Metrica: interrogazione
851 endecasillabi (recitativo) in Oronte re de' Sciti Venezia, Rossetti, 1740 
O sarà mia Artalice o questo regno
distruggerò. Non vuo’ che mi contrasti
poca gente indiscreta, e solo vaga
l’arbitrio al mio voler, la pace al cuore.
Vincer la plebe è lieve cosa. I grandi
tremeranno avviliti; ah non so quanto
d’Alcamene fiaccar; lo sai, ritorna
                                                  Tarpace,
nulla deggio celar. So che si oppone
l’ultima volontà, la legge e i patti
franger del genitor; ei m’odia; ei pensa
Artalice negar. Ma il pensa invano.
giovine condottier d’armi felici.
fe’ su l’Istro gettar. Passò gran parte
dell’esercito suo. Forse a quest’ora
la facil via di rimirarti oppresso.
Mi conosci, Tarpace, e così parli?
                          Io non ti vidi mai
                            Di questa al cor d’Oronte
cagione è amor. L’affetto d’Artalice
mi cale, il sai; me ne lusingo e scorgo
che studiata pietà vince il suo orgoglio.
Mi sdegneria crudel. Sol per piacerle,
disposto ho il core a simular lo sdegno.
                                                Eh no, Tarpace,
                            Perché?
                                             Perché a quest’ora
forse non vive più. Conosci Orcane,
                                         A me è ben noto.
Io lo mandai con finta pace in volto
Alcamene a incontrar. Di ferro e tosco
munito andò; ma più di gemme ed oro,
prezioso incanto alle segrete guardie
destinato del prence. I suoi più fidi
sono miei da gran tempo; avranno a gara
sospirato piacermi ed io, Tarpace,
getto il colpo fatale e ascondo il braccio.
Opportuno è il disegno; andar fallace
                        Trarmi di pugno il brando
non pertanto vedrai. Chiederò ai Sciti
del lor valor le usate prove; alfine
                                         Propizio fato
ti secondi, signor; sai che d’Amasia
arde il mio cor, che destinata al letto
ella fu d’Alcamene; estinto il prence,
rimane in tuo poter. Tu puoi dar legge
anco agli affetti suoi. Deh non negarmi
poterla conseguir, se alla mia fede
S’io felice sarò, sarai felice.
felice me! Senza un rival sì grande,
posso molto sperar. Di Daccia il trono
più del cor d’Alcamene e di Tarpace.
Donna ambiziosa è per natura. Oronte
serve al mio amor. Io serberogli fede
quanto mi gioverà. Felice augurio
de’ vicini contenti! Io del mio bene
sto fra me ragionando ed ei sen viene.
Odioso incontro! (Si arresta incontrandosi in Tarpace)
                                  Oh dei! Perché ti arresti?
                                       Non se’ ancor stanco
ch’io tel ridica? T’aborrisco, il sai;
                                          Ah mi lusingo
                                         Invan lo speri.
                                           E se mancasse
un rivale al mio amor? Spiegati; allora
                            Mi spiaceresti ancora.
                                        Perché de’ Sciti
odio il nome fatal, perché d’Oronte
perché il tuo volto agli occhi miei non piace.
                                Sì, dono al sesso,
dono all’età, dono alla tua bellezza
Io t’amo, Amasia; ecco d’amore un segno;
m’oltraggi audace; io non mi movo a sdegno.
ch’io soffro dal mio ben, sentir non posso
ragionarmi d’amor. Perfido amore,
Ma non ebbi da te che doglie e affanni.
Le promesse d’amor son tutti inganni.
Amasia, ah non vuo’ dirti idolo mio,
perché più non ti sdegni. Il so che m’odi;
                                          (Ecco un novello
sturbator di mia pace. Amor si prende
                           Non ispiacerti, o bella,
                                     Perché?
                                                      So quanto
ami Alcamene. Ei non è lungi ed io
venni a recarti il fortunato aviso...
Ferma; uccide il piacer quand’è improviso.
                                    V’è chi veduto
ha l’esercito suo da queste mura.
V’è chi incontro gli andò. Sino il tiranno
mandò seco a trattar. S’ode la regia
tutta d’intorno risuonar festiva.
chi gli archi inalza e chi trofei prepara.
il suo arrivo a saper? Io che in lui vivo?
Misera condizion del nostro sesso!
a me l’onor di consolarti, Amasia,
                                       Che mai pretendi
                                               Bastami solo
che non m’odi, crudel. Per me nel seno,
se amor non puoi, serba pietade almeno.
io misuro le tue. So qual tormento
sia l’amar senza frutto; e mi figuro
senza speme qual sia. Mi fa pietade,
principe, il tuo destin. Pietoso amore,
credimi, quanto al mio bramo al tuo core.
della perdita mia rifarmi il danno?
d’Amasia il volto! Ah lo sperarlo è vano.
consolarmi non può. Nacqui infelice.
