la giornata si passi in allegria.
da me stesso composti in questo punto.
variamente s’impiega e si ricrea,
col faceto mio stil così dicea:
«De’ gusti disputar cosa è fallace,
non è bel quel ch’è bel ma quel che piace».
Ciascheduno ha il suo gusto. Io pure ho il mio.
godono nel parlar d’amor, di foco.
Mia cugina ed il conte amano il gioco.
ed il signor Pachione, il poverino,
ama i ragù, la cioccolata e il vino.
più d’una cosa che d’un’altra è amico.
Ho il mio gusto ancor io ma non lo dico.
di questi versi miei. Ciascun si vanti
del suo gusto parzial, li legga e canti. (Dà un foglio ad Artimisia. Tutti s’alzano, ripeton la canzona sudetta; indi partono tutti fuorché Artimisia e Rosalba)
vi dilettate di giocar. Badate
che dovrete pagar, se perderete,
quando giocan con noi, la bella usanza
che il non farsi pagar sia un’increanza.
né per vizio giocar né per diletto.
Non so dir per qual cosa io senta affetto.
Tutto mi piace e niente mi dà pena.
Faccio quel che di far mi vien promosso
e contento ciascun, se farlo io posso.
gradindo tutti e non negando mai
voi vi farete degli amici assai.
È il mio tutto all’apposto.
Godo a far disperare e me ne rido.
Fingo d’esser gelosa e non lo sono;
dar altrui gelosia mi dà diletto.
ho piacere talor che si disgusti.
E se pianger lo vedo? È il re dei gusti.
che un amante sospiri e se ’l vedessi
una lacrima trar sugli occhi miei,
non so dir, non so dir quel ch’io farei.
Del tuo tenero cuor ti pentirai.
la crudeltà che nel tuo sen non cova.
Fede, sincerità più non si trova.
e ad ogni ingannator pronto ho un inganno.
le congiunte, gli amici e i spasimati.
Ma non avrei divertimento alcuno,
senza farli arrabbiare ad uno ad uno.
fattomi preparar pentole e fuoco
sono andato in cucina e ho fatto il cuoco.
cotto colle tartufole e il presciutto;
oh vita mia! Me lo mangerei tutto.
siete per quel che sento un bel mangione.
oltre quel del mangiar gusto migliore?
non lo nego, lo so, godo star presso
d’una donna gentil, vezzosa, amena
ma mi piace di farlo a pancia piena.
che per me sia venuto a favorirmi
don Pachione gentil. Per lui nel cuore,
lo dirò con rossor, provo il martello
ed ei pensa al prosciutto ed al vitello?
siete per non vederlo? Ad una donna
vedova, qual io son, non isconviene
palesar l’amor suo, dir le sue pene.
il pingue corpo e la robusta schiena.
Ma più di me v’alletterà una cena.
(S’altro lume non hai, resti all’oscuro).
che assicurarmi almen per mio decoro
che v’astenete in faccia mia dall’uso
di soverchio mangiar. Scarso alimento
all’amante bastar suol per usanza;
sia l’amor vostro cibo e la speranza.
che all’amante spiacer comanda amore.
(Quel prezioso vitel mi sta sul cuore).
sperar nel vostro amor? Vile cotanto
sarete voi di preferir la gola
arder costantemente al vostro foco.
è inutile il giurar, vano è l’affetto.
Poco alfin, signor, vi domandai.
Chiedeste poco ed io promissi assai.
far patir l’appetito a un mangiatore,
far che trionfi della gola amore.
Nulla di lui mi cal. Sol nel mio petto
del cavalier di Roccaforte io sento
ma ho piacere anche a lui di dar tormento.
Eccolo, è allegro in viso. Signor no,
no mi piace così. Se mi vuol bene,
dee soffrire per me tormenti e pene.
Idolo del cuor mio! Voi m’annoiate.
m’è venuta dal cuore. Ah lo sapete
testimoni del ver, della mia fé,
collo spirto vital che in voi non è,
in poch’ore, crudel, sensi e favella.
di quei che son per l’aria condannati,
una spoglia fallace han colorita,
d’Artimisia le vesti usurpa e ingombra.
uno spettro sarai; stammi discosto.
condensato il vapor di luogo immondo,
sotto spoglia viril venuto è al mondo.
