Metrica: interrogazione
934 endecasillabi (recitativo) in L'olimpiade Venezia, Rossetti, 1738 
                                           Licida, ascolta.
                                    E in chi poss’io
fuor che in me più sperar? Megacle istesso,
nel bisogno maggior! Or va’, riposa
                                     Ancor non dei
condannarlo però. Breve cammino
da Creta, ov’ei restò. L’ali alle piante
non ha Megacle alfin. Forse il tuo servo
subito nol rinvenne. Il mar frapposto
forse ritarda il suo venir. T’accheta;
in tempo giugnerà. Prescritta è l’ora
oltre il meriggio ed or non è l’aurora.
all’olimpica palma or sul mattino
dee presentarsi al tempio? Il grado, il nome,
la patria palesar? Di Giove all’ara
                                         Il so.
                                                     T’è noto
giugne tardi a compir? Vedi la schiera
de’ concorrenti atleti? Odi il festivo
tumulto pastoral? Dunque che deggio
attender più? Che più sperar?
                                                         Ma quale
                                            All’ara innanzi
                                               E poi?
                                                              Con gli altri
                                       Tu!
                                                Sì, non credi
                                          Eh, qui non giova,
prence, il saper come si tratti il brando.
Altra spezie di guerra, altr’armi ed altri
studi son questi. Ignoti nomi a noi
cesto, disco, palestra; a’ tuoi rivali
familiari esercizi. Al primo incontro
                                  Se fosse a tempo
Megacle giunto a tai contese esperto,
pugnato avria per me. Ma s’ei non viene
che far degg’io? Non si contrasta, Aminta,
oggi in Olimpia del selvaggio ulivo
la solita corona. Al vincitore
sarà premio Aristea, figlia reale
dell’invitto Clistene, onor primiero
delle greche sembianze, unica e bella
fiamma di questo cor, benché novella.
più riveder non spero. Amor non vive
                                                 E pur giurasti
                         T’intendo. In queste fole,
trattener mi vorresti. Addio.
                                                     Ma senti.
                Vedi che giunge...
                                                   Chi?
                                                               Megacle.
Parmi... No... Non è desso.
                                                 Ah, mi deridi
e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco
                                          Megacle è teco.
Vieni vieni al mio seno. Ecco risorta
                                           E sarà vero
                                         E pace e vita
                                          Come?
                                                          Pugnando
                                           Ma tu non sei
                                       No.
                                                 Quale oggetto
                                  Il mio riposo. Oh dio!
Non perdiamo i momenti. Appunto è l’ora
si raccolgono i nomi. Ah! Vola al tempio,
di’ che Licida sei. La tua venuta
inutile sarà, se più soggiorni.
Vanne. Tutto saprai, quando ritorni.
                                   Così di lui
                                        Eccomi alfine
possessor d’Aristea. Vanne, disponi
tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa
                                       Più lento, o prence,
nel fingerti felice. Ancor vi resta
molto di che temer. Potria l’inganno
esser scoperto; al paragon potrebbe
Megacle soggiacer. So ch’altre volte
fu vincitor; ma un impensato evento
so che talor confonde il vile e il forte
né sempre ha la virtù l’istessa sorte.
perpetuo dubitar. Vicino al porto
vuol ch’io tema il naufraggio! A’ dubbi suoi
non sa mai quando è l’alba o quando è sera.
torni a render felice, o principessa?
potessi ancor come dagli altri. Amica,
                                                È questo un giorno
glorioso per te. Di tua bellezza
prova aver più sicura? A conquistarti
tutto il fior della Grecia oggi s’espone.
Ma chi bramo non v’è. Deh si proponga
al nostro ragionar. Dimmi, Licori.
riprendi e parla. Incominciasti un giorno
a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo
di proseguirgli. Il mio dolor seduci,
i miei tormenti in rammentando i tuoi.
Se avran tanta virtù, senza mercede
non va la mia costanza. A te già dissi
che Argene è il nome mio, che in Creta io nacqui
d’illustre sangue e che gli affetti miei
fur più nobili ancor de’ miei natali.
ecco il principio. Del cretense soglio
fu la mia fiamma ed io la sua. Celammo
prudenti un tempo il nostro amor ma poi
l’amor s’accrebbe e, come in tutti avviene,
la prudenza scemò. Comprese alcuno
il favellar de’ nostri sguardi, ad altri
i sensi ne spiegò. Di voce in voce
il maligno romor che il re l’intese.
Se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui
vietò di più vedermi e col divieto
gliene accrebbe il desio, che aggiunge il vento
fiamme alle fiamme e più superbo un fiume
fanno gli argini opposti. Ebbro d’amore
di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno
spiega in un foglio; a me l’invia. Tradisce
la fede il messo e al re lo reca. È chiuso
il mio povero amante. A me s’impone
porga la destra. Io lo ricuso. Ogniuno
contro me si dichiara. Il re minaccia,
mi condannan gli amici, il padre mio
vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo
al mio caso non trovo. Il men funesto
credo il più saggio e l’eseguisco. Ignota
in Elide pervenni. In queste selve
mi proposi abitar. Qui fra pastori
pastorella mi finsi; or son Licori.
fido in sen di Licori il cor d’Argene.
