Metrica: interrogazione
508 endecasillabi (recitativo) in La mascherata Venezia, Fenzo, 1751 
che state allegramente e lavoriate.
Cappari! Avete fatto il bel lavoro!
Andate a farvi dar la colazione,
io non son un padrone interessato;
a chi fa il suo dover mi mostro grato.
le tratto con amor ma se mi chiedono
non le posso pagar; non ho un quattrino.
uno di questi dì sarò fallito.
Perché la moglie mia non ha giudizio.
pransi, conversazion, maschere e gioco
hanno tutto distrutto a poco a poco.
con quelle care paroline belle
mover mi sento e le darei la pelle.
ma, se vuole denari, oh l’ha sbagliata.
un vestito più bel non ebbi mai.
da cambiar ogni giorno, se volete.
alla quale son io stata invitata.
(Oh maledetti inviti!) E quanto costa?
e drappo e guarnizion e fornimenti;
s’è stretto il conto in settecento lire.
Che ricca guarnizion fatta alla moda!
un vestito più bel non ebbi mai.
                                       L’ha fatto
                                            Ma io...
                                                            Se voi
Faccia pur come vuol, che non importa.
                                     Questo è un affronto,
che a noi fa il sarto, e il soffriremo in pace?
                                    Ma se mi piace.
                                            Ma se lo voglio.
                                                 (Se avessi
Moglie mia... moglie mia... se voi sapeste...
                                       Io... v’adoro...
Moglie mia, moglie mia, non ho denaro.
le settecento lire s’han da spendere;
l’abito mi sodisfa e si ha da prendere.
Io da vender non ho né da impegnare;
Chi ha giudizio il denar se lo tien caro.
Cos’è questo rumor? Deh perdonate,
D’entrar ne’ fatti vostri io non pretendo.
                                        Caro Leandro,
                                  Cos’è stato?
Sapete che per voi son impegnato.
Nulla, nulla, signore. (Ehi Lucrezia,
non mi fate restare svergognato).
                                          Vi dirò.
                                           (Ehi). (Fa cenno a Lucrezia che non parli)
                                                         Ha pagato
E per dirla com’è, non ha denari.
questa mane denari in quantità.
Eh non importa, il sarto aspetterà.
                                           Quanto ha d’avere?
A questa cosa rimediar si puole.
Il conto è lire settecento sole.
onde il marito mio può far, può dire,
ch’io lo voglio, se credo di morire.
Questo «voglio», signora, è un poco duro.
Non si puole cavar sangue da un muro.
                      Indiscreta!
                                             State cheti.
                                       Caro Leandro,
(Ed io dovrò sofrir...) Eh non signore...
                                       (Olà, tacete,
questa volta non fate da marito).
c’è bisogno di farsi vergognare
(Sì signore, così son avvezzata).
chi l’ha avvezzata sono stato io).
aggiustarla con poco). Via, Lugrezia,
                                    Ehi monsieur,
venite col vestito. Eccolo qui. (Entra il sarto col vestito)
un vestito più bel non ebbi mai.
a conto del vestito di madama.
e il resto del denar vi porterò. (Il sarto s’inchina; lascia il vestito e parte)
Vi sono obbligatissima; e il denaro
che avete dato per il mio vestito
vi sarà reso poi da mio marito.
(Sì sì, gli sarà reso; aspetti pure).
persuasa del mio vero rispetto
e dirò ancor del mio sincero affetto.
Affetto? Voi non siete suo parente.
Non si può voler ben senza malizia?
oggi si deve fare; Aurelia e Silvio,
ci attendono quest’oggi a casa loro.
e potrò forse, come il mio cor brama,
con grazia di monsieur servir madama.
parmi si prenda troppa confidenza.
Dieci doppie pagar per una donna
cosa non mi rassembra indifferente.
Quest’è un favor che non conclude niente.
                                          Via, spiegatevi.
Lasciatemi tacere e contentatevi.
                                      È meglio assai
ch’io tacia per sfugir qualch’altro imbroglio.
si può dire che sia quasi obbligata.
ma io per dieci doppie non mi vendo.
non lo posso veder in casa mia.
ve potete fidar della mia fede
ve la farei sugl’ochi. Hanno le donne
e chi ci studia più men la indovina.
le sue parole m’hanno sodisfatto
ma dal fare al parlar v’è un lungo tratto.
Ho da fidarmi? Perché no? Mi dice
che fedele sarà? Ma! Le ho da credere?
Qualche imbroglietto non potria succedere?
cosa mi vien in testa? Adagio un poco.
con una bella donna in compagnia;
cosa succederia! Dirlo non so.
in compagnia d’un giovine sarà,
Questa mi par filosofia massiccia.
