del gran mietuto a collocare i fasci
ite all’aia vicin. Poi ciascheduno
la mano impieghi e di buon cor vi attenda.
a provedere il focolar di legna.
col tuo fucil per la campagna amena
di grasse quaglie a proveder la cena.
E voi, figliuole mie, per la famiglia
fate quel che convien. Tu, Lena, un piatto
va’ tu, Ghitta, a raccor pera e finocchi.
Eh t’aiuterò io. (Vuol sollevar egli il fascio da terra)
Va’ via di qua. (Lo scaccia, prende il fascio e se lo mette in spalla)
(Egli è il mio caro ben ma non lo sa).
(Ma di mal cuore, a dir il ver, lo faccio).
Tenga, signora mia. (Prende il fascio e glielo dà in spalla)
Brutto cosaccio. (Lo prende con dispetto)
(La Lena è più gentil). (Prende anch’esso il suo fascio)
guardami un pocolin). (Piano)
Pazienza. (Prende il suo fascio)
(Il mio Ciappin fa innamorare). (Da sé)
anch’io sarò con voi. Gli altri lavori
sparrito il sol, ci troveremo insieme.
E in allegria noi passerem la sera.
(Ma il mio povero cor pace non spera).
da cui la casa un dispiacer non sente.
E la Ghitta ha un bel cuor schietto e giocondo.
è un giovane d’onore ed anche Fignolo,
è un buon famiglio che lavora assai
e che al proprio dover non manca mai.
è un giovane modesto e di giudizio
e ho piacere d’averlo al mio servizio.
generoso Timone, io non mi lagno
delle stelle mi lagno al cuor nemiche.
Delle stelle ti lagni? Io crederei
ti dovessi lagnar con più ragione
del caldissimo sol della stagione.
il sol co’ raggi suoi. Rose e viole
né i bollori temei del caldo agosto.
che anche in mezzo del verno arder dovrai.
sperar nuova pietà, domando a voi
providenza a quel mal che in me piangete.
Quella che estinguer può sì dura pena
veggio che tu lo merti e volontieri
Ma non so ben chi sei. Venisti a offrirti
per giardinier. Ti riconobbi in volto
faccia di galantuom, perciò ti ho accolto.
vedi che ciò non basta. Hai da far noto
il paese, i parenti e la cagione
ch’errante peregrin ti feo finora
e risposta miglior darotti allora.
il provido Timone ed io pavento,
se il mio nome disvelo e il mio destino,
ch’ei ricusi di darla a un cittadino.
sposo d’Erminia mi volea forzato
per isfugir la dura pena amara,
vita m’elessi al genio mio più cara.
vendica i torti suoi. Qua dove io spero
della mia libertà godere il bene,
trovo al misero cor lacci e catene.
Faticato ho finora a fare i gnocchi,
se ne toccate un sol, vi cavo gli occhi.
e avrete a far con me, se li toccate,
e saranno roccate e bastonate. (Minacciandoli colla rocca, essi partono)
E darei, se potessi, al mio Ciappino
anche il mio cor per un maccaroncino.
ha domandato a nostro padre in sposa
Ih! Cosa importa a me? (Filando)
Tu se’ la prima e toccherebbe a te.
Io pur son brava e ho preparato i gnocchi.
Eh m’hai stuccata. (Filando)
Ma quando non v’inclini il tuo desio,
se lo sposo mi vuol, lo piglio io.
Paiono misurati col compasso.
da dirmi? Amo mio padre e mia sorella
e la mia peccorella e il mio gattino...
Come mal pettinato è questo lino. (Arrabiandosi pel cattivo lino)
S’ella Ciappo non ama, averlo io spero).
Via. (Mostrando di annoiarsi)
che chiedesse talun le nozze mie...
Io non voglio sentir sguaiaterie. (Sdegnata)
Oh non ti parlo più. Se la fortuna
se mio padre l’accorda, io mi marito.
Ami pure a sua voglia e si mariti,
sento amor nel cor mio; ma non vo’ dirlo.