Vieni, vieni, mio ben; pria che il tiranno
ci divida per sempre, uniam per sempre
l’anime nostre in sacro nodo. Ah vieni.
congionti e sposi, anima mia, morremo.
le nozze a stabilir? Soggetti ancora
lascia ch’ei giunga e ci consoli. Io spero
                                      Chi ci assicura
al paterno voler? Che i patti ingiusti,
soscritti dal timor d’un re cadente,
unico scampo a più fatal periglio,
vendicar voglia e lacerare il figlio?
negar tutto ad un re che ha nelle mani
colla tua man la pace? Ad avvilirlo
qual sarebbe, Artalice, il nostro inganno?
                                         Pur ne dispose
                         Violentarmi allora
non intese però. Lui spento, io sono
                                        No, non lo spero.
                              Cederai malgrado
                                        M’offendi Ermondo
                                     So quel ch’io dico.
                                                 Ah che vedesti?
mitte assai favellar. Sperai più belle
prove di tua virtù. Ma... sì, Artalice,
voglio dirti il mio cor. D’Oronte il soglio
forse in sen ti destò novell’orgoglio.
tal favelli a colei che sol te adora?
Dimmi, crudel, non mi conosci ancora?
re minacciata? Apertamente oppormi
era un troppo irritarlo. Io presi tempo,
                                            Ah temer posso
che la promessa tua sia una lusinga.
                                                            In faccia
al sacro nume e su quell’ara ardente,
                                   Sì, vieni, o caro;
Ci assicuri la fede un giuramento.
queste fiamme profane. Ah che si tenta,
perfidi, ad onta mia? Sarebbe Ermondo,
sarebbe il mio rival? S’io lo credessi,
d’Artalice sugl’occhi, anima imbelle,
                                (Misera!) (Da sé)
                                                    (Oh stelle!) (Da sé)
d’Alcamene al destin; fidate in lui.
Ma Alcamene è ancor lungi e intanto io regno.
                                            (Pronto soccorso (Da sé poi ad Oronte piano)
l’arte presti al grand’uopo). Ah fa’ che Ermondo,
signor, si scosti; io ragionar ti deggio
                           Olà, scostati. (Verso Ermondo)
                                                    Almeno...
                                     Ma qual misfatto...
Guardie, lungi da me costui sia tratto.
lo prevedo, lo so; di donna al labro
ch’io ti voglia ingannar. Non mi assicuro
perciò a dirti il mio cuor. Ah s’io potessi
non sospetti sperar gli accenti miei,
                                                         Oh dio!
Mi fai tremar. Come pretendi, Oronte,
ch’io ti parli d’amor, se minaccioso
                                            Sì, qual tu credi,
                            Sai che odiarmi è vano;
                                         Deh mi concedi
libera ragionar. D’Oronte il volto
piace al mio cor, non il costume. Ah sire,
men feroce tu fossi, io ti amerei.
                                     Ma pur vorrei
questo ancora donar a chi fra Sciti
e nacque e regna. Io ti dirò, signore,
di che più temo. Non amor ti accese
del desio di mie nozze. Il so, la Misia,
ch’è mia dote, è il tuo voto; e la speranza
di conquistar, mancando i figli, un regno
                                           Ah non è vero;
                                 Che mai sperar potrei
le varie del destin promesse tante
a uno sposo che m’ami e sia costante.
E in Oronte l’avrai. Odi, Artalice;
ti fece mia; mia ti può far la forza;
voglio che mia solo ti faccia amore.
Felice me! Se assicurarmi io posso
dell’affetto d’Oronte, ogn’altro foco,
                                     Te ne assicuro.
                                              Ma la destra
pegno è sol d’imeneo, non già d’affetto.
l’alma i dubi a discior. Non lusingarti
                                                           Lo devi.
Il temerne è un oltraggio; e non lo soffre
un re, un amante. A non mostrarti ingrata
Mi spaventi, signor, quando ti sdegni.
Veggo il tuo cuor. So che m’inganni; e speri
che io sofra e non mi accenda? E se minaccio
Il mio cuor non conosci. Io non t’inganno.
                                                 Attendi almeno
che d’Alcamene il sì vicino arrivo
                                         Invan lo speri.
fraposto al mio voler, pone in periglio
                                          (Numi, consiglio). (Da sé)
Oronte è il mio signor; l’amo; lo temo,
facciasi il suo voler; stringasi il nodo
fra il suo cuore e il mio cor; ma non sperarmi,
lieta qual mi vorresti e qual potrebbe
far contento il tuo amor. Ah nel mio petto
lo spavento confonde ogn’altro affetto.
