Metrica: interrogazione
451 endecasillabi (recitativo) in La calamita de' cuori Venezia, Fenzo, 1753 
su queste arene sconosciuta ancora
a me concedi di sua destra il dono,
che fra gli amanti il più costante io sono.
o me la prendo con un cospettone.
esser de’ qual son io, bello e vezzoso.
all’amor mio non negherà mercede.
S’ella fa conto della leggiadria,
Bellarosa senz’altro sarà mia.
                                  Ella ha saputo
accendere, incantar l’isola tutta;
ella sola è la bella, ogn’altra è brutta.
della straniera è divenuto amante.
ch’era il più fido degli amanti miei,
mi lascia e m’abbandona per colei.
                                           Il nostro sdegno
tant’altre, come noi, femine offese.
Rivoltiam contro lei tutto il paese.
e s’altr’armi non ho che mi distingua,
posso vantarmi che sto ben di lingua.
Dura cosa è l’amar, quando si prova
in amor crudeltà. Comprendo adesso
quella felicità, che mal conobbi
e son del mio rigor quasi pentita.
languiva e sospirava; ed io solea
delli sospiri suoi prendermi gioco.
spense con nuovo foco il primo ardore
ed io tardi per lui piango d’amore.
del mio duol, del mio pianto, è quella indegna.
procurar de’ miei torti aspra vendetta.
In verità, quando ci penso io rido.
tutti vogliono me. M’amano tutti;
non mi servo di studio artificiale,
tutto quel ch’ho di buono è naturale.
di dar nel genio a chi trattar mi vuole.
o da vero o da scherzo, io lodo tutti.
a far ch’io sia stimata e ben veduta
dove son forastiera e sconosciuta.
                                         (Ecco l’avaro). (Da sé)
(Amo, adoro costei quanto il denaro). (Da sé)
                                       E mio padrone.
                                       Un certo conto
fan le spese minute in capo all’anno.
Il tabacco, il caffè, la cioccolata
forman a poco a poco il precipizio.
                                       Brava, bravissima.
E son dello scialaquo inimicissima.
                                            Ehi, sentite;
sedeci in mesi tre n’ho guadagnati.
Sedeci in mesi tre sopra cinquanta?
quattro via trentadue fa centoeotto.
Più del cento per cento? Oh che bel vanto!
Io non son giunto a guadagnar mai tanto.
                                               In confidenza,
                                        E perché no?
                                      Io non lo so.
ma lo fa parer bello il suo contante.
se non rompo le braccia a più di cento.
a me piace il coraggio e la bravura.
ebbe l’ardir, mi fremon le budella,
di dir che Bellarosa non è bella.
voglio tagliar la faccia a quel briccone.
Che fierezza gentil degna d’amore!
faccia il suo conto d’esser bello e morto.
                                   E tal lo bramo.
La fierezza m’alletta ed il valore...
Armidoro gentil, mio dolce amore. (Vedendo Armidoro si cambia tutta in un tratto)
Alle morti, alle stragi, alla vendetta.
In questo petto il vostro cuor risiede.
                         Nell’amor mio fidate.
Così a me si risponde? Oh cospettone!
                                     Poverino!
Vi fo in terra cader, se caccio mano.
Già per prova lo so, siete un baggiano.
ch’io vi voglio infilzar con questa spada. (Caccia mano alla spada)
Sulla strada m’inviti e poni mano?
Ehi portate rispetto a questa stanza. (Si ritira timoroso)
                                          Rendi grazie
che ti ha difeso da una brutta botta.
                                       Oimè! Fermate.
Quella vittima dono a tua beltate.
che cangiato nel seno abbiate il core?
Che più per me voi non proviate amore?
qual premura, qual pro? Prendeste a gioco
per tant’anni il mio foco; ed or che sono
Di colei, che mi usurpa il vostro core,
Contro voi, contro tutti io la difendo.
perché vi riscaldate? (Ad Albina)
                                         Sì, crudele,
sì che v’amo e v’amai ma non vel dissi,
ma finsi non gradire il vostro affetto,
per provar se costanza avete in petto.
troppo a lungo durò. Senza il conforto
langue l’affetto e scema la costanza.
