De gustibus non est disputandum, Venezia, Fenzo, 1754

Vignetta Frontespizio
 SCENA IX
 
 CELINDO, poi don RAMERINO
 
 Celindo
 Qual da fulmine colto
355pastor ch’esser non sa morto o ferito,
 gli accenti del mio ben m’hanno stordito.
 Ma d’Artimisia il labbro
 quai detti pronunciò? Mi ama ella dunque,
 ella aspira al mio foco e la nipote
360non ha rossor di rendere infelice?
 E sugli occhi di lei lo svela e dice?
 don Ramerino
 Amico, non conviene
 l’ore all’ozio donar. Di chi ci onora
 le finezze gradir si mostra poco.
 Celindo
365Che volete da me?
 don Ramerino
                                     V’invito al gioco.
 Celindo
 Deh lasciatemi in pace.
 Ramerino
                                             Io non pretendo
 insidiarvi la borsa. Una partita
 sol per divertimento
 fino all’ora di pranzo.
 Celindo
                                          (Oh che tormento!)
 Ramerino
370Scegliete il gioco voi.
 Celindo
                                         Ma se vi dico...
 Ramerino
 Del tresette scoperto io sono amico.
 Vi darò quattro punti...
 Celindo
                                             Ora non posso.
 Ramerino
 Che vi turba Celindo? Ah convien dire,
 se ricusate il bel piacer del gioco,
375che vi opprima il cordoglio e non sia poco.
 Celindo
 Sì l’affanno mi opprime. Erminia, oh dio!
 dubita che di fede
 a mancarle cominci e non mi crede.
 Ramerino
 Compatisco il martir che vi dà pena.
380Ma per distrarre appunto
 da sì tristo pensiere
 la mente sbigottita,
 meco fare dovreste una partita.
 Celindo
 Deh per pietà...
 Ramerino
                                Credetemi che il gioco
385tutt’altro fa scordar. Quando seduto
 io sono al tavolier, mi scordo a un tratto
 degli affar, degli amici e de’ parenti;
 e quel ch’è meglio ancora
 tutti i debiti miei mi scordo allora.
 Celindo
390Per me tutto fia vano;
 non ritrovo piacer, pace non trovo
 se dell’idolo mio lo sdegno io provo.
 Non l’inutile gioco,
 non le feste, i teatri, il ballo, il canto
395mi potrian consolar, s’io vivo in pianto.
 
    Misero, senza il dolce
 conforto di speranza,
 misero sol m’avvanza
 l’affanno ed il dolor.
 
400   Perde la face il lume,
 se priva è d’alimento,
 come la face al vento
 langue nel seno il cor. (Parte)