Inver mi fai pietà. Ma la tua fuga
non approvo però. Donzella e sola
                            Dunque dovea la mano
                                  Megacle! (Oh nome!)
                                           Era lo sposo
questi che il re mi destinò. Dovea
                                  Ne sai la patria?
                                                                  Atene.
                                                 Amor vel trasse,
com’ei stesso dicea, ramingo, afflitto.
da stuol di masnadieri e oppresso ormai
la vita vi perdea. Licida a sorte
vi si avvene e ’l salvò. Quindi fra loro
fidi amici fur sempre. Amico al figlio,
fu noto al padre e dal reale impero
destinato mi fu, perché straniero.
                                   Io l’ho presente. Avea
bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri
vermigli sì ma tumidetti, e forse
lenti e pietosi, un arrossir frequente,
un soave parlar... Ma... Principessa
tu cambi di color! Che avvenne?
                                                            Oh dio!
Quel Megacle che pingi è l’idol mio!
lunga stagion già mio segreto amante,
niegommi il padre mio né volle mai
ascoltarlo una volta. Ei disperato
da me partì; più nol rividi. E in questo
punto da te so de’ suoi casi il resto.
                                   Ah s’ei sapesse
ch’oggi per me qui si combatte!
                                                           In Creta
a lui voli un tuo servo e tu procura
                                 Come?
                                                 Clistene
è pur tuo padre; ei qui presiede eletto
arbitro delle cose; ei può se vuole...
                                             E ben, Clistene
                                 Fermati. Ei viene.
Figlia, tutto è compito. I nomi accolti,
le vittime svenate, al gran cimento
l’ora prescritta. E più la pugna ormai,
della pubblica fé, dell’onor mio
                                     (Speranze, addio).
io ti darei se ti dicessi tutti
quei che a pugnar per te vengono a gara.
v’è Clearco di Sparta, Ati di Tebe,
Erilo di Corinto e fin di Creta
                           Chi?
                                       Licida, il figlio
                              Ei pur mi brama?
                                                                 Ei viene
                                        (Ah, si scordò d’Argene).
                                   Ah questa pugna, o padre,
                         Un impossibil chiedi;
dissi perché. Ma la cagion non trovo
                              A divenir soggette
sempre v’è tempo. È d’imeneo per noi
pesante il giogo e già senz’esso abbiamo
nella nostra servil sorte infelice.
Dice ogniuna così ma il ver non dice.
                                          Amica, addio.
Convien ch’io siegua il padre. Ah tu che puoi
se pietosa pur sei come sei bella,
cerca, recami, oh dio, qualche novella.
già di me si scordò! Povera Argene,
a che mai ti serbar le stelle irate!
inesperte donzelle. Ecco lo stile
de’ lunsighieri amanti. Ogniun vi chiama
suo ben, sua vita e suo tesoro; ogniuno
vaneggia il dì, veglia le notti; han l’arte
di lagrimar, d’impallidir; talvolta
voglian morir fra gli amorosi affanni.
Guardatevi da lor; son tutti inganni.
               Amico.
                               Eccomi a te.
                                                        Compisti...
Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio
per te mi presentai. Per te fra poco
vado al cimento. Or fin che ’l noto segno
della pugna si dia, spiegar mi puoi
                                         Oh, se tu vinci
non ha di me più fortunato amante
                                         Perché?
                                                          Promessa
è una real beltà. La vidi appena
che n’arsi e la bramai. Ma poco esperto
                                      Intendo. Io deggio
                                     Sì. Chiedi poi
la mia vita, il mio sangue, il regno mio,
tutto, o Megacle amato, io t’offro e tutto
                                     Di tanti, o prence,
al grato servo, al fido amico. Io sono
memore assai de’ doni tuoi; rammento
la vita che mi desti. Avrai la sposa;
speralo pur. Nella palestra elea
non entro pellegrin. Bevve altre volte
i miei sudori. Ed il silvestre ulivo
un insolito fregio. Io più sicuro
mai di vincer non fui. Desio d’onore,
stimoli d’amistà mi fan più forte.
d’esser già nell’agon. Gl’emuli al fianco
mi sento già, già gli precorro e asperso
dell’olimpica polve il crine, il volto
del volgo spettator gl’applausi ascolto.
                                  Che?
                                              Chiamo a nome
                          Ed Aristea si chiama?
                    Altro ne sai?
                                             Presso a Corinto
nacque in riva all’Asopo. Al re Clistene
                        (Aimè. Questa è il mio bene).
                 Ed è tua speranza e tuo conforto
                          Sola Aristea.
                                                   (Son morto).
Non ti stupir. Quando vedrai quel volto
forse mi scuserai. D’esserne amanti
non avrebbon rossore i numi istessi.
                                        Oh se tu vinci!
Chi più lieto di me? Megacle istesso
quanto mai ne godrà! Di’, non avrai
                                           Grande.
                                                             Il momento
Megacle di’, non ti parrà felice?
                                          Tu non vorrai
                                   (Che pena!)
