La cascina, Venezia, Geremia, 1756

Vignetta Frontespizio
 SCENA VI
 
 Camera nobile nel palazzo di Lavinia.
 
 LAVINIA ed il conte RIPOLI
 
 Lavinia
 
    Troppo onor.
 
 il Conte
 
                              È mio dovere.
 
 Lavinia
 
 Grazie a lei.
 
 il Conte
 
                         Son cavaliere;
200colle dame so trattar.
 
 Lavinia
 
    Obbligata, mio signor.
 
 il Conte
 
 Mi potete comandar.
 
 Lavinia
 Son tenuta davvero
 alla di lei bontà,
205che m’ha voluto accompagnar fin qua.
 il Conte
 Vi servirei, madama,
 con vostra permissione,
 negli antipodi ancora e nel Giappone.
 Lavinia
 Obbligata, signor.
 il Conte
                                    Fo il mio dovere.
 Lavinia
210Ella è troppo gentil.
 il Conte
                                       Son cavaliere.
 Lavinia
 Finezza è ch’io non merto
 l’onor che mi comparte
 di venire a graziarmi in questa parte.
 il Conte
 Senza di voi, madama,
215era la città nostra
 senza sol, senza luna e senza stelle.
 Le vostre luci belle
 son venute a illustrare il bosco, il prato
 ed io qual girasol vi ho seguitato.
 Lavinia
220Queste, qualunque sieno,
 povere luci mie tutta han perduta
 la primiera possanza
 per il mesto pallor di vedovanza.
 il Conte
 Ah peccato peccato!
225Viva il nume bendato.
 Mio l’impegno sarà, se nol sdegnate,
 di ravvivar quelle pupille amate.
 Lavinia
 Ah come mai?
 il Conte
                              Come dal fosco cielo
 suol le nubi scacciar Febo ridente,
230sparirà immantinente
 il pallido pallore
 che vi copre il bel viso e ingombra il cuore,
 se qual vite feconda e fecondata
 voi sarete a quest’olmo avvitichiata.
 Lavinia
235Se diceste davver.
 il Conte
                                    Giuro, mia bella,
 giuro ai dei tutelari
 della mia nobiltà,
 di sì bella beltà sono invaghito;
 sarò qual mi vorrai... servo e marito.
 Lavinia
240Accetto per finezza
 d’un cavalier sì degno
 l’amor, la grazia ed il più forte impegno.
 il Conte
 Giove, tu che pressiedi
 all’opere più conte, Amor, che accendi
245fiamme nel nostro petto,
 Venere, che sei madre del diletto,
 e voi pianeti e voi minute stelle,
 onor del firmamento,
 fate applauso di luce al mio contento.
 Lavinia
250Bella madre d’Amor,
 Venere, anch’io t’invoco
 pronuba generosa al nostro foco.
 Resti l’amante amato
 meco vicino in quest’albergo fido
255qual Enea ricovrato alla sua Dido.
 il Conte
 Non vi darò, mia bella,
 l’ingrato guiderdone
 ch’Enea diede a Didone.
 Non vuo’ che il mondo veda
260che a un amante rival vi lasci in preda.
 Ah, se voi foste Dido,
 s’io fossi Enea, se Iarba fosse qui,
 a quel moro crudel direi così:
 
    «Vieni superbo re,
265l’avrai da far con me».
 (Non dubitar mia vita,
 ch’io ti difenderò). (A Lavinia)
 «Vibra la spada ardita,
 ch’io mi riparerò».
 
270   Vuol atterrar Cartagine,
 la vuol ridur in cenere,
 sento le fiamme stridere,
 odo le genti gemere.
 (Non ti abbandonerò). (A Lavinia)
 
275   «Va’ tra le selve ircane,
 barbaro, mostro, cane;
 no, che timor non ho». (Parte)