Eccolo l’idol mio. Vorrei fuggirlo. (In atto di partire)
Che cosa vuoi? (Con ruvidezza)
(Mi fermerò). (Da sé sospirando senza guardare)
che mi fa disperar. (Filando violentemente)
e vo’ far le lenzuola e un grembial fino
(e vo’ far due camiscie al mio Ciappino).
Vatene via di qui. (Con sdegno)
(Caro il mio ben!) (Da sé)
Lena. (Accostandosi a lei)
Per mio padre li ho fatti e non per te.
Abbadare dovresti a’ fatti tuoi.
(Ah non posso, non posso allontanarmi).
Chi vuol Ciappo trovar, si sa dov’è.
(Maladetto costui). Che importa a te?
hai pigliato le quaglie? (Allegra e lascia di filare)
va civettando e trappolando il core.
Pazzo! Lascia vedere. Oh son pur grasse!
due dozzine di gnocchi. E mangieremo
gnocchi, quaglie e prosciutto allegramente.
Eh se’ tu il caro e il sgraziato io sono.
Lena, cosa vuol dir che or non ti preme,
come pria ti premea, di lavorare?
Son quel che sono e comandar non dei.
ti darei la risposta a te dovuta.
con chi di te non se ne cura un frullo,
della villa e di lei scherno e trastullo.
me l’ho contro di te legata al dito).
vedi la leggiadria di quest’inchini.
in brillanti parole, in dolci amori.
Povero babuino, ascolta e mori.
(Non m’arrabbio per lui ma che la Lena
Non lo posso soffrire. Il mio Ciappino
ha tal grazia che pare un amorino). (Si rimette a filare)
Perché... perché così mi pare.
Voglio fare a mio modo. Io son padrona.
Oh! (Filando fa segno di burlarsi)
Io non amo nessuno io. (Filando)
Son bello e licenziato. Ma chi sa?
Voglio ancora sperar. Vedute ancora
che amano e ai loro amanti fanno il grugno
e dicono di no sino a quel punto,
poi dicon sì, quando il momento è giunto.
Della Lena il disprezzo ora ho capito.
Perfida! Lasciar me pel giardiniere?
Tuo sarà il danno e la sfortuna è mia.
È sciocca e non conosce e non sa nulla.
che il merito distingue e se Ciappino
mi volesse quel ben ch’ei volle a lei,
fortunata davver mi chiamerei.
il mio povero core a un core ingrato.
ripigliare si può liberamente
a me che lo terrò come un gioiello.
Il mio povero cor non è più quello.
Poverino! Delira. A me dia pure
m’impegno, quando ancor fosse così,
farlo bello tornar, com’era un dì.
Contadina non par, benché vestita
Ella certo non è del mio paese.
(Canta e parla da sé come una pazza).
femmine a lavorar non prende mai.
E in casa egli ha de’ mangiapani assai.
Né addattare saprei mano inesperta
a rustici lavori. Io sol vi chiedo
per la notte vicina asilo e tetto.
Oh a chi non conosciam non diam ricetto.
(io ci scommetterei ch’è un contrabando). (Parte)
con cui mi abbandonò. Chi ’l crederebbe?
M’insultò, mi schernì, sprezzommi ognora;
io lo seguo e lo cerco e l’amo ancora.
(Villereccia non parmi, a quel ch’io vedo).
Figlia d’onesto padre, il cui affetto
sposo grato al cuor mio mi aveva eletto.
sia che amore abborrisca o che gli spiaccia
fugì ramingo in rozzi panni avvolto.
tal nome a’ giorni miei. Stranier qui venne
giovane, è ver, che l’orticel coltiva
Silvio si chiama e Clorideo m’è ignoto.
Scandali non ne voglio in casa mia.
Compatite, scusate e andate via.
che nel ciglio il rigor vi desta invano,
siate meco cortese e siate umano.
Eh figlia mia, le dolci paroline
meco non son più a tempo. Il cuore un giorno
a me pur, giovanetto, in sen brillava.
Passato è il tempo che Berta filava.
