Statira, Venezia, Pitteri, 1756

 SCENA III
 
 STATIRA, poi ARBACE
 
 Statira
 Ah m’insulta l’ardita ed io la soffro?
835Mi avvilisce il timor. Tutte a’ miei danni
 congiurate si son le stelle ultrici,
 tutti i vassalli miei son miei nemici.
 Solo nel cuor d’Arbace
 la mia speme riposa. Il suo valore,
840la sua fé, l’amor suo può darmi aita;
 può l’aspetto cangiar degli astri rei.
 Dove Arbace, mio bene, ah dove sei?
 Arbace
 Eccomi a te, regina eccomi a darti
 del fedele cuor mio le prove estreme.
845Cinta è la reggia e preme
 d’ogni intorno il furor di sdegno audace
 ma non temer, che in tua difesa è Arbace.
 Statira
 Ah non esporti, o prence,
 solo de’ congiurati
850all’acceso furor; della tua vita
 calmi soltanto; ed il timor che giunge
 a inumidirmi il ciglio
 non è già il mio destin ma il tuo periglio.
 Arbace
 Tutti non ha Learco
855i guerrieri sedotti. Ancor nel petto
 della parte maggior de’ tuoi vassalli
 per te regna la fé, per me l’amore.
 Statira
 Deh non mi abbandonar.
 Arbace
                                                 Lascia ch’io vada
 le squadre ad animar; del duce loro
860avvezzi ad obbedir sono alla voce;
 e ad assalir più franchi
 l’inesperto furor di un popol empio
 può il mio aspetto giovar, giovar l’esempio.
 Statira
 Ah, se ti perdi, o caro,
865donde resta al cuor mio conforto, aita?
 Arbace
 Non dubitar, mia vita,
 tornerò vincitor. Le giuste imprese
 si protteggono in cielo; e pur che al trono
 mi preservino i dei la mia sovrana,
870la morte allor non chiamerò inumana.
 
    Lascia ch’io parta, addio.
 Dammi la destra in dono;
 spera, bell’idol mio,
 vado a morir per te. (Prende di Statira la mano baciandola)
 
875   Della mia spada al lampo
 abbasseranno il ciglio.
 Argine al tuo periglio
 ritroveranno in me. (Parte)