                                                            Parla.
Sì. Come vuoi. (Qual nuova spezie è questa
                                            Oh quanto il giorno
lungo è per me! Che l’aspettare uccida
                                          Lo so; lo credo.
già l’avvenir, già col desio possiedo
                            (Ah questo è troppo).
                                                                     E parmi...
Ma taci. Assai dicesti. Amico io sono,
                   Perché ti sdegni? In che t’offendo?
(Imprudente, che feci!) Il mio trasporto
è desio di servirti. Io stanco arrivo
dal cammin lungo; ho da pugnar; mi resta
picciol tempo al riposo e tu mel togli.
                                     Il mio rispetto.
                                          Sì.
                                                  Brami altrove
                         No.
                                   Rimaner ti piace
                                         Sì.
                                                 Restar degg’io?
          (Strana voglia!) E ben, riposa. Addio.
Che intesi, eterni dei! Quale improvviso
fulmine mi colpì! L’anima mia
dunque fia d’altri! E ho da condurla io stesso
in braccio al mio rival! Ma quel rivale
è il caro amico. Ah quali nomi unisce
per mio strazio la sorte! Eh che non sono
le leggi d’amistà. Perdoni il prence,
ancor io sono amante. Il domandarmi
ch’io gli ceda Aristea non è diverso
dal chiedermi la vita. E questa vita
di Licida non è? Non fu suo dono?
Non respiro per lui? Megacle ingrato
e dubitar potresti? Ah se ti vede
con questa in volto infame macchia e rea
ha ragion d’abborrirti anche Aristea.
No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto,
obblighi d’amistà, pegni di fede,
gratitudine, onore. Altro non temo
che il volto del mio ben. Questo s’eviti
formidabile incontro. In faccia a lei,
misero, che farei! Palpito e sudo
confondermi, tremar... No, non potrei...
                   Chi mi sorprende?
                                                        Oh stelle!
                                                                            Oh dei!
Ah, sei pur tu. Pur ti riveggo. Oh dio,
di gioia io moro. Ed il mio petto a pena
può alternare i respiri. Oh caro, oh tanto
e richiamato invano. Udisti alfine
la povera Aristea. Tornasti e come
opportuno tornasti! Oh amor pietoso!
Oh ben sparsi finor pianti e sospiri!
                                               Megacle amato
E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto
cambiarti di color? Quel non mirarmi
che timido e confuso? E quelle a forza
lagrime trattenute? Ah più non sono
                                                     Che dici!
Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)
Ma tu mi fai gelar. Dimmi; non sai
                                                Il so.
                                                            Non vieni
                                     Sì.
                                             Perché mai
Perché... Barbari dei! (Che inferno è questo!)
dubitar di mia fé. Se ciò t’affanna,
ingiusto sei. Da che partisti, o caro,
non son rea d’un pensier. Sempre m’intesi
la tua voce nell’alma. Ho sempre avuto
il tuo volto nel cor. Mai d’altri accesa
non fui, non sono e non sarò. Vorrei...
                         Vorrei morir più tosto
che mancarti di fede un sol momento.
(Oh tormento maggior d’ogni tormento!)
                  Che posso dir?
                                               Signor, t’affretta
se a combatter venisti. Il segno è dato
che al gran cimento i concorrenti invita.
Assistetemi, o numi. Addio, mia vita.
E mi lasci così? Va’, ti perdono
                                              Ah sì gran sorte
                            Senti. Tu m’ami ancora?
                                        Fedel mi credi?
                             A conquistar mi vai?
                                   Il tuo valor primiero
                  Lo credo.
                                     E vincerai?
                                                            Lo spero.
                                   Mia vita... Addio.
                                No, bella Argene.
È pur dura la legge, onde n’è tolto
                                        Ah che sarebbe
forse pena maggior veder chi s’ama
in cimento sì grande e non potergli
porger soccorso. Esser presente...
                                                             Io sono
presente ancor lontana. Anzi mi fingo
forse quel che non è. Se tu vedessi
come sta questo cor! Qui dentro, amica,
qui dentro si combatte. E più che altrove
qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi
i giudici, i rivali. Io mi figuro
questi più forti e quei men giusti. Io pruovo
ciò che or soffre il mio ben. Gli urti, le scosse,
gl’insulti, le minacce... Ah che presente
solo il ver temerei ma il mio pensiero
fa ch’io tema lontana il falso e ’l vero.
                                            Né alcuno... Oh dio!
                                         E la cagione?
                                                Alcandro, ah corri,
Fortunate novelle. Il re m’invia
nunzio felice, o principessa. Ed io...
                                     Sì, ascolta. Intorno
                                Il vincitor si chiede.
Tutto dirò. Già impazienti intorno
                                       Eh ch’io non cerco
                          Ma in ordine distinto...
                                        Licida ha vinto.
                Appunto.
                                    Il principe di Creta!
Sì, che giunse poc’anzi a queste arene.
                                         (Povera Argene!)
                                      Alcandro parti.
                             Parti. Verrò.