Mira, signor, le sacre fiamme a terra.
Mira il nume sdegnato. Ah pria si plachi,
poi guidami all’altar. Questa sol chiede
                                            Ah se tu m’ami,
tutto sgombra il mio sen. Come il tuo affetto,
che si fe’ del mio petto un dolce nido,
potria sofrir la compagnia molesta
del terror, della tema. Ah me di pianto
bagnar le piume e funestar vedresti;
sforzati amplessi e tetri sguardi avresti.
Che rio piacer! Che sventurato nodo
saria questo per te! Se la mia pace
procurar non ti cale, o tu non m’ami
o il mio affetto non curi o invan lo brami.
Ti spaventano i marmi? In man di Giove
l’uso del tuo timor. Da quell’altare
toglier farò la minacciosa imago.
                                            Vanne, Artalice,
un novello desio m’accende il petto.
ordina i riti e serba il pio costume.
Chi è tuo sposo e tuo re sarà tuo nume.
giovimi il tempo a maturar consiglio). (Da sé)
un raggio di pietà. La tua fierezza
colpa è del suol natio. Sì, mi lusingo
di vederti cangiar l’aspro costume,
chi ha più poter di me? V’è chi d’Oronte
sovranità non soffro. Olà, s’atterri (Entrano le guardie)
la sognata deità. L’effigie mia
là sia riposta. I miei dovuti onori
altrui non cedo. Sia ambizione o orgoglio,
sia tirannide ancora, io così voglio. (Mentre i soldati d’Oronte vanno per demolir la statua, s’oppongono i custodi e li ministri del tempio, fra’ quali segue una zuffa)
s’ardisce in faccia mia? Questi del tempio
vorrian regnar della pietà col manto.
Li abbasserò, li struggerò; cadranno
i rei custodi, i sacerdoti e il tempio.
                                    Ma tu, germano,
ti lagni a torto e ti tormenti invano.
                                                     Ah temo
del tiranno la forza e le lusinghe.
lo splendor del diadema. Io, lo confesso,
temo la sua beltà, temo il suo sesso.
                                                          Che fia?
Lo previdi, lo so; sposa, vuoi dirmi,
Artalice è d’Oronte. Il ciel per sempre
Ah t’inganni, signor, morto è Alcamene.
di dirlo in faccia mia? Sai pur ch’io l’amo.
                                        So il tuo valore.
Non ti uccise il piacer, meno il dolore.
                                   Iniquo fato,
puoi di più tormentarmi? Apprendo appena
che cosa è amor che a sospirar comincio.
Lungi dal mio tesoro in mar d’affanni
vivo penando; e quando spero il porto,
la mia speranza, il mio Alcamene è morto.
Come perì? Chi l’assicura? Oh stelle,
                                      Sappi... Artalice
vedi che giugne. Attendi. Odami pure
                                            Ella non pensa
                                           A chi?
                                                         Ad Oronte.
                            Lo temo.
                                               Ah no, t’inganni.
                                                  Oh numi!
Gelo in vederla. Ah che sarà mai questo
Torni mia? Sei d’Oronte? Ah che nel volto
no del tutto serena io non ti miro.
                                         Cieli, respiro.
credimi, di follie. Freme di sdegno
lo scita più che mai. Tentai placarlo
col nome degli dei. Propizio il cielo
me secondò ma il miscredente audace
l’immagine atterrar. Trovò nel tempio
chi s’oppose all’ardir. Ah segue ancora
tra i fedeli custodi e i rei soldati
                             Oh dio! Quante sventure,
                                  V’è del destino
                                                Sì, principessa;
                               Stelle!
                                             Alcamene
                          Come!
                                         Deh o cara,
tutto il cuor in balia. Ressisti all’onte
                                    Sì, non invano
di costanza munita. Il so, noi siamo
pellegrini nel mondo. Ad ogni instante
un periglio s’incontra. In mille guise
e sterpi e sassi e precipizi e mostri.
                                      D’Oronte un colpo
                              E penetrò tant’oltre
                                      Il traditore
trovò compagni. Fra le guardie stesse
seminò l’ira sua. Fur gli assassini
e i complici svelò. Fu sin ad ora,
ai soldati nascosto il caso atroce,
noto solo a Nicandro. Un suo fedele
l’aviso a noi recò. Gli ordini nostri
pronte l’armi tenendo alla vendetta.