Lucrezia vorrà certo mascherarsi
con Leandro e dovrò portar pazienza.
Forse peggio sarà. Sì sì, risolvo,
per quietarla e veder il fatto mio,
andar con essa mascherato anch’io.
poiché un bel cavalier, come voi siete,
in cui ogni virtude alberga e regna,
per sua consorte prenderla si degna.
abbondare solete in gentilezza,
come siete abbondante di bellezza.
                                           Io dico il vero.
quest’amante mio cor ferito fu,
forse voi mi piacete ancora più.
ch’ella forse di me saria gelosa.
                                        Eh via tacete.
                                      Che diavol dite,
voi dovete sposar la mia nipote.
come puole il nipote amar la zia.
non è ancora concluso il matrimonio
                                          Via, seguitate.
Ho paura, briccon, che mi burlate.
                                            (In sul più bello
sfugindo di star meco in compagnia.
S’egli meco sen sta, che male c’è?
Sino che sta con voi, non sta con me.
(Se lo dico; è gelosa). (Piano a Silvio)
                                         (E con ragione,
siete più vaga e più gentil d’aspetto).
(E pur è ver; tutti me l’hanno detto).
Quei segreti discorsi cosa sono.
Discoretene meco e non con lei.
(È ver, ma questa cosa non mi piace).
Già lo so che mal penso e mal ragiono
ma, perché v’amo assai, gelosa io sono. (Piano a Silvio)
tormento il vostro amor ma gioia e pace;
amar contento e non penar mi piace.
la signora Vittoria e Silvio mio?
che per farvi piacer Silvio ha ordinata.
                                   Sì, certamente.
Io ho mandato a invitar diversa gente.
                                         Or ve lo dico.
che va sempre con lei, come sapete.
                                      Io non lo so
ma crederei di no. Avremo ancora
per farla comparir di bell’aspetto,
le ha comprate le mosche ed il belletto.
                                       Questo si sa;
senza l’amante in maschera non va.
La buona vecchia se ne resta in casa.
uno di questi dì sarà fallito.
di condursi tre o quattro cicisbei.
per aver colla moglie un po’ di pace.
                                    Io non saprei
E credetemi pur, nipote cara,
che v’è quasi per tutto la sua tara.
forse diversamente pensarete.
a cui fida esser dee sino alla morte.
d’indole buona e piena d’onestà;
ma l’uso e il praticar la guasterà.
e i mariti a cui piace l’allegria
lascian andar le mogli in compagnia.
chi ama due donne puol amarne sei.
di terminar la dura vedovanza.
L’ho fatta a scola invece di lezione.
                                                 Male assai.
Ed io da che restai senza marito
ho perduto perfino l’appetito.
ch’ardo d’amore e l’appetito cresce.
Le cose fra di noi aggiusteremo.
voi pure nella nostra mascherata.
che possa star cogli altri in compagnia.
                                       Lo troverete,
da quei che a nolo li vestiti danno.
                                 Che dubbio avete?
                                       Via parlate,
Per l’abito pagar non ho un quattrino.
Oh povero ragazzo! Non importa,
Son confuso fra il gusto e la vergogna.
                                        Assai, assai.
                                     Oh questo mai.
e voi siete la mia dolce speranza.
ma poi gli affetti suoi mi riescon cari
perché, oltre l’amor, mi dà i denari.
di chi spende per farsi voler bene.
Le donne che da noi regali bramano
perché l’amante mia m’ha regalato.
                                       Io sono a parte
Oh voi siete padron di casa mia.
Servo suo, mia signora. (A Vittoria)
                                             Riverisco.
                                     Bene, e voi?
Così e così. Signor Leandro, e lei?
                                              Mi ralegro.
(E a me nessuno non abbada un corno).
Servo di lor signori. Oh benvenuta
Ehi, signora Vittoria, riverisco.
(Ed a me niente? Io non la capisco).
(Ho trovato il vestito). (Piano a Vittoria)
                                           (Bravo).
                                                             Ormai,
Qui abbiam fatti portar gl’abiti nostri,
                                  In qual maniera
                                    Da fiorentina.
                                   Brava, brava.
                                                        Ed io ho l’onore
                                     Ed io sarò
fra lor signori un barba Nicolò.
                                          E che figura
Fate quella figura che vi pare.
Voglio far la figura di marito.
sapia che con mia moglie vuo’ andar io.
io faccio riverenza a lor padroni.
fra lui e me discorrerem del resto. (Parte)
(Sì sì, le dieci doppie, l’ho capito). (Da sé)
simile debolezza in uomo tale. (A Beltrame)
Signora mia non sono uno stivale.