Che si nasconde in te veggo purtroppo
Farfarello ribaldo o il diavol zoppo.
una larva celarsi. I tuoi begli occhi
spiran fuoco, egli è ver, ma non d’inferno.
Stelle! Per qual ragion dite voi questo?
Perché un vero amator deve esser mesto.
promovete lo spasso e l’allegria.
Dee un amante affettar malinconia.
è pur quel che diletta, è quel che piace.
mesto, tristo, languente, addolorato?
Oh di donna gentil gusto sguaiato.
promotor de’ piaceri e dei diletti,
trattenga il riso e la mestizia affetti?
Ma! Cospetto di Bacco! Io creperò.
Non vi ho mesto così mai più veduto.
a certi conti della mia famiglia.
cosa che mi può far mesto davvero).
D’uopo abbiamo di voi. Poeta amico
e d’Erminia e di me versi ha formati
d’uno stile bizzarro e inusitati.
Risponder si vorrebbe ai carmi suoi;
ecco, amico, il perché si vien da voi.
Versi... versi... Son belli?
Leggerli non vorrei... Ma far nol posso).
al Berna stesso in leggiadria non cede.
Leggiamoli. (Artimisia ora non vede).
«Se d’un paio di nozze amor sei vaggo...»
che ferisce talor senza far male».
(Ride, giubbila e gode. Oh maladetto!)
Gusto non ebbi mai maggior di questo.
Compatite se anch’io vengo ed ascolto;
qualche cosa sarà di portentoso.
Non ha in bellezza eguale.
gode del vago stile e brilla e ride.
Ma se forse per me vi trattenete,
se vi do soggezion, parto; leggete.
Seguite i versi. Or sentirete il buono.
(Fra il diletto e il timor confuso io sono).
«Se d’un paio di nozze amor sei vago».
(È partita Artimisia). Io leggerò.
non so dire perché, non par più quello.
Nol sapete? Il meschin perso ha il cervello.
Nol sapevate? (A Celindo)
Mi dispiace per voi, perché l’amate.
non è vero ch’io l’ami. Anzi per questo
Non vuo’ far disperar questa fanciulla.
invidio il vostro ben ma non usurpo
uno sposo gentile ad una sposa.
(Ho piacere che sia di me gelosa).
Io l’intendo, lo so. Lo sa il mio cuore.
che all’ingrata mia zia serbaste affetto,
in faccia mia non ardirebbe anch’essa
pastor ch’esser non sa morto o ferito,
gli accenti del mio ben m’hanno stordito.
quai detti pronunciò? Mi ama ella dunque,
ella aspira al mio foco e la nipote
non ha rossor di rendere infelice?
E sugli occhi di lei lo svela e dice?
l’ore all’ozio donar. Di chi ci onora
le finezze gradir si mostra poco.
insidiarvi la borsa. Una partita
Del tresette scoperto io sono amico.
Che vi turba Celindo? Ah convien dire,
se ricusate il bel piacer del gioco,
che vi opprima il cordoglio e non sia poco.
Sì l’affanno mi opprime. Erminia, oh dio!
a mancarle cominci e non mi crede.
Compatisco il martir che vi dà pena.
meco fare dovreste una partita.
tutt’altro fa scordar. Quando seduto
io sono al tavolier, mi scordo a un tratto
degli affar, degli amici e de’ parenti;
tutti i debiti miei mi scordo allora.
non ritrovo piacer, pace non trovo
se dell’idolo mio lo sdegno io provo.
non le feste, i teatri, il ballo, il canto
mi potrian consolar, s’io vivo in pianto.
sia piacer, sia tormento o gelo o foco,
perfetta analogia serba col gioco.
Ora ride chi gioca ed or sospira.
lo sfortunato giocator consola.
suol la sorte cambiar chi cambia gioco.
e alfin manda la casa in precipizio
l’incauto amante e il giocator per vizio.
due cioccolate a me. Del cavaliere
cerchisi e sappia ch’io lo bramo adesso.
Itene e a don Pacchion dite lo stesso.