No non v’è più per me speranza alcuna.
il cielo, il mondo e il faretrato amore.
ah non so ben se disperata o forte,
il rimedio a cercar fra stragi e morte.
concepisti tant’odio e tanta pena,
barbaro Clorideo, vieni e mi svena.
di vederlo e sentir che imbroglio è questo.
se richiesta mi avesse la figliuola
e con altra costui fosse in parola).
Silvio verrà per consolar la Lena.
Cosa parli di me? (Venendo dal foco colla mestola in mano)
Essere io non voglio corbellata. (Torna verso il focolare e si ferma alla metà della stanza)
(Eh son io il corbellato).
Cosa dite fra voi de’ fatti miei? (Avvanzandosi)
Bada a cuocere i gnocchi. (Alla Lena)
Mi perseguita sempre e quel birbone
sempre le dà ragione. Via di là. (A Ciappo)
I’ vo’ star qua. (Alla Lena)
(Proprio mi viene la saetta). (Arrabbiandosi)
bada a me, non a lui). (Piano alla Lena)
Lasciami stare. (A Fignolo)
(Non lo vedi che a Ghitta ei porta amore). (Come sopra)
Che importa a me? (Oh Ciappo traditore!)
Prendi tu, Ciappo, il pan della dispensa,
Fignolo ad ammannir venga la mensa. (Ciascheduno fa la sua incombenza)
Non mi vuole il padron? Per qual ragione?
di chiedergli la Lena e v’è chi dice
che hai con altra ragazza un primo impegno.
Va’, pria ch’egli abbia ad adoprare un legno.
alle menzogne altrui? Senza ascoltarmi,
Ma là dentro frattanto entrar non puoi.
dimmi, sa ch’io la chiesi?
quasi quasi smarrita ha la ragione.
sei venuto a sturbar la nostra pace.
il fortunato riamato amante?
e tu saper nol dei. Per or ti basti
e se ci vieni avrai che far con me.
né l’amor né l’orgoglio, ah mi spaventa
di Timone lo sdegno e non intendo
della Lena il furor donde sia nato.
Né qual creder mi possa altrui legato.
quel rio dolor che ha il suo bel core oppresso?
Che derivi cred’io sol da te stesso.
e tu non vieni ancora? (Avrei piacere
e il pensier della Lena abbandonasse).
Io verrei volontier ma l’insolente
testé mi disse minaccioso, altero,
Sai che ti ama mio padre e sai che tutti
ti vediam volontieri e mia sorella
Vien qui, vien meco e non temer d’alcuno. (Lo prende per la mano)
Sì, fatti cuore. (S’incamminano)
Fermati, disumano e traditore. (A Clorideo arrestandolo)
importuna a insultar? Sai che mi spiaci,
sai che ti sfuggo e che il cuor mio non ti ama.
(Parlar schietto davver questo si chiama).
Dimmi almeno il perché. Di’ s’io ti sembro
sì abborrevole oggetto e qual ti spiaccia
diffetto in me, qual di natura ingrata
infelice cagion rendami odiosa
ai tuoi lumi, al tuo cor. Priva qual sono
di beltà, di virtù, non arser pochi
finora al sguardo mio. Cruda e severa
fui con mille amatori, io tel protesto;
amai te solo e il mio delitto è questo.
(Non saria il primo caso che da cento
e da quel che vorria fosse sprezzata).
i pregi tuoi. Quello che in te mi spiace
è il tuo grado e il tuo stato; amante io sono
di lieta libertà, sfuggo, abborrisco
di pomposa città la gara, il fasto,
l’alterigia, il rumor. Sin dall’infanzia
avvezzo i’ fui fra solitari alberghi,
fra innocenti pastor goder la pace.
Torno alle selve e tu lo soffri in pace.
senza ch’io l’introduca e che io lo scorti,
va là dentro a cercar chi lo conforti). (In atto di partire)
quanto vaga e gentil, ditemi almeno
s’egli d’altra beltà ferito ha il seno.
Bugie non ne so dire e poi è meglio
e acchetarsi e cercare altro partito,
sì, da un’altra bellezza ha il sen ferito.