                                                      T’attende
                               (Che ricompensa ingrata!)
v’è sotto il ciel chi possa dirsi, oh dio,
                                    Sì. Vi son io.
provar mai le mie pene. Ah tu non sai
qual perdita è la mia; quanto mi costa
                                              E tu non senti,
non comprendi abbastanza i miei tormenti.
                                        Eterni dei!
                                      Vendetta almeno,
                                      Argene, e come
                                             I neri inganni
dunque ancor tu venisti? A saggio invero
regolator commise il re di Creta
di Licida la cura! Ecco i bei frutti
di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta,
d’andarne altier. Chi vuol saper appieno
se fu attento il cultor, guardi il terreno.
(Tutto già sa). Non da’ consigli miei...
v’è giustizia per tutti e si ritrova
talvolta anche nel mondo. Io chiederolla
agli uomini, agli dei. S’ei non ha fede
ritegni io non avrò. Vuo’ che Clistene,
sappia ch’è un traditore. Acciò per tutto
questa infamia lo siegua. Acciò che ogniuno
e con orrore a chi nol sa l’additi.
degni d’Argene. Un consigliero infido
anche giusto è lo sdegno. Io nel tuo caso
più dolci mezzi adoprerei. Procura
ch’e’ ti rivegga; a lui favella, a lui
le promesse rammenta. È sempre meglio
                                             E credi, Aminta,
                                            Lo spero; alfine
fosti l’idolo suo. Per te languiva,
delirava per te. Non ti sovviene
Tutto per pena mia, tutto rammento.
Insana gioventù, qualora esposta
ti veggo tanto agl’impeti d’amore,
di mia vecchiezza io mi consolo e rido.
chi sta per naufragar. Non che ne alletti
il danno altrui ma sol perché l’aspetto
d’un mal che non si soffre è dolce oggetto.
non ha le sue tempeste? Ah che purtroppo
ha le sue proprie e dal timor dell’altre
sciolta non è. Son le follie diverse
ma folle è ognuno. E a suo piacer ne aggira
l’odio o l’amor, la cupidigia o l’ira.
che in mezzo a tanta gloria umil ti stai,
lascia ch’io baci e che ti stringa al seno.
che un tal figlio sortì! (Se avessi anch’io
chi sa? Sarebbe tal. Rammenti Alcandro
con qual dolor tel consegnai? Ma pure...)
(Tempo or non è di rammentar sventure).
sarà del tuo valor. S’altro donarti
Clistene può, chiedilo pur, che mai
quanto dar ti vorrei non chiederai.
(Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio
e di tenero padre. Ogni contento
è insipido per me. Di mie venture
giungergli apportator, chieder l’assenso
per queste nozze e, lui presente, in Creta
                                     Giusta è la brama.
senz’altro indugio. In vece mia rimanga
servo, compagno e condottier.
                                                        (Che volto
è quello mai! Nel rimirarlo il sangue
mi si riscuote in ogni vena!) E questi
                                           Egisto ha nome,
Creta è sua patria. Egli deriva ancora
dalla stirpe real. Ma più che il sangue
l’amicizia ne stringe e son fra noi
comuni a segno e l’allegrezza e ’l duolo
che Licida ed Egisto è un nome solo.
                                          E ben, la cura
Egisto avrà. Ma Licida non debbe
                                       Ah no. Sarebbe
pena maggior. Mi sentirei morire
nell’atto di lasciarla. Ancor da lunge
                                                Ecco che giunge.
                                All’odiose nozze
come vittima io vengo all’ara avanti.
(Sarà mio quel bel volto in pochi istanti).
Avvicinati, o figlia, ecco il tuo sposo.
                              Lo sposo mio!
                                                          Sì. Vedi
se giammai più bel nodo in ciel si strinse.
come il mio bene?... Il genitor m’inganna).
(Crede Megacle sposo e se ne affanna).
E questi, o padre, è il vincitor?
                                                         Mel chiedi?
di polve asperso? All’onorate stille
che gli rigan la fronte? A quelle foglie
                                               Io dissi il vero.
Non più dubbiezze. Ecco il consorte a cui
il ciel t’accoppia; e nol potea più degno
ottener dagli dei l’amor paterno.
                         (Che martir!)
                                                     (Che giorno eterno!)
E voi tacete! Onde il silenzio?
                                                       (Oh dio!
                                   Parlar vorrei
è la presenza mia. Severo ciglio,
rigida maestà, paterno impero
sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora
quanto increbbero a me. Restate. Io lodo
quel modesto rossor che vi trattiene.
(Sempre lo stato mio peggior diviene).
                                       (All’idol mio
è tempo ch’io mi scuopra).
                                                  (Aspetta). Oh dio!
                                            (Oh pena! Oh morte!)
                                      Il tuo silenzio, o caro,
                                            (Ardir, mio core.
Finiamo di morir). Per pochi stanti
                                        E qual ragione...