Qual vendetta? Qual’armi? Abbiamo, Alcasto,
troppo interno il periglio. Oronte infido
sinora minacciò. Scaglierà adesso
                                 Ma il disperarsi
è il maggior de’ perigli. Amici è tempo
d’usar fortezza. Armiamoci di ferro
                                           Odi, Artalice,
dalla voce de’ numi alto consiglio.
a pochi è noto. È tuttavia Nicandro
solo forse a saperlo. Ah tu potresti
tra l’ombre uscir. Ti additerò una via
facile, occulta e non guardata ancora,
perché ignota al tiranno. Il tuo sembiante,
simile tanto al tuo germano estinto,
guidò lo stesso genitor, che oggetto
dell’altrui meraviglia e di natura
Oronte ad ingannar. Vestir potresti
le medesime spoglie e al nuovo giorno,
quando gonfio il tiran sarà d’orgoglio,
venir tu stessa a vendicarti il soglio.
                            Saggio, fedele Alcasto,
opportuno è il consiglio. Un sol momento
                                                     Deh ferma;
                             A ciò che render puote
non mi faccia pentir d’averti amato.
                                         Se non ti amassi,
non temerei di te, qualunque rischio
per me lieve saria. Ma il tuo periglio,
                                    Frena un affetto
che la gloria tradisce. Adempir voglio
Proteggeranno il mio coraggio i dei.
di virtù peregrina! Ah no, non vide
Assiria, Persia, il Termodonte, il mondo.
Che fai mio cuor! Non arrossisci? E puoi
fra perigli il tuo ben? Destati ormai;
armati di valor contro d’un empio;
segui di donna il glorioso esempio.
                                          Ogni tumulto
è sedato, o signor. Su questi altari
la tua imago sdegnar. Qual imponesti,
a’ tuoi cenni la plebe e i grandi ancora,
ognun ti teme, ognun ti cole e onora.
Or son sudditi miei. Spento Alcamene,
di Dacia il regno. Ma dov’è Artalice?
Ebbe ella pure il cenno mio; non viene?
Qual novello pretesto or la trattiene?
vedi che spunta il sol. L’ora è importuna
per femina gentil. Fu dalle guardie
siasi qual suole il feminil costume,
molto alzarsi vedrem del sole il lume.
Vanne, vanne, Tarpace; a me la guida
anche incolta ma tosto. Io su quel trono
sai che mi presta d’Artalice il nodo.
                               È sano il tuo consiglio.
Se vuoi farti temer, non dar principio
dall’estremo terror. L’odio piuttosto
questo t’acquisteria. Regola il volgo
facile incanto e necessario. Oh come
l’anime, o sire, al nuovo giogo avvezza!
l’eccesso del dolor. Vi compatisco,
d’Alcamene il destino. Abbia il dolore
però giusti confini. Il zelo vostro
Basta così; non vi avvilisca il pianto.
le medesme sembianze, i doni stessi
prodigiosa virtù. Nel di lei volto
effigie del german, nel di lei core
parte del genitor, prendete, amici,
delle vostre speranze i lieti auspici.
                   Che sarà?
                                        Tremo nel dirlo;
                                         Ah non tenermi
                                Tornar le guardie.
                                 La cerchi invano.
questo foglio tel dica; io non ho cuore.
«Artalice ad Oronte. Empio tiranno (Legge)
or contento sarai. L’ingorda sete
al germano infelice, io da me stessa
morte or or mi darò; sì, per sottrarmi
dalla regia nell’onde ora mi getto».
Vanne, vola, Tarpace. Ella, lo spero,
o non gettossi ancora o viva ancora
nuota fra l’onde. Va’, gl’astri severi
                                     Invan lo speri.
pria di recarti un sì funesto aviso.
Era appena la notte a mezzo il corso,
del pianeta notturno al dubio raggio
aprir soglia terrena. Indi dell’Istro
l’onde scuoter udì. Colà le spoglie
d’Artalice trovar. Colà il funesto
                       Che fiero colpo è questo!
contro d’un che non teme il poter vostro?
le ragioni d’un regno? Ah no, del regno
de’ numi e del destin. Popoli, io sono
il vostro re. Sarò, se mi sdegnate,
sarò il vostro tiranno. Eccomi in soglio.
d’opporsi al mio voler, se v’è chi aspiri
venga pur, ch’io l’attendo; ecco la spada. (Impugna la spada)
Che fai, signor, sovra quel soglio?
                                                              Io regno;
                                     Sì.
                                             Qual è l’audace
                                           Egli è Alcamene.
                               T’inganni; ei vive;
                                    Deliri o menti.
lo strepito guerrier che lo precede?