L’ora del pranzo differir mi piace
per vederlo languire e il cavaliere,
che solo in ozio non può star mezz’ora,
nella camera mia passeggia ancora.
vengo, madama, a’ cenni vostri.
faccio per obbedirvi il dover mio.
Mesti vi veggo e scoloriti in viso.
v’agita, vi conturba e opprime il cuore?
voi mi fate una bella compagnia.
Qual disgrazia è accaduta a don Pacchione?
che non curo mangiar; ma veramente
l’ora s’avanza e per destin fatale
quel vitel sì prezioso anderà a male.
Per me fatta non è quella pietanza.
Io mi pasco d’amore e di speranza.
che son io l’infedel che non v’adora.
Questa cosa finor non dissi ancora.
Dunque se del mio amor...
nel vedervi penar, miseri entrambi.
avanzando si va; mi disse il cuoco
che vi manca non poco a dar in tavola
e affamata son io come una diavola.
Qualche cosa si faccia almeno intanto.
beviam la cioccolata in compagnia.
Scemerà una canzone il mio martoro.
Eccola qui la canzonetta amena
Ecco la cioccolata a chi ne vuole.
Porgete a me quel foglio.
Aspettate, che pria bevere io voglio.
Si raffredda quell’altra cioccolata.
lo stomaco con questa reficiate;
su bevetela presto; e voi cantate.
Quel ch’io dico si fa né si ripette.
un piacer bramerei, giacché siam soli.
sotto questa de’ faggi ombra diletta,
voi vorreste giocare alla bassetta.
codesto vizio non l’ho avuto mai.
a me piace goderli in compagnia,
cogli amici in mia casa o all’osteria.
Piace anche a me la società. Goduto
al magnifico pranzo ho anch’io non poco.
Ora il tempo passar vorrei col gioco.
del pranzo ho da parlarvi.
Povero don Pacchion, siete ammalato?
Anzi sto ben, con il celeste aiuto;
il tormento crudel dell’astinenza.
come riuscì quel piatto di vitello.
Ditemi s’era buono, in cortesia.
non ha fatta stamane a gusto mio.
Di quel piatto l’autor sono stat’io.
Ed io non ne ho potuto mangiar niente.
distruggere mi vuol coll’astinenza.
Artimisia vi vuol parco, astinente,
ella mangia, ella beve allegramente;
come colui che sgrida il giocatore,
poi si mette a giocar da traditore.
non dice mal. La vedova gentile
mi vuol digiuno colle grazie sue
ed ella a desinar mangiò per due.
Se cibo degli amanti è la speranza,
o Artimisia vezzosa amor non sente
o dall’amante suo non spera niente.
Ve lo manda Artimisia in questo loco.
Me lo manda Artimisia? Ah non è poco.
Simili grazie non ricuso mai.
Lo zucchero per me fa bene al petto.
Questo dolce siroppo or via pigliate.
questo caffè di zucchero ripieno.
(State zitta; ridete e non partite).
per cagione del merto a voi sovrasta.
Ho scoperto l’arcano e tanto basta.
L’amor, la stima che ho per voi nel petto
tutti accese d’invidia e di dispetto.
tutto quel che mangiate e che bevete.
Basta che non mangiate e non bevete.
Mangiare o non mangiar per me è tutt’uno.
Morirò avvelenato o ver digiuno.
senza licenza mia non partirete.
Deh lasciate ch’io parta.
ch’io son venuto qui. Muoio di fame,
e poi vogliono ancora avvelenarmi?
ma ammazzatelo presto in carità.
più non potevo trattener le risa.
soffre per cagion vostra un bel tormento.
Questo è l’unico mio divertimento.
se non cangiate in suo favor pensiero,
fra il digiuno e il timor morrà da vero.
bastami di goder la bella scena;
procurerò disingannarlo a cena.
si dicesse, perciò, quel che sì spesso
gli uomini soglion dir del nostro sesso.
dir: «Le donne son furbe e menzognere».
Le vorrei qual io son tutte sincere.
Cara cugina mia, ti credo poco.
che non paiono in viso punto scaltre,
son accorte, son furbe più dell’altre.
Ecco Celindo; poverino, ei pena
ma non mi basta ancor. Mi piace il gioco.
Voglio tirarlo innanzi ancora un poco.
del mio amor, di mia fé, che vostra io sono.
