Statira, Venezia, Pitteri, 1756

 SCENA IV
 
 STATIRA, ARBACE
 
 Statira
 Principe, inver tu merti (Scende)
 più fortuna in amor.
 Arbace
                                        Non son, qual credi,
 sventurato perciò.
 Statira
                                    Se la freddezza
 di Rosane appagar puote il tuo foco,
110principe, mi perdona, ami ben poco.
 Ma che amare in Rosane,
 ma che puoi vagheggiar? Di donna i lumi
 vaghi non son, se dell’interno ardore
 non ostentan la fiamma. Invan si loda
115bel labbro che non sappia
 il dolce nome proferir d’amore;
 invan si apprezza un core
 che non senta d’amor la viva face;
 e Rosane ti piace?
120E l’adori e la brami?
 Dimmi almen la cagion per cui tu l’ami.
 Arbace
 L’amo qual si conviene
 allo sposo la sposa e l’amo quanto
 il grado di Rosane
125esigge dal mio cor. Però sì poco
 parlai seco d’amor, finor sì poco
 vagheggiai quel sembiante
 ch’io non sono di lei perduto amante.
 Statira
 Se di Rosane il cuore
130d’altro amor prevenuto
 offrisse a forza i simulati affetti,
 peneresti in lasciarla?
 Arbace
                                           E chi potrebbe
 comprare a prezzo di sospiri e pianti
 un danno eterno, una catena ingrata?
 Statira
135Più che non credi, Arbace,
 amo te, la tua pace; a me la cura
 lascia di penetrar fin dove annida
 di Rosane il pensier, di me ti fida.
 Arbace
 Al tuo bel cuor, regina,
140mi abbandono, mi affido. Ah se tu serbi
 per me grata pietà nel seno ascosa,
 segui, non ti stancar d’esser pietosa.
 
    Del mio cor da te dipende
 bel conforto, amica pace,
145per pietà da dubbia face
 non lasciarmi lusingar.
 
    Pria che giunga di un’ingrata
 a ferirmi il vago ciglio,
 la tua legge, il tuo consiglio
150deh m’insegni a disamar. (Parte)