Statira, Venezia, Rossetti, 1741

Vignetta Frontespizio
 ATTO PRIMO
 
 SCENA PRIMA
 
 Attrio regio.
 
 STATIRA ed ARTABANO
 
 Statira
 Basta, basta, Artabano, io de’ consigli
 d’uopo non ho per divenir seguace
 d’un desio che mi sprona; oppressa e vinta
 da una passion che invano
5debellar faticai, più non mi porge
 la smarrita virtù l’antico freno.
 È inutile al mio seno,
 acceso già di quest’amor rubello,
 quel che aggiugner procuri ardor novello.
 Artabano
10Dunque che tardi all’adorato Arbace
 il tuo foco a svelar?
 Statira
                                      Questo è quel passo
 a cui giugner non so.
 Artabano
                                         Regina, imponi,
 la mia fede ti è nota.
 Statira
                                        Ah sì, Artabano,
 vanne incontro ad Arbace, egli a momenti
15vincitor de’ nemici
 giugnerà nella reggia. A lui tu stesso
 che Statira l’adora
 svela... Ma no, non vuo’ scoprirmi ancora.
 Artabano
 Perdonami, cotesta repugnanza
20segno è di poco amor.
 Statira
                                          E pur dovresti
 compatir il mio stato. Amar Arbace
 è un delitto per me; sposo a Rosane
 pria ch’ei cedesse al fato
 Dario lo destinò. Pronuba elesse
25me di tal imeneo. Tradir Rosane
 l’onor mio non consente. Amar il prence
 mi sollecita il cor. Confusa, incerta
 fra il dovere e l’amor mi struggo e sfaccio;
 son rea, se parlo, e morirò, s’io taccio.
 Artabano
30Quello del proprio cuor parmi il maggiore
 de’ stimoli, o regina. È facil troppo
 l’esiggere pietà dal mondo tutto
 ai deliri d’amor. Crescer potrebbe
 sino alla morte il tuo dolor. Alfine
35sei regina e dipende
 dal tuo cenno Rosane. Arbace forse
 non disaprova nel suo cuore il cambio;
 Persepoli ti adora. Il popol tutto
 compiacerti desia.
40(Se d’Arbace è costei, Rosane è mia). (Da sé)
 
    Ah non lasciar sedurti
 da troppo vil rispetto;
 le leggi dell’affetto
 ti basti d’osservar.
 
45   Quel che si dice amore
 è instinto di natura
 che il proprio ben procura
 sollecito trovar.
 
 SCENA II
 
 STATIRA, poi ROSANE
 
 Statira
 Ah purtroppo gl’è ver; d’amor la fiamma
50d’uopo non ha perché si desti in seno
 dell’umano voler, nasce con noi
 questo protervo seme
 de’ funesti deliri. In me destossi
 all’incontro fatal de’ vivi lumi
55dell’adorato Arbace
 ma nacque al nascer mio cotesta face.
 Freno l’onor v’impose
 finché visse il mio sposo; or ch’egli è estinto
 freno il cor più non soffre; amore ha vinto.
 Rosane
60Regina, in questo punto
 giunse Arbace alla reggia.
 Statira
                                                 E il caro sposo
 non incontra Rosane?
 Rosane
                                          A me vederlo
 lungi dal fianco tuo so che non lice;
 quivi, se mel concedi,
65l’incontrerò. Vedi che giugne.
 Statira
                                                        (Oh dei!
 Più vago agl’occhi miei ritorna Arbace). (Da sé)
 Rosane
 (Più ch’io miro quel volto, ei men mi piace). (Da sé)
 