Io, per dirla com’è, sono di lei
Ma circa alla beltà noi siamo lì.
Vezzosette ambedue così e così.
(Ardo di gelosia). Quel disumano
io vi consiglio a superar la pena.
Ei sarà andato a ritrovar la Lena.
preferita vedermi una vil donna.
Proverà i sdegni miei. (S’incammina verso la casa)
Qui comandiamo noi. (Come sopra)
Vo’ vendicarmi. (Come sopra)
Fuori, fuori di qui. (A Clorideo)
Perché scacciarmi? (A Timone)
(Ah mi vendica il cielo).
Che vi ho fatto, signor? (A Timone)
alle mie terre e alla mia casa intorno?
cagion de’ scorni miei. Giubbila e ridi.
Ma t’inganni, crudel, se in me confidi. (Parte)
qualche cosa a ridire, andar potete.
Voi usate a trattar da quel che siete. (Con disprezzo)
Che vorreste voi dir? (Ad Erminia con sdegno)
indiscreta, incivile e disumana.
state da quel che siete e non andate
gli amanti a ricercar di qua e di là.
Ed a chiedere amor per carità.
che pensiate così. Fra noi gli è vero
mascherar la virtù non si procura
ma la semplice amiam schietta natura.
non sappiamo adular. Da noi non s’usa
dar col labbro il buongiorno e poi col cuore
trista notte augurar. Giurare affetto
e covare nel sen l’odio e il dispetto.
e i’ son padrone e posso dirvi: «Andate».
d’aver meco così trattato a torto,
poiché l’onte e gl’insulti io non sopporto.
agli astri ed alla terra. Eh sì, mi fido.
Di una donna al furor non tremo, io rido.
e di chi non capisco e dir nol vuole
e mi fanno tremar le sue parole.
e nessuno sa dir dove sia ita.
Ah si vuol rovinar così ammalata.
Ditele che non faccia la sguaiata.
Sì sì, glielo dirò. (Ma la conosco;
che trovar non si lasci ho gran paura). (Parte)
Padri, poveri padri! Abbiam nei figli
brevissimi contenti e lunghi guai
e un dì di bene non ci lascian mai.
la germana la cerca ed io meschino
per piani e monti rintracciar mi provo;
corro, salgo, discendo e non la trovo.
A me la vita e al genitor recate. (Partono i due contadini)
troppo m’allontanai dal nostro tetto.
il povero mio padre e mia sorella
d’obbligarmi a parlare e di adirarsi
or ch’io più non ci sono avrà il suo intento
e Ciappo traditor sarà contento.
ed avrei delle grida e delle botte.
che farò mai qui sola? Ahimè pavento
biscie, rospi, serpenti e corbi e lupi.
sarà l’albergo suo poco lontano.
Qualche aiuto da lei non spero invano).
(Chi è costei che mi guata e par tremante?)
alcun passar per questa via?
Non vidi alcuno. (Come sopra)
Nulla, nulla. (Come sopra)
Piena son di vergogna e di timore.
né so dove mi vada o dove sia.
Vi domando per or soccorso, aiuto.
Ma che farti poss’io? Son forastiera.
Conducetemi vosco in compagnia.
Timone è il padre mio, detto il Badiale.
(Ah giunta è in mio poter la mia rivale). (Da sé)
(In traccia andrà di Clorideo malvaggio). (Da sé)
sposa tradita di colui che adori
e tu sei la cagion de’ miei martori.
Va con tutte le donne a far l’amore).
A me chiedi pietà? Perfida, il tempo
dell’amor mio sopra di te è venuto.
Che vi fece di mal la sventurata? (Ad Erminia)
amante, a me rival, di lui va in traccia.
No, non è vero e ve lo dico in faccia.
(Non mi fa più paura). (Da sé)
che per amor fuggisti? E chi è l’amante,
e Babeo né Sicheo né Melibeo,
e lasciatemi star; non mi seccate.
che difesa ora sei; ma verrà il giorno,
che vendetta farà teco il mio sdegno.
usami carità, mostrati grata.
sarei meschina o strapazzata o morta).