Artimisia gentil, codesto amore.
ad Erminia donai, voi lo sapete.
Sperar l’affetto vostro a me non lice.
Penar senza speranza mi conviene.
Altri avranno i contenti ed io le pene.
Erminia abbandonar). (Da sé)
fede, sincerità, costanza, amore;
che le grazie più belle in sé raduna,
merito non ci vuol, ci vuol fortuna.
(Or viene il buono). (Da sé)
ma una vedova alfin non è per voi.
io non sono per voi. Se la mia mano
fosse stata, crudele, a voi gradita
non avereste Erminia preferita.
Senza frutto il mio cuor si strugge in pianto.
si disfan le mie carni a poco a poco.
e fresca e grassa e ritondetta siete.
Ah, crudele, il mio mal voi ben vedete.
che pietade mostriate e poi si mora.
Se della mia pietà... dell’amor mio...
il merlotto a cader). (Da sé)
nel sen potete regolar gli affetti...
Non state a replicar. La mano a me.
ma perché nell’amor tradir non soglio,
portatela ad Erminia, io non la voglio.
Ognun badi, Celindo, a’ fatti suoi.
che vi cruci per me d’amore il foco.
Lo potrei anche dir così per gioco.
Con chi merto non ha far lo potete.
(Ecco qui mia nipote). (Da sé)
non vi burlo, non fingo e non v’inganno.
(Anche alla nipotina un po’ d’affanno).
(Oh cieli! Io non l’avea veduta). (Da sé)
della fede giurata all’amor mio;
sono del vostro amor pentita anch’io.
Voi parlate per me. (Ad Artimisia)
(Perfido mi disprezza?) (Da sé)
senza farmi arrossir, senza oltraggiarmi).
di vendetta lo sfogo ed il pretesto). (Da sé)
Quanto t’amai, ti aborrirò.
Un flemmatico ciglio a voi non piace;
Artimisia è per voi, ch’è scaltra e audace.
l’un per l’altro non fece il nostro cuore.
Io son misera, è ver, voi traditore.
Artimisia, egli è ver, fuor di me stesso
mi guida a delirar. Pietà mi desta;
qualche bella speranza ed a ragione
mi rimprovera Erminia. Ella peraltro
mi potrebbe obbligar, non coi disprezzi.
perché sono sgarbato è oltraggio tale
che converte in isdegno anche l’affetto.
Artimisia non sente e non mi vede.
per uom di spirto la malinconia.
vuo’ cantar, vuo’ ballar, vuo’ far per gioco
giacché solo son io, di tutto un poco.
ch’è impazzito davvero. Presto, presto
il medico, il cerusico cercate,
conduceteli qui, non ritardate). (Piano a don Ramerino e Rosalba senza che il cavaliere s’avveda)
(Mi fa pietà il meschino). (Da sé)
cangiar stile conviene). Ah mia signora.
Per pietà consolate un che v’adora.
è l’effetto più ver della pazzia).
Rispondetemi almeno o sì o no;
ah se voi mi schernite, io morirò.
(Parla bene finor). (Piano ad Artimisia)
Dir di voler morir senza un perché
son parole da pazzo e pazzo egli è).
Voi negate al mio mal pietà e conforto?
Così voi mi trattate? Oimè son morto.
(Presto, il medico, presto, ed il cerusico).
Par un che persi abbia i denari al gioco).
(È pazzo per amor; se fossi in lei
da sì fatta pazzia lo guarirei). (Parte)
Non vi conosco. E voi mi conoscete?
Artimisia il mio nume, il mio tesoro?
La contessa son io di Montebello.
Voi avete, meschin, perso il cervello.
voi cangiaste pensiero, in grazia mia.
Voi scherzate con me per allegria.
e far meco il grazioso pretendete.
per disgrazia impazzito!) (Da sé)
se lo crede egli stesso).
(Impazzito sarò per troppo affetto).
che mi vuol tormentare, è una vezzosa
Artimisia, il mio ben... voi siete quella.
Vi conosco, lo so, pazzo non sono.
voi fate del mio cuor scherno e strapazzo,
vi conosco Artimisia; io non son pazzo.
visiti l’ammalato per favore).
prepari il moccolino e la lancetta).
