Poco vi vuole a far che incivilisca
donna nata fra boschi. Il sesso nostro
ha un certo natural costume antico
che della vanità fu sempre amico.
cambiasse condizion. Tante e poi tante,
ch’erano feminuccie da dozzina,
s’hanno ingrandito coll’altrui rovina.
Tutto il suo consumò per mia cagione
il semplice Cardone; anzi non solo
ma s’ingegnò di consumar gli altrui.
processato dal foro, e ch’è ridotto
sarei ben pazza a coltivarlo ancora.
or che non ha danar, non è più quello.
Vuo’ ritirarmi; seguimi, Mengone,
non dubitar, non vi sarà divario;
se non Cardone, io ti darò il salario. (Si ritira)
graziosa sì ma troppo vana e pazza.
Chi mi conoscerebbe? Oh voglia il cielo
che, se mi scopre la giustizia, io sono
per lo meno appiccato. Almen crepasse
quell’avido mio zio che inutilmente
un tesoro conserva! Ah ch’io fra tanto
perdo il tempo qui invano e i sbirri, oh dio!
van me forse cercando. E dove mai,
misero me! se non ho un soldo adosso?
Olà, paggio, vien qui, prendi, codesta
vanne dal pasticcier; di’ che mi mande
viene a pranzo con me la contessina.
due zecchini ti do, perché tu compri
di Borgogna e Toccai qualche bottiglia
e il resto cioccolata con vainiglia.
(Ed io muoio di fame). Olà, Mingone,
ferma; non mi conosci? Io son Cardone.
Stelle, che vedo mai? Così pezzente,
così sporco Cardone? Agli occhi miei
quello tu non rassembri e quel non sei.
Ah, purtroppo son quello. Ah tu, Livietta,
deh non mi abbandonar! Vedi in qual stato
Chi gli abiti, le gioie e chi il danaro,
ch’ora spendi, ti diè? Stelle! Che sento!
Io ti trassi dal nulla e tu nel nulla
mi riducesti; oh memorando eccesso!
Oh barbara natura! Oh ingrato sesso!
del precipizio tuo, se non tu stesso?
Fu la tua vanità, la tua superbia
grande più che non eri e dovizioso
ti faceva far meco il generoso.
se volesti così, non far schiamazzo,
io savia fui e tu facesti il pazzo.
Hai ragione, egli è vero, il pazzo io fui;
amanti delle donne adoratori,
questi son alla fine i nostri onori.
il povero Cardon non è lo stesso.
È ver, l’indovinasti. Io voglio
mantenermi un braccier e sei staffieri,
due donne, otto cavalli e due cocchieri.
Vo’ pizzetti, vuo’ stoffe e vuo’ ricami,
e il paggio che mi regga ancor la coda.
Lodo la tua intenzion ma non la credo
(Ecco purtroppo il feminil costume,
l’ambizion delle donne è il solo nume).
io penso a’ fatti miei, tu pensa a’ tuoi.
Mingon parla per me. (A Mingone)
che t’ho fatto, ben mio? Cara Livietta,
io ti fui più fedel di Marcantonio
ma dillo tu, faccia di testimonio. (A Mingone)
Ma questo pianto tuo quasi mi move
Morto mi vuoi veder? Morrò, già vado,
da me stesso in le man; io le mie colpe
pubblicarò; dirò che per Livietta
indi quello degli altri ancor rubbai.
Oh non ti avessi conosciuta mai!
E pur è ver. Sono gli umani eventi
per comprenderne il filo ha il cervel corto.
Chi l’avrebbe mai detto? Io fingo il pazzo
per sottrarmi così dalla giustizia
spaventato mio zio, sordido, avaro,
se n’è crepato e mi lasciò il denaro.
pagherò i creditori e la giustizia
quando s’abbia la parte accommodata.
(Oh stelle! Ecco Cardone; ei per la morte
del ricchissimo zio, ricco è tornato.
Sarà meco sdegnato. E perché mai
Tornando a lusingar sarà mio impegno,
se tanto vale un femminile ingegno).
(Livietta qui? Vo’ seguitar il pazzo;
della crudel mi voglio vendicare).
e pria di penetrar in queste soglie,
dimmi se sei donzella o se sei moglie.
Sei donzella o sei moglie? (Irato)
tutto donar si può. Senti.
Sarò tuo cavaglier, tu la mia dama.
È un’altra cosa che finisce in one.
non si ponno veder uniti a un tratto,
perché bestiaccie son contrarie affatto.
(È pazzo o tal si finge?)
una cosa da fare e se la fai
Vuo’ che vada lassù, dove risplende
e che mi sappia dir s’abbia gran fondo
e se nel centro suo v’è un altro mondo.
(Oh poverina me, ch’egli è impazzito).
Povero mio Cardone, anima mia,
che vuol dir tal disgrazia? Ah che ne fui
non mi conosci più, pover Cardone!
vo’ che vada nel regno di Plutone,
m’opprime, mi sorprende, io non resisto,
io mi sento morir. Certo il meschino
per amore è impazzito. Io, donna ingrata,
io ne fui la cagion. Di già m’aspetto
un fulmine dal ciel che mi sprofondi.
Più rimedio non v’è. S’egli tornasse...
Ah che il cervel non torna. Oh me infelice!
Oh dio! Non posso più; già manco, io moro.
Divento molle o mi mantengo tosto?
È vero da una parte ma dall’altra
potria farla morir. Che tentazione!
Ora non occor altro. L’ho pensata,
vo’ accostarmi pian piano e se la vedo
ritorno a far il pazzo e non la credo.
Livietta mia, bellissima Livietta,
o sbrigati a morire o sorgi e vivi. (Livietta fa de’ moti)
l’ultimo suo sospiro. Se n’è andata.
Non v’è più dubbio; ha fatta la frittata.
Oh povera Livietta! Io ti volevo
pur il gran ben! Benché mi fosti ingrata,
io non fui meno amante. Or che la sorte
mi tornò a favorir, teco averei
tutti divisi li tesori miei. (Livietta si muove)
Zitto, che non è morta. Avessi almeno
per farla rinvenir. Sentito ho a dire
Prendi Livietta, sì, prendi cor mio,
ristoro da quest’oro e vivi...
Io mi credea nel regno di Plutone.
Che mai fu che ti oppresse?
di vederti... Ma dimmi, hai tu perduto
per fuggire il rigor della giustizia.
e s’ero del tuo amor più meritevole.
quasi fatta morir, la penitenza
e ogn’ingiuria passata io ti perdono.
Cento doppie? Son poche, io vuo’ donarti
così bello tu sei, così t’adoro.
Tu sarai la mia pace, il mio tesoro.
nell’amor tuo, nella tua fé?
il strapazzo, le ingiurie...
che fingendo così teco burlai?
vuoi vedermi morir? Già vado...
fammi di diecimila scudi.
questa somma prontissimo a donarti.
Egualmente son io pronta a sposarti.
sarai cortese e generoso meco?