Non gradisci il mio amor?
l’afflitto padre a consolar; meschino
ei piange, poverino, e si dispera.
Non vo’ dare alla Ghitta gelosia.
Di lei nulla mi curo. Quel che ho fatto
Se ti offesi mio ben, chiedo perdono. (S’inginocchia)
Ah tu piangi, ben mio? Sei tu placata? (S’alza)
se mi amasti finor, se mi amerai.
Non lo dissi, nol dico e nol saprai.
Misero me! Pazienza, almen ritorna
Ah se meco non vuoi, deh lascia almeno
a casa tornerò, perché mio padre
più non provi per me pena e cordoglio;
ma tu stammi lontan, ch’io non ti voglio.
Siamo sempre da capo e sempre peggio.
S’io parlo ella s’adira; e se non parlo
e se al padre in isposa io non la chiedo,
altra via per averla ahimè non vedo.
vo’ al padre anticipar la nuova grata
che la cara sua figlia è ritrovata.
Consolatevi pur, che godo anch’io.
Teme il padre sdegnato ed ha paura.
che non abbia timor. La sua venuta
che il sofferto dolor mi son scordato.
No, non le griderò. Voi avvertite
a non darle spiacer. Cari figliuoli,
fate che si consoli. Allegri in viso
accoglietela tutti. Oh che giornata
Giubbilate figliuoli e facciam festa.
Notte, funesta notte! Oppresso e vinto
dall’amore prodotti e dal dispetto,
mi privi ancor di poca paglia e un tetto?
Barbara, disdegnosa Erminia audace,
se più ardissi affacciarti agli occhi miei,
perfida, non so ben quel ch’io farei.
le soglie penetrar, soffrasi almeno
ch’ei mi vaglia a coprir dal ciel sereno. (Trova il sedile e vi si adagia sopra)
chi m’accolga pietoso e chi m’aiuti;
non riscuote il pregar ch’onte e rifiuti.
fin che in dolce sopor ciascun riposa,
passar l’umida notte all’aure ascosa.
Barbaro Clorideo, per tua cagione (Va cercando da sedere e ritrova un sasso)
Ecco un aspro sedil. Soffrir conviene. (Siede)
Meglio fia assicurarmi. (S’alza)
Ah non m’inganno. (Veggendo moversi Erminia s’alza)
Indegno. (Scopre Clorideo)
Sazia non sei di tormentarmi ancora?
No, si placchi il tuo core oppur si mora.
Che rumore? Chi è qui? Che cosa è stato?
Io non voglio rumori in casa mia.
di volermi ramingo a notte oscura?
nemico di pietà sarete a segno
d’usar con donna un trattamento indegno?
se pietoso gli fui. Se non vedessi
che vi fosse fra voi sì fatto imbroglio,
v’userei la pietà che usare io soglio.
Per te, crudel. (Ad Erminia)
Per tua cagion, spietato. (A Clorideo)
(Mi duole il cor di comparire ingrato).
v’offrirei fra le mie povere soglie,
se foste in carità marito e moglie.
non è per te. Scoperto ho qualche cosa.
e ad altri nel cuor mio l’ho destinata.
fuorch’Erminia, può far la tua fortuna?
Mi move a compassion. Che trovi in lei
che la guardi con odio e con dispetto?
Non ha forse un bel garbo e un bel visetto?
non spregio il di lei cor. Noto è ad Erminia
che amo la libertà, che mia delizia
sono i boschi e le selve e ch’io non voglio
per lei soffrir dei cittadin l’orgoglio.
che pensi giusto. E voi, s’egli vi preme,
con lui venite ad abitare in villa,
che vivrete quieta e più tranquilla. (Ad Erminia)
basterebbemi ancora un antro, un speco.
che intiepidisca o che distrugga amore
quella fiamma fatal che m’arse il cuore.
Ha ragione, ha ragion. Soffrite un poco. (Ad Erminia)
Arderà al nuovo foco. Orsù non voglio
In casa mia restate. Ma, intendiamoci,
fin che non siete ancor moglie e marito.
devesi più riguardo e più rispetto.