Va’. Fidati di me. Tutto conviene
                                              Ma non poss’io
                               No, più che non credi
                                        E ben. Tu ’l vuoi,
io lo farò. Poco mi scosto. Un cenno
basterà perch’io torni. Ah pensa, amico,
di che parli e per chi. Se nulla mai
feci per te, se mi sei grato e m’ami
mostralo adesso. Alla tua fida aita
la mia pace io commetto e la mia vita. (Parte)
                                        Alfin siam soli.
il mio contento esagerar; chiamarti
                                          No principessa,
non son per me. Serbali pure ad altro
                                          E il tempo è questo
di parlarmi così? Giunto è quel giorno...
Ma semplice ch’io son. Tu scherzi, o caro,
                                          Ah non t’affanni
                          Spiegati dunque.
                                                            Ascolta
ma coraggio Aristea. L’alma prepara
a dar di tua virtù la prova estrema.
Parla. Aimè! Che vuoi dirmi? Il cuor mi trema.
mille volte d’amar più che ’l sembiante
il grato cor, l’alma sincera e quella
che m’ardea nel pensier fiamma d’onore?
Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti e tale
                                    E se diverso
fosse Megacle un dì da quel che dici?
se spergiuro agli dei, se fatto ingrato
al suo benefattor morte rendesse
per la vita che n’ebbe? Avresti ancora
amor per lui? Lo soffriresti amante?
                                       E come vuoi
                                                Or sappi
se tuo sposo divien, Megacle è tale.
ecco ti svelo. Il principe di Creta
langue per te d’amor. Pietà mi chiede
e la vita mi diede. Ah principessa,
se niegarla poss’io dillo tu stessa.
                         Per lui.
                                         Perder mi vuoi...
                        Dunque io dovrò...
                                                            Tu dei
coronar l’opra mia. Sì generosa,
adorata Aristea. Seconda i moti
d’un grato cor. Sia qual io fui finora
Licida in avvenire. Amalo. È degno
di sì gran sorte il caro amico. Anch’io
e s’ei t’acquista, io non ti perdo appieno.
Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle
precipito agli abissi. Eh no; si cerchi
miglior compenso. Ah senza te la vita
                                   Bella Aristea,
contro la mia virtù. Mi costa assai
il prepararmi a sì gran passo. Un solo
                                            E di lasciarmi...
                        Hai risoluto! E quando?
                                             L’ultimo! Ingrato...
Soccorretemi o numi; il piè vacilla.
Freddo sudor mi bagna il volto e parmi
che una gelida man m’opprima il core.
mancando va. Più che a partir dimoro
Ardir. Vado, Aristea. Rimanti in pace.
                                                  È forza, o cara,
                                      E parti...
                                                         E parto
                                         Soccorso... Io... moro.
Ah l’oppresse il dolor. Cara mia speme,
bella Aristea, non avvilirti; ascolta,
Megacle è qui, non partirò. Sarai...
Che parlo? Ella non m’ode. Avete, o stelle,
più sventure per me? No, questa sola
mi restava a pruovar. Chi mi consiglia?
Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe
crudeltà, tirannia. Restar. Che giova?
Forse ad esserle sposo? E il re ingannato
e l’amico tradito e la mia fede
e l’onor mio lo soffrirebbe? Almeno
partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo
a quest’orrido passo. Ora è pietade
l’esser crudele. Addio mia vita. Addio
mia perduta speranza. Il ciel ti renda
più felice di me. Deh conservate
questa bell’opra vostra, eterni dei,
e i dì ch’io perderò donate a lei.
                                                   Intese
                           Tutto. T’affretta, o prence,
                                       Aimè! Che miro!
                                    E tu mi lasci?
                                                               Io vado...
Deh pensa ad Aristea. (Che dirà mai
quando in sé tornerà? Tutte ho presenti,
tutte le smanie sue). Licida, ah, senti.
Che laberinto è questo! Io non l’intendo.
Semiviva Aristea... Megacle afflitto...
torna agli usati uffici. Apri i bei lumi,
                                         Sposo infedele!
Ah, non dirmi così. Di mia costanza
                                            Almeno... O stelle!
                            Partì.
                                         Partì l’ingrato!
Ebbe cor di lasciarmi in questo stato!
                                  Dunque è perduta
l’amore, la pietà? Se questi iniqui
numi, i fulmini vostri in ciel che fanno?
Son fuor di me! Di’, chi t’offese, o cara,
parla. Brami vendetta? Ecco il tuo sposo,
Tu quel Licida sei! Fuggi, t’invola,
nasconditi da me. Per tua cagione,
perfido, mi ritrovo a questo passo.
E qual colpa ho commessa? Io son di sasso!
Perfido a me? Voglio seguirla e voglio
sapere almen che strano enigma è questo.
                                  Sogno o son desto!
l’abbandonata Argene. Anima ingrata,
che fu gran tempo il tuo piacer. Se pure
delle antiche sembianze orma vi resta.
mi sorprende costei? Se più mi fermo
Aristea non raggiungo). Io non intendo,
bella ninfa, i tuoi detti. Un’altra volta
                                             Indegno, ascolta.
                           Tu non m’intendi? Intendo
ben io la tua perfidia. I nuovi amori,
le frodi tue tutte riseppi e tutto
                                  Ah no. Sentimi Argene.
se tardi ti ravviso. Io mi rammento
gli antichi affetti e se tacer saprai
                             Si può soffrir di questa
ingiuria più crudel? «Chi sa» mi dici!