Eccolo; gli occhi tuoi ti faccian fede. (Si vede di lontano venir Alcamene preceduto dall’esercito)
Come! Tarpace, oh dei! Qual tradimento,
qual inganno è mai questo? (Scende impetuoso dal trono)
                                                     Ah ti deluse
                                Che mi consigli?
Ah sofrir troppo a lungo io non m’impegno.
Parmi ancor di sognar. (Piano a Tarpace)
                                            Perché, signore,
me non scegliesti ad isvenar costui? (Piano tra di loro)
Da chi men mi credea tradito io fui.
                                              (Ebbe il mio foglio?) (Piano fra di loro in distanza)
(Lo lesse e gli credé. Giovò all’inganno
il tempo, il sito e la mal chiusa soglia).
                                           E in me tu vedi,
                                      Tu, re de’ Sciti,
nella regia di Dacia? E lieto incontri
                                          Sì, quel son io.
                           (Non posso).
                                                     Ermondo, vieni,
vieni al mio sen. Posso a mia voglia alfine
pur abbracciarti. L’amicizia nostra
gioir potrà, dallo spavento immune
del tiranno destin. Sì sì, godremo
                                          Ancora io tremo. (Da sé)
lasciaci in libertà. Deggio ad Ermondo
doppo un breve riposo, il tempo e il loco.
                                        (Deh sofri ancora).
Vuoi partir? Vuoi restar? Parla; cotesto
fa di te sospettar. D’amico il nome
non ricusai da te. Saprò egualmente
la tua mente, il tuo cor. Sdegno ed affetto
infiammano a vicenda anche il mio petto.
Alcamene mirar d’Oronte in faccia.
Olà; parta ciascun. (Parte il popolo, restando poche guardie in distanza)
                                     (Che mi consigli,
sventurato mio cor? Dobbiam per sempre
perder Amasia e la speranza e il frutto
della fé, dei sospiri? Ora in Oronte
l’opportuna stagion finì, Tarpace;
anche il cauto nocchier volge la prora). (Da sé frattanto che parte il popolo)
signor, da tua pietà d’udirmi il dono.
Nacqui suddito a lui. Cangiar signore
è il mio voto però. Deh tu concedi...
Ne parlarem. Non è opportuno il loco.
(Tornami in sen la speme a poco a poco). (Parte)
dimmi infedel; dimmi incostante; accendi
il tuo volto, il tuo labro ed il tuo core.
Non più, bell’idol mio, non tormentarmi
co’ rimproveri tuoi. Li merto, è vero,
                                    Mira sin dove
l’affetto mi guidò. Stenti e perigli
per te solo incontrai. Sai s’io potevo
teco raminga o seder teco in soglio.
tant’amor, tanta fé? Per me dell’empio
sei esposta allo sdegno. Ah qual consiglio
                                           Destando Alcasto
va ne’ Daci il coraggio. Io qui l’attendo.
                                Di me disponi
il sangue spargerò. D’un bel coraggio
                                             Amami; io questo
                                Sì, mio tesoro.
Tu sei l’idolo mio; te sola adoro.
ad accendermi il cor di puro affetto;
fosti e sarai dell’amor mio. Ti è nota,
la mia fé, l’amor mio, la mia costanza.
questo regno infelice, ah non trionfi
Ed è vero, mio ben, che vivi ancora?
                                       Ah che mi chiedi?
Il mio sposo diletto, il mio Alcamene?
che trafisse il mio cor. Volea seguirti
morendo anch’io; pur mi diceva il core:
«Vive, vive il tuo bene». Idolo mio,
ma guardami, ma parla. Oh dio! Tu taci?
Ti scordasti di me? Non son io forse
più la speranza tua? Numi, sarebbe
de’ passati dolori assai maggiore.
Io t’amo sì ma ti lusinghi invano...
                                   Segui, spietato, e dimmi
                                              (È crudeltade
                                               Vieni, o signore.
Te solo attende il gran consiglio. È piena
de’ vassalli la regia. Ognun sospira
                                  Vadasi dunque
gli amici a consolar. (In atto di partire)
                                       Così mi lasci?
la segreta cagion che nel tuo cuore
forma a’ miei danni un sì fatal contrasto.
Ciò che brami saper chiedi ad Alcasto.
dimmi, Alcasto, chi a me toglie il mio bene?
(Non si avventuri il ver). Povera Amasia,
più costanza il tuo amor. Novella fiamma
                                            Oh me infelice!
Chi creduto l’avria? Poté scordarsi
de’ giuramenti suoi! Né teme l’empio
                                  Non è del tutto
teco ingrato però. Se del suo core
è costretto a privarti, ei ti provide,
                                      L’affetto mio
                                         Sì, son quell’io.