(Questa scena per mille io non darei). (Il medico e il cerusico s’accostano al cavaliere)
Che vogliono da me, signori miei?
Il polso? Andate via, non son malato. (Il medico gli vuol tastare il polso)
Sangue? Signor cirusico sguaiato,
signor dottor, che impertinenza è questa?
Vi do or or qualche cosa in su la testa. (Il cirusico colla lancetta accenna dovergli cavar sangue)
Signor dottor, signor chirurgo, presto
quattro libbre di sangue dal cervello. (Il medico ed il chirurgo si vanno accostando per fermarlo e così gli altri ancora mentre egli dice l’aria seguente)
Dica, signor Celindo, mio padrone,
sovra il cuor d’Artimisia ha pretensione?
uno di quei che vogliono onorarmi.
provida non avea pietà di me,
mi davano il veleno nel caffè.
Duolmi di ciò ma più mi duole ancora
non arrivano, amico, a questo segno.
cibo assaggiar per tema del veleno.
pazzo non ho veduto a lui simile.
erano per curarlo preparati,
egli pien di furor li ha minacciati.
ma il mio caso del suo più strano i’ veggio
e se mi vonno avvelenar sto peggio.
e furiosa è talor la sua pazzia.
e dir sempre di sì dinanzi a lui.
Ma di lui più infelice è don Pachione.
non sente il male e non conosce il bene.
Di fame io muoio e digiunar conviene.
Avvertite che s’ha da secondare;
e perché non ci nascano de’ guai
dinnanzi a lui non s’ha da rider mai.
Del mal d’altri non rido, io ve l’accerto.
se non ridono affé, mi pare assai). (Da sé)
La contessa sarà di Montebello.
(Non vel dissi che è pazzo il poverello).
se ridete s’infuria e poi vi uccide).
Oh che pazzia! (Tutti tre ridendo)
Secondatelo tutti e non ridete).
Venite qui, nipote garbatissima,
vi voglio consolare; anzi vi voglio
recato ho al vostro cuor qualche tormento.
e par che la campagna ci permetta
di far, per allegria, qualche scenetta.
v’ama, v’adora ed è fedele a voi.
un po’ di tentazion gli ho posta in mente
ma l’ho fatto per burla e non è niente.
Voi faceste da scherzo, egli davvero.
ogni trista memoria ormai si taccia,
mi ha schernito, mi ha offeso e mi tradì.
Dite a Celindo che l’aspetto qui. (Al paggio che parte)
parlate al meschinel che vi vuol bene.
Serbar odio per questo non conviene.
Un affronto non soffro in casa mia.
(Vuo’ che faccian la pace a lor dispetto).
la maschera mi levo e parlo chiaro.
Finsi amare con voi sol per far prova
debol tanto trovarvi e tanto ingrato.
merito sdegno e non domando amore.
reo della colpa mia non son poi tanto.
ei da sé stesso mancator s’accusa
e nel merito mio trova la scusa.
chi mi apprezza e mi stima a questo segno.
Se vi fanno pietà gli affetti suoi
consolatelo voi. (Ad Artimisia)
Se lo dite davvero io lo farò.
Nipotina gentil siete contenta?
lo confesso purtroppo a mio rossore;
voi da questo mio sen strappate il cuore.
la passione che ancor v’arde di drento.
Ecco, Celindo è vostro e non è mio.
Aggiustatevi voi; signori, addio. (Parte)
m’avete ingrato, audacemente altero?
ridere a spese nostre, io l’ho saputo.
Per pietà divenuto è traditore?
Alfin si placherà, placato io sono.
Ogn’onta le perdono... Ma qual onta?
Artimisia l’ha detto ed ha scherzato.
che di tutto si può prendersi gioco.
Ma Artimisia, per dirla, eccede un poco.
Allegri, che stassera io mangerò.
No, Artimisia mel dice e m’assicura.
vi sia stato per voi cotal periglio,
scherza Artimisia e noi pone in scompiglio.
stassera mangerò; questo mi basta.
Se giunger posso a lavorar coi denti
i perigli mi scordo ed i tormenti.
s’imbandisce la mensa e manca poco
Artimisia da me voluto ha un patto.
contenta di ciascun vuol la passione.