Invero io son la rea. Picciole pruove
le vie che m’offri a meritar perdono.
                                       Lasciami, ingrato;
                                        (Son disperato).
io non mi vidi mai. Tutto è in ruina
raggiungerla, placarla... E chi trattiene
la principessa intanto? Il solo amico
potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno
                                  Megacle è morto.
                                Come? Perché? Qual empio
sì bei giorni troncò? Trovisi; io voglio
ch’esempio di vendetta altrui ne resti.
Principe nol cercar. Tu l’uccidesti.
il ciel ch’io delirassi. Odimi. In traccia
mentre or di te venia, fra quelle piante
sento; mi fermo, al suon mi volgo e miro
prono già s’abbandona. Accorro; al petto
con l’altra il ferro svio. Ma quando al volto
pensa com’ei restò, com’io restai.
Dopo un breve stupore «Ah qual follia
io volea dirgli, ei mi prevenne: «Aminta,
dal profondo del cor. «Senza Aristea
non so viver né voglio. Ah son due lustri
che non vivo che in lei. Licida, oh dio,
m’uccide e non lo sa. Ma non m’offende,
suo dono è questa vita, ei la riprende».
                                  Fugge da me, ciò detto,
come partico stral. Vedi quel sasso,
signor, colà che il sottoposto Alfeo
signoreggia ed adombra? Egli v’ascende
in men che non balena. In mezzo al fiume
si scaglia; io grido invan. L’onda percossa
balzò, s’aperse in frettolosi giri,
si riunì, l’ascose. Il colpo, i gridi
replicaron le sponde e più nol vidi.
                                                      Almen la spoglia
vadasi a ricercar. Da’ mesti amici
questi a lui son dovuti ultimi uffici.
Dove son! Che m’avvenne? Ah dunque il cielo
rovesciò l’ire sue! Megacle, oh dio,
Megacle dove sei? Che fo nel mondo
senza di te? Rendetemi l’amico,
ingiustissimi dei. Voi mel toglieste,
lo rivoglio da voi. Se lo niegate,
barbari, a’ voti miei, dovunque ei sia,
a viva forza il rapirò. Non temo
tutti i fulmini vostri; ho cuor che basta
d’Ercole e di Teseo le vie di morte.
           Del guado estremo...
                                                  Olà.
                                                             Chi sei,
                              Regio ministro io sono.
                               Che in vergognoso esiglio
quindi lungi ti vada. Il sol cadente
                                A me tal cenno?
                                                               Impara
a mentir nome, a violar la fede,
                              Come? Ed ardisci
                        Non più. Principe, è questo
mio dover, l’ho adempito. Adempi il resto. (Parte)
il sen ti passerò... Folle che dico,
che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io,
io son lo scellerato. In queste vene
con più ragion l’immergerò. Sì, mori,
Licida sventurato... Ah perché tremi,
timida man? Chi ti ritiene? Ah questa
è ben miseria estrema. Odio la vita,
m’atterisce la morte e sento intanto
in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
da tanti affetti e sì contrari! Io stesso
minacciando tremare, arder gelando,
bramar la morte e non saper morire.
                                                Ah torna amico,
una volta in te stesso. In tuo soccorso
del pescator ch’or ti salvò dall’onde,
credimi, non avrai. Si stanca il cielo
                                          Empio soccorso,
inumana pietà! Niegar la morte
a chi vive morendo. Aminta, oh dio,
                   Non fia ver.
                                           Lasciami Argene.
                            Senza Aristea non posso,
                                         Morir vogl’io
                                           Attendi.
                                                             Ascolta.
                            Che ascoltar?
                                                       Non si ritrova
                                       Per me nel mondo
                                           Serbarmi in vita...
                                        Invan presumi.
                Senti, infelice.
                                             O stelle!
                                                               O numi!
                   Principessa!
                                            Ingrato! E tanto
s’io mi affretto a morir, tu torni in vita.
adorata Aristea, la mia sventura.
Io non posso morir. Trovo impedite
tutte le vie per cui si passa a Dite.
                                    Vi sono ancora
                                               In questo istante
                                      Come?
                                                      Che orrore!
se ’l ciel nol difendea, ne avrebbe involti!
                 Già sai che per costume antico
questo festivo dì con un solenne
sacrificio si chiude; or mentre al tempio
la sacra pompa a celebrar Clistene,
perché non so né da qual parte uscito,
ci attraversa il cammin. Non vidi mai
più terribile aspetto. Armato il braccio,
nuda la fronte avea, lacero il manto,
scomposto il crin. Dalle pupille accese
uscia torbido il guardo e per le gote
traspariva il furore. Urta, roverscia
i sorpresi custodi. Al re s’avventa:
«Mori» grida fremendo e gli alza in fronte
                                 Oh dio!
                                                  Non cangia
il re sito o color. Severo il guardo
gli ferma in faccia e in grave suon gli dice:
«Temerario! Che fai?» Vedi se il cielo
veglia in cura de’ re. Gela a que’ detti
il giovane feroce. Il braccio in alto
sospende a mezzo il colpo. Il reggio aspetto
attonito rimira, impallidisce,
incomincia a tremar, gli cade il ferro
minaccioso parea, prorompe il pianto.