Ah perfido! T’intendo. Hai congiurato
tu pure a’ danni miei. Tu l’hai sedotto.
Mi abbandona per te. Ma l’odio mio
sempre attendi maggior. Crudele, aspetta
in mercé del tuo amor la mia vendetta.
d’una perfida stella ai neri auspici?
son minaccie ed oltraggi. Ah d’Alcamene
sapia il destin. D’ogni lusinga priva,
mirerò il suo dolor. Ma sofrir deggio,
del bell’idolo mio l’ingiusto sdegno.
Venga Tarpace. De’ nemici ancora (Parte una guardia)
s’approfitti chi può. Tal da veleno
il tuo valor, la tua fortuna, avresti
dubio a crederlo, il so. Non è codardo,
Libero venni e la mia guida è amore.
Sospetto è il condottier. Chi m’assicura
                                 Prova esebisco
d’ogni dubio maggior. T’insidia Oronte,
                               Tosto i disegni
                                  Se non m’accordi
                                    Che mai pretendi?
                                       Molto ti chiedo,
                                Tutte Alcamene,
                                    Stelle! M’inganni?
E sì tosto? E sì franco? Ah mi deludi.
M’affido a te. Sappi, signor, che Oronte
un foglio avelenò, che vuol con quello
farti perir; guardati... Oh dei! Sen viene.
Non mi lascio trovar teco da lui. (Parte)
neghi chi può. Che i fulmini degli empi,
che de’ giusti il conforto e i beni e i mali
alla mente dell’uom strane e remote
non derivin dal ciel dica chi puote.
vostra bontà; ne sarò grata; il culto
vostro promoverò. Ma che! L’audace
Amici, a’ cenni miei quivi restate.
Guardie, l’ingresso a custodir vegliate.
                                             Io temo tutto
                                          E pur dovresti
non confonderti più; nel gran consiglio,
tolerato l’accesso, avranno i Daci
in pochi accenti il mio destin raccolto. (Siede)
(Il tuo perfido cuor conosco al volto). (Da sé e siede)
                                  Parla; disposto
                                   Disse taluno:
«Crudo è d’Oronte il cor». Provò l’accusa
col regno mio che per te geme e langue,
del loro re, del genitor col sangue.
Altri disse: «È tiranno; usurpar tenta
avido i regni altrui. Minaccia, opprime,
                                         No, non mi sdegno.
di pietoso furor, de’ padri il primo:
«Egli è un empio» sclamò; «l’orme seguendo
odia il culto divin, dispreggia i numi».
Tutto non dissi ancor; fiero, spietato
chi ti chiamò, chi sconoscente, ingrato...
                                               Odimi. Io stesso
tanto ardire frenai. «Non tocca a voi»
dissi «un re giudicar. Estinse il fato
                                     Dicesti il vero.
Sì per te m’impegnai che partiresti
tosto di Dacia e che già mai pensasti
                                          Mal t’impegnasti.
                                     D’una vittoria
                                               Il so, Artalice,
                        Ma se Artalice è morta.
                                           Ah sì, nell’onde
si sommerse e perì. Qui fur trovate
le spoglie sue. Da questa loggia istessa
                           Ma che la indusse
                                               Nol so. Pretese
seguir del tuo destin... Basta; non manca
                                         Eh non ti credo.
La uccidesti tu stesso o tu l’ascondi.
(Opportuno è l’incontro). A me nol credi?
Ella stessa il vergò. Pria che la morte
ricercasse fra l’onde, a me l’ingrata
fece l’infausto don. Prendi, Alcamene,
testimonio crudel; leggilo (e mori). (Da sé)
(Fosse il foglio mortale!) Ah che m’invola
delle luci il poter la doglia estrema.
                                  Forse al mio labbro
                                   (Questo è il veleno). (Da sé)
                               Mi stanca ormai
la pertinacia tua. Leggilo. (Porge con violenza il foglio ad Artalice. Ella lo prende e si leva)
                                                 Invano
lo speri, o traditor. Guardie, serbate
testimonio crudel. So che m’insidi,
So che chiusa è la morte entro quel foglio.
                                           Perfido, invano
                                  Soldati, entrate; (I soldati d’Oronte si avanzano alla porta e sforzano la guardia)
                                       Empi, fermate. (Parte delli soldati d’Ermondo pongono in fuga quelli d’Oronte, gli altri assaliscono il medesimo Oronte)
                                       (Ah son perduto).
                                              La spada
vivo non cederò! (I soldati si gettano adosso ad Oronte e lo disarmano a forza)
                                 L’indegno cada.