                                Sarete vendicata.
difensor generale; e col mio brando
Armidoro, che a voi mancò di fede,
getterò con un colpo al vostro piede.
che se torna ad amarmi io son contenta.
                                       Soffro con pena
ma sofro i torti della sorte ingrata.
non lascierei per un million di scudi.
Ho in materia d’onor fatti i miei studi.
quante in Levante ne suol dar la peste.
È tanto il mio dolor che non ascolto
                                         (Vien Bellarosa). (Da sé)
Questo nome d’amica or non vi giova.
                                     Oh me meschina!
                                              Egli è Armidoro.
Levarlo ad un’amica non conviene.
(Or mi vien voglia di volergli bene). (Da sé)
Armidoro vi cedo. Io n’ho degl’altri;
(Armidoro mi par ora il più bello). (Da sé)
Spero, vostra mercé, con Armidoro
(Se di meglio non trovo, ei sarà mio). (Da sé)
Queste donne, lo so, m’odiano tutte
di vincerle procuro ed obbligarle;
è difficile assai, per dire il vero.
                                         Dite, parlate.
Avanzar, inoltrar l’ardito piede?
Avanzi il piede colla gamba ancora.
                                             A lei m’inchino.
e la rosa e il giacinto... Oh bella cosa!
Che subblime pensar! Che bel concetto!
                                       In mezzo al core.
Madama... portentosa... e prelibata.
Ella ha termini scelti ed eleganti.
                                       Io mi ricordo...
sì signoria, il tenor delle mie pene.
Domandatelo, o bella, ai vostri rai.
Abbiamo il di lui cor punto e ferito. (Alterando la voce, come se parlassero gl’occhi di Bellarosa)
                                        Impertinenti,
                                           Eh già li ho intesi.
Da voi... da voi... la medicina attende.
Qual rimedio da me Cupido aspetta?
Lo voglio coltivar... Ma qui sen viene
da cui per mia cagion fu abbandonata.
so che per rovinarmi userà ogni arte;
vuo’, se posso, ascoltar tutto in disparte. (Si ritira)
                                  (E bada a strappazzar).
Così lasciarmi? Ingannarmi così?
degl’eroi formidabili nel petto.
                           A te questo.
                                                   A me che posso
Vanne, vil feminuccia, io ti perdono.
per una che si spaccia per signora
                                         Ed io sostegno
ed io me l’ho cacciata nell’idea
ch’ella sia di natali una plebea.
                                     Lingua buggiarda.
scommetto dieci scudi e li deposito.
Giuro al cielo, farò qualche sproposito.
Non si puon numerar quattro testoni.
Io non posso finir le mie canzoni.
Ecco; Belinda mi fa andar in furia.
ch’io dica Bellarosa esser plebea.
Dimostra il suo valor coi detti e i fatti.
Con voi non parlo più. Siete tre matti. (Parte)
                                    Il di lei merto
Manca sol che si sappia il suo paese.
Si disputa di voi patria e natali.
Non vi ho trovata scritta negl’annali.
dunque la patria mia? Non la nascondo.
La mia patria, signori, è in questo mondo.
e a quel che la indovina ora prometto
far di qualche finezza un regaletto.
Ho inteso, ho inteso; ho letto a chiare note
e di darle piacer l’impegno è mio.
di ricrearla con il suono e il canto. (Parte il servo)
è donna capricciosa. In questa carta,
un certo non so che maggior del sesso. (Legge il viglietto)
con un divertimento stravagante».
e di canto e di suon dolce armonia.
                                      Che bramate?
benché siate ver me stato incostante,
or che ad altra beltà giurai la fede.
Bellarosa non v’ama e a me vi cede.
Malagevol sarà forse l’impegno.
A me il contrario in questo foglio scrisse.
le dia un divertimento stravagante. (Mostrando il foglio ad Albina)
                                          L’ora s’avanza.
                                Crudo Armidoro,
                                        Cessate Albina
di sperar l’amor mio. Volgete in mente
tanto meco crudel quant’io costante.
Poss’io soffrir di più? La mia rivale
l’amante per amor scherni mi rende?
In lei sola il mio cor giubila e spera.
                                              Oh dei! Perché?
Nel suo cor non v’è fé, non v’è costanza.