                  O folle!
                                  O sconsigliato!
                                                               Ed ora
                                 Di lacci avvolto
                                           (Ah si procuri
                                   Alle richieste
nulla risponde. È reo di morte e pare
che nol sappia o nol curi. Ognior piangendo
il suo Megacle chiama; a tutti il chiede.
Lo vuol da tutti e fra’ suoi labbri, come
altro non sappia dir, sempre ha quel nome.
Più resister non posso. Al caro amico,
                                              Incauto! E quale
sarebbe il tuo disegno? Il genitore
sa che Megacle sei. Perdi te stesso,
presentandoti al re, non salvi altrui.
                                    Senti. E non stimi
consiglio assai miglior che il padre offeso
                                                Ah che di tanto
                                    Sì. Questo ancora
                              O generosa, o grande,
o pietosa Aristea. Facciano i numi
quell’alma bella in questa bella spoglia
lungamente albergar; ben lo diss’io,
quando pria ti mirai, che tu non eri
cosa mortal. Va’, mio conforto...
                                                          Ah basta;
mi costringe a voler ciò che tu vuoi.
la pietà d’Aristea. Chi sa se ’l padre
però si placherà? Troppa ragione
ha di punirlo. È ver, ma della figlia
lo vincerà l’amore. E se nol vince?
veder come l’ascolta. Argene, io voglio
                                     Ah tanta cura
non prender di costui. Vedi che il cielo
è stanco di soffrirlo. Al suo destino
Lasciar l’amico! Ah così vil non sono.
sento pietade anch’io. Tento sdegnarmi,
n’ho ragion, lo vorrei ma in mezzo all’ira,
mentre il labbro minaccia, il cor sospira.
dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato!
la mia pietà. Ma più mirar non voglio
quel volto ingannator. L’odio. Mi piace
di vederlo punir, trafitto a morte
non verserei per lui stilla di pianto.
Misero dove fuggo? Oh dì funesto!
                                    È forse estinto
                            No ma ’l sarà fra poco.
Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi
molti compagni, onde già mai non sono
                                    Or ti lusinghi.
Non v’è più che sperar. Contro di lui
gridan le leggi, il popolo congiura,
fremono i sacerdotti. Un sangue chiede
l’offesa maestà; de’ sagrifici,
che una colpa interrompa, è il delinquente
vittima necessaria. Ha già deciso
il pubblico consenso. Egli svenato
fia su l’ara di Giove. Esservi dee
l’offeso re presente e al sacerdote
                                             E non potrebbe
                                      E come? Il reo
già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori
io coronar gli vidi e il vidi, oh dio!
incaminarsi al tempio. Ah forse è giunto;
la bipenne fatal gli apre le vene.
                                      Ed Aristea non giunse?
Giunse ma nulla ottenne. Il re non vuole
che ne andavano in traccia. Or l’ascoltai
di morir per l’amico. E se non fosse
ottenuto l’avria. Ma un reo per l’altro
                              L’ha procurato almeno!
O forte! O generoso! Ed io l’ascolto
senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi
l’amistà che l’amore? Ah quali io sento
d’un’emula virtù stimoli al fianco.
Sì, rendiamoci illustri; infin che dura
parli il mondo di noi; faccia il mio caso
meraviglia e pietà né si ritrovi
chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.
Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde
tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh dio,
senza Licida io vado? Io l’educai
con sì lungo sudore. A regie fasce
io l’innalzai da sconosciuta cuna
partir così? No. Si ritorni al tempio,
dell’oltraggiato re, Licida involva
si mora di dolor ma accanto a lui.
Giovane sventurato, ecco vicino
de’ tuoi miseri dì l’ultimo istante.
Tanta pietade, e mi punisca Giove
se adombro il ver, tanta pietà mi fai
che non oso mirarti. Il ciel volesse
che potess’io dissimular l’errore.
Ma non lo posso, o figlio. Io son custode
della ragion del trono. Al braccio mio
illesa o vendicata a chi succede.
necessario è così, come penoso
il dover con misura esser pietoso.
a desiar, fuor che la vita, esponi
libero il tuo desire. Esserne io giuro
fedele esecutor. Quanto ti piace,
figlio, prescrivi e chiudi i lumi in pace.
non di giudice e re que’ detti sono,
non lo spero, nol chiedo e nol vorrei.
ch’io la vita pavento e non la morte.
pria di spirar. Già ch’ei rimase in vita,
d’abbracciarlo una volta e lieto io moro.
                            Signor tu piangi? E quale
eccessiva pietà l’alma t’ingombra?
stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,
la voce di costui nel cor mi desta
che lo risente in ogni fibra il sangue.
la cagion ne ricerco e non la trovo.
Che sarà, giusti dei, questo ch’io provo?
di verace amistà. Megacle amato,
                                     Ah qual ti trovo,
                             Il rivederti in vita
                                       E che mi giova
voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,
Licida, non andrai. Noi passeremo
ombre amiche, indivise il guado estremo.