                                    Sì traditore,
                                                I Sciti stessi
t’aborriscono ancora. I rei disegni
                                          Empio vassallo!
                                  Sì, vanne; oh quanto
questo invitto coraggio in te mi piace!
Il tuo esempio, signor, mi rese audace. (Parte)
Guardie, il reo vi consegno. Ei custodito
qui sia da voi, sin che il tumulto ceda.
quel traditore il suo destino attenda.
Alcamene, che fai? Vieni e mi svena.
                                   No; vivi e pena.
E son barbari i Sciti! Ah qual di questa
                            Ma non è questo
trionfato ha di te, perfido, indegno,
morirai di dolor più che di sdegno.
Ah che dirmi potrai? Lo so, mi vinse
di Daccia il successor, quel ch’io non seppi
far più cauto perir, quel che scoperti
che vuoi dirmi di più! So qual tu sei.
scherno de’ miei nemici! Il re de’ Sciti
il collo piegherà? V’è ciel? V’è inferno?
un monarca infelice? Ah che vaneggio!
Sordo ciel, crudo inferno! Io perir deggio.
Ancor vivo, ancor spiro, ancor io posso
vendicar l’onte mie. Rispettar l’onde
fin dagli stessi dei. Me del mio ferro
sempre non priverà. Può darsi ancora
che all’orgoglio de’ Daci io ponga freno,
ch’io sveni il loro re. Lo spero almeno. (Si vede calar il ponte della città e fuggire i Sciti)
Odo strepito d’armi. Oh vista! Oh sorte!
Fuggono i miei soldati; e gl’inseguisce
superbo il vincitor. Dov’è una spada,
ah codardi, fermate. Ah non fia vero
che si veggan fuggir l’armi d’Oronte.
Volgete al vincitor la faccia e il brando.
Difendetevi, o Sciti, io vel comando. (Al cenno d’Oronte i Sciti voltano la faccia al nemico che si ritira ed alza il ponte. Gli Sciti restano fuori della città)
non vi avvilite ancor. Scendete al piano,
l’ordine riprendete e il fato ancora
si sperimenti, sì. Datemi un ferro;
non sarete con me sempre infelici. (Scendono al piano e si racolgono in ordine militare. Da un soldato vien presentata una spada ad Oronte)
Ma Tarpace non v’è. Quel traditore
son questi e non del re. Permetta il fato
che Alcamene sen fidi e lo tradisca,
ch’egli per man del traditor perisca.
Coraggio, o prodi; l’inimico ardito
noi viene a provocar. Eccomi; io primo
la pugna incontrerò! Voi me seguite.
risoluti morir pria di fugire. (Va con suoi soldati ad incontrar le squadre che scendono dal colle sul ponte di pietra e segue l’abbatimento fra le due nazioni collo svantaggio de’ Daci. Comparisce poi da un taglio fra’ monti Ermondo con altre squadre in soccorso de’ suoi, il quale fa piegare alla sua parte la sorte colla rotta totale de’ Sciti. Nel calor della pugna tutti si sviano per le scene; indi esce Oronte solo colla spada rotta)
Ah sorte iniqua! Ah scelerate stelle!
Che volete di più? Sì sì, son vinto.
Non v’è più scampo. Ho già perduta affatto
la ragion di sperar. Quella mi resta
lo strumento ne sia... Ma gl’inimici
vuo’ che sian le mie membra, anzi che spoglie
S’arresti, Alcasto, il traditor che fugge. (Alcasto con alcuni soldati arresta Oronte)
                             Mira fra lacci
                                  Fra sue catene
                                          Oh mio rossore!
Oh morte ingrata! Oh miserabil vita! (Vien condotto dalle guardie in città scortato da Alcasto e soldati)
vincitori, miei fidi; ite alla reggia,
preccedete i miei passi. Oggi destino
utile al regno e non celato invano. (L’esercito marchia verso la città)
dobbiam la nostra sorte; ah tu togliesti
di mano al vincitor la sua vittoria.
Ma il valor del mio braccio è sol tua gloria.
                                 Vieni, mio caro,
abbia il pegno primier di sua mercede.
Tutto il regno n’esulta; e solo Amasia
piagnerà, fremerà? Negletta, offesa
che le belle speranze empio m’invola,
che col nome di sposa ora ti chiami.
                       Come! Non può la sorte
                                        Lo può Alcamene;
lo può il tuo re. Premio della mia fede,
la tua destra, il tuo cuor, sì mi concede.
ceda altrui la mia destra ed il mio cuore?
cara il tuo amor? Rispondi e mi consola,
                                          Lasciami sola.