 SCENA III
 
 ARBACE e dette
 
 Arbace
 A’ piedi tuoi, regina,
 un tuo fido vassallo ecco s’inchina.
 Statira
70Principe, sorgi ed i trionfi tuoi
 da me accolgan primiera
 parte di que’ tributi
 che son dal regno al tuo valor dovuti.
 (Mi perdo, oh dio! se più lo miro). (Da sé)
 Arbace
                                                                  Alfine
75vinti son gl’Abelliti,
 quei che ribelli arditi
 gionsero a provocar... Ma qui Rosane?
 Perdonami, se prima
 a te non volsi inavertito il guardo.
 Rosane
80Generoso favor non è mai tardo.
 Arbace
 Regina, il dì s’appressa
 destinato alle nozze; io non vorrei
 dal labbro di Rosane
 il rimprovero udir di tardo amante.
85Si sa che d’un instante
 un secolo formar suol chi ben ama.
 Statira
 Un saggio cor sa moderar la brama.
 Non è, non è qual credi
 Rosane impaziente
90del felice imeneo.
 Arbace
                                   Forzata forse
 a me porge la destra? Odi, Rosane,
 non m’ingannar, non ingannarti. Il padre
 a me ti destinò; contento io venni
 il nodo a stabilir. Ma se ripugna
95il tuo voler, non soffrirò che venghi
 strascinata all’altar.
 Rosane
                                      Un cor di figlia
 coll’obbedienza il suo voler consiglia.
 Arbace
 Ma lice anco talvolta
 con amor consigliarsi.
 Rosane
                                           Ignoto ancora
100è al mio cuor questo nume.
 Arbace
                                                    Oh rara al mondo
 amabile inocenza! Oh quanto accresci
 di pregio alla beltà!
 Statira
                                      (Quanto, Rosane,
 quanto invidio il tuo stato!)
 Arbace
                                                     Odi; poss’io (A Rosane)
 sperar pietà, se non conosci amore?
 Rosane
105Non son crudele; il core
 ho di pietà capace;
 forse un giorno amerò (ma non Arbace). (Da sé)
 
    Non ho perduta ancora
 del proprio cor la pace
110e troppo ancor mi piace
 la cara libertà.
 
    Un ciglio che inamora
 so che temer dovrei;
 (ma quello tu non sei
115che vincermi saprà). (Da sé)
 
 SCENA IV
 
 STATIRA, ARBACE
 
 Statira
 Principe, inver tu merti
 più fortuna in amor.
 Arbace
                                        Non son del tutto
 sventurato però.
 Statira
                                 Se la fredezza
 di Rosane appagar puote il tuo foco,
120perdonami, signore, ami ben poco.
 Ma che amar in Rosane,
 ma che puoi vagheggiar? Di donna i lumi
 vaghi non son, se dell’interno ardore
 non ostentan la fiamma; invan si loda
125bel labbro che non sappia
 il dolce nome proferir d’amore;
 invan si apprezza un core
 che non senta d’amor la viva face.
 E Rosane ti piace?
130E l’adori e la brami?
 Dimmi almen la cagion per cui tu l’ami.
 Arbace
 L’amo qual si conviene
 allo sposo la sposa e l’amo quanto
 il grado di Rosane
135esigge dal mio cor. Però sì poco
 parlai seco d’amor, finor sì poco
 vagheggiai quel sembiante
 ch’io non sono di lei perduto amante.
 Statira
 Dunque il tuo cor potrebbe
140fiamma sì poco accesa
 facilmente ammorzar.
 Arbace
                                           No, se alimento
 il foco di Rosane a lei prestasse.
 Statira
 E se questo mancasse
 alla tua fedeltà stimolo eletto?
 Arbace
145Mancherebbe anch’in me forse l’affetto.
 Statira
 Interprete e custode
 del reale voler di Dario estinto,
 principe, io son. Non è voler di Dario
 che una figlia e un nipote
150siano sagrificati
 a forzato imeneo. Tutto sospendo
 e libertade ai vostri cori io rendo.
 
    In libertà ritornino
 i primi affetti tuoi;
155ed ama allora poi
 chi ti consiglia il cor.
 
    Beltà cotanto semplice
 non sa recar diletto;
 non merita il tuo affetto
160chi non conosce amor.
 