Obbedirla anche in ciò da me si deve
ma farò una partita breve breve.
Voi amate Artimisia e non sapete
Non credo che lo sia ma se tal fosse
che Artimisia di tutto è la cagione.
Venite qui, spicciamoci una volta.
Son pronto a sodisfar le vostre brame;
giochiam pure, ma presto, perché ho fame.
e carte e segni e più d’un candeliere.
Un filippo per un, per me direi
chi prima arriva alle partite sei.
D’un filippo si giochi una partita.
Non venite signor? La cena è lesta.
non dovete mangiar se non giocate.
Artimisia crudele, io giocherò.
Io non ho fretta. (Siede)
Giochiam questo filippo alla bassetta.
Precipitoso non son io nel gioco.
Il danaro lo perdo a poco a poco.
Lei mi fa troppo onore; s’ha da alzare
e alla sorte veder chi tocca a fare.
Che seccatura; andiamo. Tocca a me.
reca quando si perde un po’ di pena,
fate così, giocatevi la cena.
Misero me se la perdessi. Presto
ho scartato, signor, son bell’e lesto.
Vostro danno... Ma no, non vi fo torto,
Ed io l’ho preso. (S’alza)
Ecco il filippo; andiam; son contentissimo.
Un punto a faraone. (Fa il taglio)
Voi mi volete far diventar matto.
mangio con più piacer, con più appetito.
veder gli altri contenti è il mio gran spasso,
quando godono gli altri anch’io m’ingrasso.
son un che gioca sempre e sempre perde
e son, Rosalba mia, ridotto al verde.
e conosca e ragioni e parli bene
e non sappia poi far quel che conviene.
Compatibili sono i ciechi nati,
che colle proprie man si cavan gli occhi.
La contessa non son di Montebello.
vi cambiate di cuore e di pensiero
o divenuto i’ son pazzo davvero.
questa vostra pazzia, guarirla io voglio.
Preso ho l’impegno che sarete sano
e quando parlo non favello invano.
Non ha la testa mia perduto il sale.
Del rimedio si parli e non del male.
I pazzi io li guarisco facilmente.
Del matrimonio vi dispiacerebbe
È questa un’altra cosa che mi piace.
Ecco il rimedio vostro. In questa sera
musica vi sarà, vi sarà il ballo.
Voi, che avete buon gusto e buona testa,
sarete il direttore della festa.
Porgendovi di sposa alfin la mano,
tornerete del tutto allegro e sano.
il core giubbilar per l’allegrezza.
guarirebbero i pazzi da catene.
Io sono il cavalier, son Roccaforte.
Vostro sposo son io, voi mia consorte.
voglio da voi per accordarvi il resto.
Qual è il patto, mia cara?
confessiate che deste in frenesia.
Voglio che dite d’essere impazzito
e che la mia virtù v’abbia guarito.
accordar che impazziste e dirlo a tutti.
Altrimenti vi lascio e me ne vo.
Il povero Pacchione aspetta e pena.
d’esser stato impazzito...
quel ch’io voglio direte?
la zuppa si raffredda e l’ora è tarda
e la fame vie più divien gagliarda.
A tavola ciascun prenda il suo posto. (Agli altri compagni)
Scusate, amici, ecco la parca cena
Andiamo, via, che siate benedetta.
tornata è nel cervello la ragione
del mal della pazzia, ch’egli ha provato,
e del rimedio che l’ha risanato.
Signora son due ore che aspettiamo.
più voi medesmo né gli amici vostri.
d’essere diventato una gran bestia.
Or chi vi risanò dite, vi prego.
signori miei, mi fe’ ritornar sano.
Anch’io con tal pozion risanerei.
coraggio vi darà l’esempio mio.
ad Erminia di madre in luogo io sono.
Fatelo e cento doppie anch’io vi dono.
Le cento doppie. (Ad Artimisia)
ora si mangerà. Tutti contenti
voglio che siate alfin. Celindo, Erminia,
goderanne il piacer de’ loro ardori.
risanato da me dalla pazzia.
Don Ramerin col gioco è soddisfatto.
Mangerà don Pacchion qualche buon piatto.
gli altri allegri veder, si rasserena.
Siamo tutti contenti. Andiamo a cena.