Sì sì, t’appagherò. Pensaci, Amasia,
è di dover. L’esempio d’Alcamene,
insegni a serbar fede anche al tuo core.
della mia fedeltà l’amante infido.
Mi scordarò d’averlo amato. Il nome
Ah che il labro lo disse e non il core.
Che pretende da me? V’è speme, Alcasto,
                                           Sperarlo è vano.
Farlo non può; vieni e saprai l’arcano.
senza regno in un punto e senza sposo?
lusingar tu non puoi, quella di sposo
                                So che vuoi dirmi.
                                      Ma non ardisco.
                                                 In poter nostro
                                  Ah se placarti
                                            Lasciami. Parti.
è tormento, è follia. Seguir un core
è inganno, è vanità. Cangiar affetto
qual per fugir dal cacciatore infido
cangia l’accorto augello il ramo e il nido.
le radici potrei? Dubia quest’alma
ora l’odio, or l’amor, lascia e ripiglia.
Nume, pietoso Amor, tu mi consiglia.
scettro e corona. (Sale in trono. Due guardie partono)
                                 Della Dacia al regno
mai diè la sorte un successor più degno.
                                (Barbara sorte!) (Volge le spalle al trono senza mai guardar Artalice)
Oronte, alfin sei vinto. Il tuo destino
pende dal mio voler. Ramenta, indegno,
l’odio tuo, le tue trame, il tuo furore.
dalle vene del padre, indi del figlio.
Fu tuo voto il mio trono; e tosco e ferro
e ogn’altro d’empietà mezzo inumano
giugnesti a provocar, la mia difesa.
il sangue sparso ed Artalice istessa.
Giunser le voci al ciel, pugnai, ti vinsi;
odi qual man ti disarmò. Miei fidi,
sa l’eroine ancor; mirate o Daci (S’alza)
morto è Alcamene ed Artalice io sono. (Si scopre)
Stelle! Artalice? (S’aventa con impeto verso il trono ma dalle guardie vien arrestato)
                                Olà guardie frenate
                                (Che intesi! Oh dei!)
(Ah che questo è il maggior de’ scorni miei).
Questa il tuo merto, il tuo valor esigge
Altro merto non ho che quel di fede.
Qui le insegne reali; eccovi, o Daci,
eccovi il vostro re. Senza il suo braccio
non avremmo trionfato. Ei fu che seppe
la vittoria obbligar. L’illustre capo
io divido con lui, popoli, il trono.
No, voglio in faccia tua stringerlo al seno.
l’arte d’incrudelir? Non han le selve
mostro di te peggior. Non ha l’inferno
duolo simile al mio... Ma sento il core
cambiar in sen l’usato loco, il sangue
le dilatate vie. Questa è la morte.
Anche il destino i disperati ascolta.
Ove son? Con chi parlo? È questa forse
che io calpesto la terra? O le funeste
dell’Averno crudel soglie son queste?
Chi siete voi? Dov’è il monarca fiero
Ditegli, sì, che il suo potere irriti,
ch’è venuto a insultarlo il re de’ Sciti.
in carcere si chiuda. Esser potrebbe
chi togliermi tentò la vita e il regno.
                                                   Eterni dei!
Qual orror, qual spavento! Immerso Oronte
                                               A un tanto eccesso
                                      Fu Oronte istesso.
che arrestarlo vollea, di mano il ferro;
se lo immerse il crudel nel proprio seno.
                                   No, non la devi
a un empio, a un traditor. Germana, alfine
                                      Intesi, al fato
                                         Spento Alcamene,
Io crudele non son. Puoi lusingarti.
(Si prevenga). Artalice, è tempo ormai
l’accordata mercé. Mi promettesti
Dissi: «Non sarà mia»; dissi: «La cedo».
S’ella sposo ti accetta, io lo concedo.
                                        Ah sì, v’intendo;
                                     Il fato incolpa.
Duolmi del tuo dolor. Sì, mi ramento
ch’io vivo tua mercé. Di Scitia il regno
si può far tua conquista, estinto essendo
l’ultimo successor. Io, se ti aggrada,
al vuoto trono io t’apprirò la strada.
pago il fasto sarà, se non l’affetto.
non men grata mercé; se lo concedi,
                                                 Ed io gli aggiungo
le provincie assegnate a me per dote
                                    Oh me felice,
Non m’oppongo a un german che impone e regna.
cangiò faccia il destin! Le stelle alfine
mai l’innocenza il ciel, sospende, è vero,
perché il mortal, dalle sventure oppresso,

Notice: Undefined index: metrica in /home/apostolo/domains/carlogoldoni.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8

Notice: Trying to access array offset on value of type null in /home/apostolo/domains/carlogoldoni.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8