 SCENA V
 
 ARBACE solo
 
 Arbace
 Tal favella Statira? Ella a cui spetta
 dell’estinto signor la data legge
 far ossequir; non son senza mistero
 di Statira gl’accenti. A lei ben noto
165sarà il cor di Rosane e d’altro foco
 prevenuto il saprà. Pietà la move
 del mio cuore a parlar. Tanto mi basta;
 comprendo il mio destin. Misero Arbace,
 a qual sventura mai
170ciecamente m’esposi? Assai di morte
 vita è peggior quella che sposo odiato
 soffre languendo a ingrata sposa allato.
 Lieto da lungi or miro
 quel funesto periglio,
175da cui sol per consiglio
 di celeste pietà sottratto io fui,
 e mi riduco a deplorar l’altrui.
 
    Oh come lieto mira
 quel passaggier dal lido
180l’onde del mare infido
 irate minacciar.
 
    Si ride di quell’ira
 ad altri sì funesta,
 quand’egli la tempesta
185ariva a superar.
 
 SCENA VI
 
 Giardino nella reggia.
 
 LEARCO e ROSANE
 
 Learco
 Rosane, addio.
 Rosane
                              Dove, Learco, dove
 mesto così?
 Learco
                         Vado a morire altrove.
 Rosane
 A morire! Perché?
 Learco
                                     Perché non soffre
 il cor di te geloso
190rimirarti vicina ad altro sposo.
 Rosane
 Ma non lo sono ancor.
 Learco
                                          Pochi momenti
 restano, ingrata, a stabilir il nodo.
 D’intorno altro non odo
 che repplicar i nomi
195di Rosane e di Arbace;
 e vuoi ch’io soffra in pace
 un tormento sì rio?
 No, soffrirlo non so; Rosane, addio.
 Rosane
 Fermati; io tel comando
200con quell’autorità che sul tuo cuore
 mi concedesti.
 Learco
                              Oh dio!
 Mi conviene obbedir. Ma poi, se resto,
 che sperar potrò mai?
 Rosane
                                           Della speranza
 arbitro è ognun.
 Learco
                                 Ma se d’Arbace al nodo
205acconsente il tuo cor quale lusinga
 può rimanermi allora?
 Rosane
 Sposa d’Arbace io non divenni ancora.
 Learco
 Ah dimmi che non sdegni
 la mia fé, l’amor mio,
210che Learco anteponi ad uno sposo
 dal genitor, non dal tuo core eletto.
 Dimmi che il puro affetto
 t’accese alfin, con cui finor t’amai.
 E allora mi vedrai
215tutto soffrir, tutto sperar. Col sangue
 ricuperar m’impegno
 la tua tradita libertà. Coraggio
 non mi manca, Rosane; ardisci, imponi;
 tutto saprò tentar; tutto, mia vita,
220farò per te, pur che un tuo sguardo solo
 del tuo amor m’assicuri. Ah tu non parli?
 Ma che creder poss’io?
 Ma che sperare? Oh dio!
 Son sinceri i tuoi detti o son mendaci?
 Rosane
225Credi pur ciò che vuoi; ma resta e taci.
 Learco
 
    Vuoi ch’io resti? Io resterò.
 Vuoi ch’io taccia? Io tacerò.
 Ma tacendo morirò.
 Ma restando troppo, oh dio!
230il duol mio si accrescerà.
 
    Un eccesso di dolore
 pria dagl’occhi e poi dal core
 tutto il sangue mi trarrà.
 