Sì, di buon cor, vi cederò il mio letto. (Ad Erminia)
No, crudel non son io qual tu mi credi.
Compatisci d’amor legge severa,
amami, se lo vuoi, ma soffri e spera.
E soffrire dovrò ch’ei per amarmi
da più vulgari ed infelici affetti?
a soffrire e a tentar. L’ardito passo
fatto già per amor, l’onor, la fama
un preciso dover cresce alla brama.
perché in volto non veggami il rossore,
parlarti io voglio e palesarti il cuore.
sei di Lena, lo so. Ma credo bene
ma con Ciappo tu pur farai lo stesso.
benché la Lena ancor neghi ostinata
che Ciappo adora e ch’è da Ciappo amata.
Ghitta sposar non ti saria discaro.
Se ti prendo, sarà probabil cosa
ch’io lo faccia per dire: «Anch’io son sposa».
perché prima di lei quell’altra ho amata.
fra Ciappo e me. Saprà che per marito
val, più di tutto Ciappo, un sol mio dito.
d’aver con fuochi ed allegrezze tante
secondato il piacer della famiglia,
poiché a casa tornò la cara figlia.
i compagni per me. Fate che tutti
venghino qui. Son pover contadino
e di cascio e prosciutto e d’insalata
far baldoria stassera alla brigata. (I contadini allegri partono)
per vedere l’amor de’ miei vicini
non so che non farei... Se non m’inganno,
veder Ciappo e la Lena. Sì, son dessi.
Sentir s’ella è di ghiaccio o in seno ha il foco. (Si ritira fra gli alberi)
Nemico non mi sei. Lo so, conosco
ma sai quel che t’ho detto.
Soffri, che forse un dì non penerai.
sarà sposo di Ghitta ed io meschino
avrò sempre a soffrir sì rio destino?
e speranza di ben per me non c’è.
(La sorella minor prima di me?)
Nozze senza di lui far non conviene.
(Ah sì, mio padre non mi vuol più bene).
perché neghi di dar sì bel conforto
(Alla sua Lena un torto?)
vivere più così. Su via, crudele,
O tuo sposo o morir. Non v’è più tempo,
Se sposarmi non vuoi, vo ad annegarmi.
che mi senti a parlar. Crudele! Addio. (In atto di partire)
Fermati, Ciappo mio. (Con ansietà)
Non vo’ ch’egli lo sappia.
che tu dica davvero e me n’andrò. (In atto di partire)
Prendi... Ti do la man. (Tremante)
Mano adorata. (Stringendola)
Ci ho da essere anch’io. (Alla Lena)
Va’ via di qua. (Spingendo Ciappo con finto sdegno)
Perdonate, signore. (A Timone)
Non lo vuoi? Non lo vuoi? Senza del padre
facevate le cose infra di voi
e ora dici con me che non lo vuoi?
Caro padrone... (Tremante gli dà la mano)
Voglio farvi pentir. Moglie e marito. (Unisce le due mani della Lena e Ciappo)
Ghitta lo sarà ancor. Non lo sarebbe
certo prima di te. Vo a consolarla,
anch’essa, se lo vuol, Fignolo pigli.
Vi benedica il ciel, cari i miei figli. (Parte)
Un tantin di rossor mi resta ancora.
deve andare il timore in abbandono.
È vero, è ver ma vergognosa io sono.
Mi consolo con voi. La man di sposi
Vi auguro sanità, pace e bambini.
Sì, sposata mi son per compagnia.
sai che di Ciappo è sposa. A me la mano
se finor t’insultai. Sarò tuo sposo
lungi dalla città, fra boschi amici.
Teco ovunque godrò giorni felici.
Penai, è ver, ma non ho pianto invano.
Vieni, vieni, figliuola. Eccola qui. (Conducendo la Lena per mano)
Alfin la Lena mia si è maritata.
Ma un po’ di timidezza le è restata.
consolate veder le mie figliuole.
La mia casa è la reggia d’Imeneo.