Voi gettate l’amore e la speranza.
Non lo credo, non è, non sarà mai,
son di fé testimonio i suoi bei rai.
e si vanta il più caro e il più gradito.
il più caro alla bella sono io. (Mostra ad Albina un foglio)
Ebbe un foglio simil anco Armidoro
per supperar tutti i rivali amanti,
offrirle un’armonia di suoni e canti.
Cantin, suonino pur, ballino ancora,
e il mio spirito grande e i miei talenti,
per piacere al mio ben, faran portenti.
che il tempo dietro lei, pazzi, perdete?
sfidar Cupido e trionfar de’ cuori.
d’oltraggiar argomento il sesso nostro,
che più infedele il vostro e più scortese
suol l’affetto pagar con onte e offese.
egli si farà onore. E tu, Giacinto,
Qualche cosa di bello anch’io farò.
per dimani v’invito ad una giostra,
dove del vostro cor farete mostra.
                                           Per Bellarosa
per provare chi sia di lei più degno.
Ma questa sera anch’io v’invito al ballo.
Che del canto e del ballo io son maestro?
Dir a lui si potrebbe: «Al ballo, al canto,
non li posso veder. Io colle donne
io fo l’amor da uom, non da ragazzo;
spendo, son di buon cor ma le strapazzo.
vuole al fresco esalar i propri ardori.
Aure che favellaste a lui tornate;
dite che le sue voci a me son grate;
e dategli per me la buonasera. (Si ritira)
o lasciar l’avarizia ovver l’amore,
che alla famosa Bellarosa ha fatto
e che Giacinto al ballo l’ha invitata?
a questa nuova dea dell’età nostra
colla donna gentil mi farò onore.
Ha mille qualità perfette in lei.
Ma fra l’altre n’ha una ch’è un portento,
che l’amore sa far con più di cento.
corbellerà cogl’altri ancora voi.
                                       Ella m’ha tolto
e voglio certo vendicarmi anch’io.
dite quel che volete, io vi rispondo:
«Vuol Saracca, vuol voi, vuol tutto il mondo».
Chi è che d’innamorati ha tanta sete?
usurpando li andate a questa e a quella.
                                             Sì signora.
Di lui no me n’importa una patacca.
ecco qui l’amor mio. (Accennando Pignone)
                                        (Son tutto foco).
                                    Oh che linguaccia!
ma s’egli non vi vuol non so che farvi.
perché dei vostri vezzi innamorato
adorarvi vorrà, benché sprezzato.
la colpa sarà vostra e non è mia.
chi vuol incatenare un cuore amante
amorosa esser de’, non arrogante.
Non favelli d’amor chi è nato avaro.
che far pretende la dottora a noi,
farà meglio badare a’ fatti suoi.
se continuava ancor, non stavo saldo.
Io rido di costoro e lor non bado.
                                       Che?
                                                   Non li curo.
                                Avete inteso
che Armidoro col canto e con il suono
testé mi fece di letizia un dono?
                                         E che Giacinto
questa sera alla festa m’ha invitata?
È quest’ancora un’altra ragazzata.
                                          Frascherie,
                                  Ma voi, che siete
qual mi date d’amor verace segno?
                                 Oibò, la destra, il core.
Ma la destra ed il cor me l’offerisce
Ma niun, come son io, sarà costante.
soglio fede prestar sol quando vedo.
                                     Dite, parlate.
                                             No, mia cara,
Voi m’avete a mostrar il vostro scrigno.
                                    Senza denari
Non vi prendo, se scrigno non avete.
                                         Vi dirò.
Mi verrebbero presto i crini bianchi.
                                       Sì sì, sperate,
                                 Muore penando?
di conseguir la sua mercede è certo.
                                       Caro Armidoro,
Siete un bel ragazzotto e mi gradite.
e con altri son io rustica, odiosa.
m’assicura del cor né della mano.
Ah temo alfin di lusingarmi invano.
chieder di più. Temo che mi discacci,
se parlo troppo ardito, e mi contento
per conforto al mio cor, della speranza.
