Il conte Chicchera, Milano, Montano, 1759

Assente nell'edizione Zatta Frontespizio
 SCENA II
 
 Donna LUCREZIA, poi don IPPOLITO
 
 Lucrezia
 Lo dissi che Lindora
 farmi volea l’insulto e me l’ha fatto.
535Vendicarmi saprò d’un simil tratto.
 Però poco mi cale
 di perdita sì lieve. Io di Fabrizio
 stata amante non sono; e più di lui
 perder mi spiacerebbe
540d’Ippolito il bel cuore,
 per cui serbo nel sen verace amore.
 Eccolo appunto. Oh cieli!
 Mi sembra un po’ turbato;
 meco non crederei fosse cangiato.
 Ippolito
545Signora, un mio dovere
 son qui ad adempir. Voi da madama
 alterata partiste ed io non ebbi
 di servirvi il piacer. Se nel cuor vostro
 di qualche inciviltà colpevol sono,
550per rispetto e dover chiedo perdono.
 Lucrezia
 Per rispetto e dover? Non avrà parte
 nella scusa l’amor? Come! Tacete?
 Da cavalier qual siete,
 parlatemi sincero; avete in petto
555qualche scintilla di novello affetto?
 Ippolito
 Dirò; se per esempio
 stimassi un’altra bella ed il mio volto
 piacesse alli occhi suoi,
 il mio dover non scordarei per voi.
 Lucrezia
560Amor non vuol rispetto; o amar si deve
 per genio, per piacere; o inutilmente
 si sagrifica il cor. Non m’ingannate,
 con libertà parlate;
 celando il vero un mentitor voi siete;
565compatirvi saprò, se il ver direte.
 Ippolito
 Ohimè! Con troppa forza
 vincolate il mio cor. Sì, lo confesso;
 da novella passion mi scorgo oppresso.
 Lucrezia
 Basta così. Spietato!
570Poiché vi scorgo ingrato,
 a me più non pensate.
 Sì, traditor, sì, mentitor, andate.
 
    Scenda dal cielo un fulmine;
 t’incenerisca, o perfido;
575ah, la spietata immagine
 voglio strappar dal sen.
 
    Tu m’insegnasti a sciogliere
 l’alma dal laccio orribile.
 Amor cangiato in aspide
580m’empie del suo velen. (Parte)