vi trovo.
Giacinto ne vorria, Rosana il chiede
e un cane che lo porti non si vede.
Oh cancaro, mi spiace! Presto presto.
Per le ninfe d’Arcadia è un bon pastore.
Signori miei, disingannar vi voglio.
Il povero Fabrizio è disperato.
Ordina di gran cose ma stamane
non ha due soldi da comprarsi un pane.
fin che si trovin quei che voglion spendere.
Come viver potrò senza ristoro?
Ahimè, che languidezza! Io manco, io moro.
estratto di canella soprafina.
Deh fatemi il piacer, contino mio,
con qualche solutivo delicato.
Per servirvi, madama, in un istante,
pongo lo sprone al cor, l’ali alle piante. (Parte)
perché ogni vostro mal fosse guarito.
Che ne dite, madama, la ricetta
né di lei né di voi le debolezze.
Le passioni d’amor son leggerezze.
Modestia è gran virtù. Ma finalmente
la passione del cor convien che sbocchi,
che se il labbro non parla, parlan gl’occhi.
Parto, perché sturbarvi non conviene. (Parte)
Io l’amo, è ver, ma non vuo’ dirlo adesso;
vuo’ sostener la gravità del sesso.
Eccovi lo spezial, signora mia,
ed ha mezza con lui la speziaria.
Il cordiale. (Allo speziale) Ecco il cordiale. (A madama)
Dite ben, dite bene, io beverò. (Ne getta mezzo in un bicchiere e lo beve, poi dà il resto a Lindora)
ah no no, non lo voglio, è tutto foco.
Bevetene voi prima in quel bicchiere.
Ma voi non siete cavagliere.
vi servo, io bevo e cavalier io sono.
Mi ha posto un mongibel nel corpo mio.
Dunque, quand’è così, non lo vogl’io.
Ed io intanto l’ho preso.
e se voi vi sentite indigestione,
in poch’ore farà l’operazione.
Mezzo voi il beverete e mezzo io.
Beverò, beverò, sì, madamina.
(Lei ha mal ed io prendo medicina).
Ohibò, nausea mi fa, no, non lo voglio.
Conte, soffrite voi che soffro anch’io.
Povero conte! Al certo riderei,
se non mi fesse il rider tanto male.
la disgrazia dell’ospite compito
che per la bell’Arcadia è già fallito.
Rosana, che non lungi ha la sua villa,
e con noi condurremo anco Fabrizio.
me ne dispiace assai. Ma non ci penso,
forse per compassion m’attristerei
e attristandomi un poco io morirei.
allegra più di quel che ognuno crede
ma fa morir d’inedia chi la vede.
Mandati avanti ho i servitori miei;
che veniste voi meco io bramerei.
Non ricuso l’onor che voi mi fate.
quando nella mia casa voi sarete,
io farovi padron e disporrete.
e da voi sol la mia fortuna attendo. (Parte)
m’accese un dolce foco in seno amore.
L’amo, l’adoro e gli ho donato il core.
doppo aver rovinata casa mia.
Vuo’ fugir la vergogna e scampar via. (S’incontra in Foresto)
Aspettatemi qui, che adesso torno. (Vuol andar da una parte e s’incontra in Rosana)
degnatevi venir in casa mia.
Con buona grazia di vusignoria. (Vuol andar da un altro lato e s’incontra in Giacinto)
venite da Rosana a star con noi.
Aspettate un pochino e son con voi. (Si volta da una parte e incontra madama Lindora)
Voi siete prigionier, non vi movete.
Che vi venga la rabbia a quanti siete.
permettete ch’io parli; ognuno sa
che non v’è più rimedio. Ognun vi prega
che venghiate con noi; se ricusate,
superbia e non virtù voi dimostrate.
Non siate con tre donne ingrato e duro.
Orsù, m’arrendo al generoso invito.
esigger compassion dal mondo ingrato.
ch’hanno mandato il misero in rovina
lo metton colli scherni alla berlina.