Se non fo ben la prego compatire. (Si suona il minuetto e lo ballano; e terminato ch’egl’è il ballerino rimette Bellarosa al suo posto)
ho assai ballato e riposarmi aspetto.
farete di ballar. (S’alza dal suo posto e va da Bellarosa)
                               Negar nol posso
al padrone di casa. (S’alza per ballare)
                                     Oh cospettaccio! (S’alza infuriata)
Dunque solo per lei si fa la festa?
                                      Sono due ore
che per star a seder ho fatto il callo
e sempre vedo la graziosa in ballo.
                                     Perdonate... (A Belinda)
Se volete ballare e voi ballate. (A Belinda)
Ho un veleno, ho una rabbia maledetta.
                                         Signor no;
Maledetto!... Direi... Basta... Non voglio
che succeda... che accada... un qualche imbroglio.
che fate un simil torto a una par mia,
che non fosse di voi noto il natale.
Una che starmi a fronte non è degna.
ed i titoli miei mostrar m’impegno.
quanto dir si potea. L’ho strappazzata,
l’ho fatta vergognar; mi son sfogata.
                                         Dir potrebbe
ma credo che non sia né men pedina.
Lo fan gl’uomini ancor per quel che veggio.
Alla piazza, alla piazza, allo steccato.
                                 Ed il trionfo
maggior, che a Bellarosa è riservato,
La giostra s’ha da far. Chi è valoroso
che l’impresa farà più bella e buona,
cento scudi, un cavallo e una corona.
e l’onor ed il premio sarà mio). (Da sé)
E noi vogliam intervenir coll’altre?
Certamente che sì. Dobbiam noi pure
finger di non pensarvi e aver pazienza.
di quella ch’ha le trentatré bellezze.
o per questo o per quel determinarsi,
liberar tutti gl’altri e maritarsi.
Dubito ch’a ciò far vi sia l’intoppo,
perché la libertà le piace troppo.
volgerò il core ad un amor più grato.
il piacer di cambiar la fiamma in petto
e l’occasion di riprovarlo aspetto.
                                      Dove!
                                                    Nol dico
Signorsì, ma è di già ben proveduta.
s’altro non vi mancasse che il cervello.
le donne ad eguagliar di questa taglia.
Voglio mostrar anch’io la mia bravura,
benché un poco in età, non ho paura.
a voi che di quest’alma il nume siete,
a voi che del mio cor l’arbitrio avete.
ed io m’impegno al più valente e prode
ricco premio donar d’applausi e lode.
                           Ma il core?
                                                  Il fortunato
e il vostro nome in mio soccorso invoco.
vi porrete cogl’altri al paragone?
che in premio al vincitor oggi si dona
cento scudi, un cavallo e una corona?
un po’ mi lascierei romper la pelle.
                                           Non lo credo;
un occhio in pace perderebbe ancora.
Giacinto, perch’è semplice e amoroso,
che lascia fare e che non è geloso.
e tosto egli è comparso. Ciò vuol dire
che qualcosa fra noi dovrà seguire.
                                          Per infallibile
sarò col braccio mio, sarò terribile.
Ma parlino in mia vece gl’occhi miei.
Ditemi il vostro sentimento espresso
e anch’io farò con voi poscia lo stesso.
A dir seguiterò... che una tal fiamma...
Basta così. Non posso andar avanti.
Vorrei che il resto continuaste a dire.
                                        Animo.
                                                        Ardire.
resister non potria lo stesso Marte.
Per sventura cadei, non per viltade,
che a cimenti maggior mia destra è usa.
a combatter con me vent’anni sono,
E mio saria dei cento scudi il dono.
non gl’incresce la gloria ma il denaro.
arda di gloria il bellico desio? (Scende dall’alto Giacinto)
                                  Olà, fermate.
combatteste il mio cor, l’avete vinto.
Io son vostra, Giacinto, e voi mio sposo.
                                Di quattro amanti
e all’avaro Pignone il suo tesoro.
Giacinto non ha impegni ed è amoroso;
non fo torto a nessun, se ’l fo mio sposo.
                                       Nacqui in Regusi,
partita per piacer dal suol natio...
Queste son cose ch’ho da saper io.
ch’altri le sapia e le direte a me.
                                      Oh che veleno!
più non sperate in me, che preso è il loco.
Son pronta, se volete, anco a sposarvi. (A Saracca)

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