O delle gioie mie, de’ miei martiri,
finché piacque al destin, dolce compagno,
separarci convien. Poiché siam giunti
quella destra fedel porgimi e senti;
vivi; io bramo così. Pietoso amico,
chiudimi tu di propria mano i lumi,
ricordati di me. Ritorna in Creta
al padre mio... Povero padre! A questo
preparato non sei colpo crudele.
raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto
lo raccomando a te. Se piange, il pianto
e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio.
                                    Non posso, Alcandro,
resister più. Guarda que’ volti, osserva
que’ teneri sospiri e que’ confusi
fra le lagrime alterne ultimi baci.
                                 Signor, trascorre
l’ora permessa al sacrificio.
                                                   È vero.
la vittima prendete. E voi custodi
                            Barbari. Ah voi
volete dal mio sen svelto il cor mio.
                               Ah caro prence!
                                                              Addio.
O degli uomini padre e degli dei,
il mar, la terra, il ciel, di cui ripieno
è l’universo e dalla man di cui
pende d’ogni cagione e d’ogni evento
sacra vittima accogli. Essa i funesti,
                            O insano ardir! Non sai,
                                           Anzi più grata
vengo a renderla a Giove. Una io vi reco
vittima volontaria ed innocente
                                          Qual è?
                                                           Son io.
                               (Oh mio rossor!)
                                                                Dovresti
pel più forte morir non è permesso.
per lo sposo a una sposa. In questa guisa
serbò la vita Alceste e so che poi
l’esempio suo divenne legge a noi.
                                     Ei me ne diede
in pegno la sua destra e la sua fede.
son più folle di te. D’un regio erede
né son Licori. Argene ho nome; in Creta
chiara è del sangue mio la gloria antica.
E se giurommi fé Licida il dica.
                          (È l’esser menzognero
questa volta pietà). No, non è vero.
Come! E negar lo poi? Volgiti, ingrato,
se me non vuoi. L’aureo monile è questo
ebbi da te. Ti risovvenga almeno
che di tua man me ne adornasti il seno.
                                   (Guardalo, o re).
                                                                    Dinanzi
                                  Popoli, amici,
sacri ministri, eterni dei, se pure
n’è alcun presente al sacrificio ingiusto
protesto innanzi a voi, giuro ch’io sono
morir per lui; né... Principessa ah vieni,
                                      Credimi, o padre,
                                 Dunque volete
ch’io mi riduca a delirar con voi?
Parla. Ma siano brevi i detti tuoi.
io tacerò. Van di tai fregi adorne
                                  Aimè. Che miro!
                            Se ’l riconosco? È quello
che al collo avea, quando l’esposi all’onde,
                                      Licida. (Oh dio!
Tremo da capo a piè). Licida sorgi,
                                        Però non debbe
morir per me. Fu la promessa occulta;
non ebbe effetto e col solenne rito
                                            Io chiedo solo
                              Sì.
                                      Da qual man ti venne?
                                          E questo Aminta
il genitor degli anni miei la cura.
                                               Eccolo appunto.
Rispondi e non mentir. Questo monile
                            Signor, da mano ignota
                                    Dov’eri allor?
                                                               Là dove
                                             (Ah ch’io rinvengo
qualche traccia in quel volto. Io non m’inganno.
Certo egli è desso). Ah d’un antico errore,
mio re, son reo. Deh mel perdona. Io tutto
                                 Sorgi, favella.
non esposi il bambin, pietà mi vinse.
mi venne innanzi e gliel donai, sperando
                               E quel fanciullo, Aminta,
                                          Io... (Quale arcano
                             Tu impallidisci? Parla,
empio, di’, che ne fu? Tacendo aggiungi
all’antico delitto error novello.
L’hai presente, o signor, Licida è quello.
                                 Il vero prence in fasce
finì la vita. Io, ritornato appunto
con lui bambino in Creta, al re dolente
l’offersi in dono; ei dell’estinto invece
al trono l’educò per mio consiglio.
Ah numi, ecco Filinto, ecco il mio figlio.
              Io tuo figlio?
                                        Sì. Tu mi nascesti
gemello ad Aristea. Delfo m’impose
d’esporti al mar bambino, un parricida
                                         Comprendo adesso
l’orror che mi gelò, quando la mano
                                    Adesso intendo
l’eccessiva pietà che nel mirarti
                                      Felice padre!
                                 E lo desio. D’Argene
Megacle d’Aristea vorrei consorte
ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.
Non è più reo quando è tuo figlio.
                                                              È forse
permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro
a dimostrar valor; l’unico esempio
esser degg’io di debolezza? Ah questo
di me non oda il mondo. Olà ministri,
risvegliate su l’ara il sacro fuoco.
Va’ figlio e mori. Anch’io morrò fra poco.
                                    Signor, t’arresta.
Tu non puoi condannarlo. In Sicione
sei re non in Olimpia. È scorso il giorno
a cui tu presiedesti. Il reo dipende
                                         E ben s’ascolti
dunque il pubblico voto. A pro del reo
non prego, non comando e non consiglio.

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