 SCENA VII
 
 ROSANE, poi STATIRA
 
 Rosane
 Infelice Learco, io di te meno
235tormentata non son. T’amo, t’adoro
 ma il dover, ma il decoro
 mi costringe a soffrire,
 a penare e tacere e poi morire.
 Odio il volto di Arbace,
240sol Learco mi piace e pur io deggio,
 poiché la gloria mia serbar io bramo,
 strigner chi abborro e abbandonar chi amo.
 Statira
 Rosane, io di te prima
 nacqui alla luce e di te prima amai.
245Perciò comprendo assai
 più di quel che tu vedi
 e conosco il tuo cor più che non credi.
 Rosane
 Che vuoi dirmi perciò?
 Statira
                                             Che te d’Arbace
 non alletta il sembiante
250e che serbi nel sen segreto amante.
 Rosane
 Stelle! (Da sé)
 Statira
                Non ti smarir. Tutto confida
 a Statira il tuo cor. T’amo qual figlia,
 compatisco il tuo stato; e quella legge
 che del nostro voler si fa tiranna
255abborrisco e detesto. Io son la prima
 a renderti ragione; è vero, Arbace
 non è per te; principe avvezzo all’armi
 d’inesperta donzella
 mal compagno saria. Scelta avrai forse
260qualche beltà novella
 che gl’affetti primieri
 abbia tutti donati al sol tuo core;
 felice te! Questo può dirsi amore.
 Rosane
 No, regina, non serbo
265il cor sì poco dell’onor geloso
 che scegliere lo sposo
 col consiglio vogl’io del proprio affetto;
 quel ch’il padre mi scelse io quello accetto.
 Statira
 Lodo la tua virtù ma, estinto il padre,
270rimani in libertà. Se mai Learco,
 ch’io testé vidi sospirando e solo
 dal tuo fianco partir, se mai foss’egli
 la tua fiamma, Rosane, amalo; è degno
 il prence del tuo amor. T’assolvo io stessa
275dal debito di figlia.
 Colei che ti consiglia
 sposa fu di tuo padre ed è regina.
 Rosane
 Ma quel che mi destina
 lo sposo è il genitore
280ch’io serbo ognor presente,
 vivo nella mia mente e nel mio core.
 Statira
 Dunque Arbace tu brami.
 Rosane
                                                  Io nol ricchiesi
 ma non dee ricusarlo il mio rispetto.
 Statira
 Non comprendo se in petto
285vanità ti seduca o pur amore.
 Rosane
 Non conosci tu ben dunque il mio core.
 Statira
 Ad onta del tuo orgoglio
 voglio usarti pietà. Pensaci; ancora
 tempo rimane a stabilir tua sorte.
290Di più grato consorte
 se ti brama compagna il fato amico,
 rissolvi a tuo piacer; più non ti dico.
 Rosane
 Ho rissolto, regina; io dal volere
 del padre mio non partirò giammai.
295(Gl’arcani del mio cuor tu non saprai). (Parte)
 
 SCENA VIII
 
 STATIRA sola
 
 Statira
 Di rossore e di sdegno
 già m’accende costei. Ma che rissolvo?
 Ma frattanto che fo? Se la mia fiamma
 inutilmente io scopro,
300perdo il cuor e la fama a un punto solo;
 e se celo il mio duolo
 e se copro il mio foco,
 vo perdendo la vita a poco a poco.
 Eh coraggio, Statira; alfin qual colpa
305esser puote l’amar? Aman le belve,
 amano gl’elementi ed aman tutti
 della terra e del mare i figli e i frutti.
 S’ami dunque e si scopra... Ah che il delitto
 in amar non consiste. Evvi una colpa
310maggior nell’amor mio che il giusto offende,
 che rapire lo sposo altrui pretende.
 Pietosissimi dei,
 che sarà? Che farò? Deh voi prestate
 nel più fatal periglio
315a una misera donna un pio consiglio.
 
    Sto in mezzo all’onde
 né veggo il porto;
 non ho conforto;
 non ho consiglio.
320Deh in tal periglio,
 numi, pietà.
 
    Ah mi confonde
 doppio desio
 né sa il cuor mio
325ritrovar pace;
 se parla o tace
 perir dovrà.
 
 Fine dell’atto primo