                      Indiscreta!
                                             Oh pazza! (A Lucrezia)
                                                                  Oh sciocco! (A Beltrame)
                     Riverisco.
                                          Addio.
                                                         Padroni.
                    Vada pur.
                                         Scusi.
                                                       Perdoni. (Tutti s’avviano per partire; poi ognuno si ferma alla scena)
i raggi vostri m’han scaldato il petto.
Mi fugirete voi qual dal suo nume
Io d’Appollo sarò compagna e sposa.
siora ninfa gentil, caro mio nume
nualtri no volemo farve lume.
dove notre graziose mascherate
finirà col plaisir joli jornate.
ganzare col mi caro Becolino.
Jo, fol fenir mi pelle florentine.
ie pen parle toscane, non farluche;
star tatesche ma nain star mamaluche.
Madam, doné la main. (A Lucrezia)
                                            Eh bene mio,
                                         Voi siete sposo
                                             Je fer pretendo
Obregato, monsù, faraggio io.
No ve arecordé più del nostro patto?
Via, caveve de qua, sier vechio matto.
non vi state per poco a scorucciare.
può darne, se sa far il su dovere,
una al marito e l’altra al cavaliere.
Sì ben, la dixe ben. Tolé, mario.
A vu la dreta, perché sé el mio amor
ballerem la frullana ed il trescone.
ma prime da pallar, foller trincar.
                                      Tante, tante,
fostre singolarie foler sposare
e lustiche foler pallar, cantare.
Veneziana gentil, bella voi siete.
In verità stasera mi no ceno.
possa parlar sì ben da veneziana.
tutti quanti la burla i me daria.
che a Venezia più volte siate stata
e che sia quella lingua a voi diletta.
Cara Venezia! Siela benedetta.
Cara Venezia, benedetta, tiò.
grata memoria di città sì bella.
deh non negate ai vostri servitori.
                                        Voi trovarete
                                          Sì, caro fio.
el qual, per dirve tutto in confidenza,
me tratta, poveretto, a sufficienza.
e aveste da sposar uno di noi,
diteci il ver, chi sposereste voi?
perché, se ve dirò la verità,
me manderà qualcun de là da Stra.
se me mandé, mi ve stramanderò.
                                       Ella a dir vero
                                Col suo bel spirito,
                                    Per qual motivo?
di quella veneziana mascheretta
piacere vi darà più della mia.
                                             Eh non temete.
Tutto vi lascio far quel che volete.
                                       E con ragione.
trattato ha sempre mai modestamente.
Siete d’accordo, non vi credo niente.
dalla vostra signora che vi aspetta.
mi volete veder dunque morire?
Voi mi fate provar tormenti e pene.
(Due lagrime talvolta fanno bene).
                                               Io vostro sono.
                                        Vi perdono.
il cor nel seno giubilar mi sento.
rimprovera da scaltro i miei sospetti.
d’una importuna, ingiusta gelosia.
                                    Io vel dirò,
                                         Ascolterò.
ogni vano sospetto, ogni timore.
mi tormenta la cruda gelosia.
Io non ne posso più. Questa mia moglie
e quasi non so dir s’ella sia mia.
Fintanto ch’era un solo il suo servente
e loco pel marito più non c’è.
Parla, grida, strappazza, è già tutt’uno,
ti burlan tutti e non t’ascolta alcuno.
far quel che gli altri fanno anch’io con lei.
con il pretesto della mascherata,
introdurmi a trattar la vedovina. (Prende una chitarra che trovasi sul tavolino e accostandosi alla porta della stanza canta la seguente canzonetta in lingua napolitana)
con questo cantucciar sì dilettevole
ma il dir napolitano gi è stucchevole.
veramente rassembra cosa rara.
Dunque parliam la nostra lingua usata.
purché parlar con voi mi permettete
parlerò in qual linguaggio voi volete.
                                                E se mia moglie
sta discorrendo coi serventi suoi,
non potrei far lo stesso anch’io con voi?
Cicisbear con me? Voi la sbagliate.
come la vostra cara Lucrezina.
in me non ho d’incatenare i cori
né so far spasimar gli adoratori.
io spasimo per voi. Son... Figuratevi,
che il sorcio vede e graffignarlo aspira
ma gli scappa di mano ed ei sospira.
                                   Son come un cane
che distana la lepre e corre e corre
e poi la perde e di furor ripieno
per la rabbia e il dolor morde il terreno.
                                     Son come un lupo
che va per divorar la pecorella.
e il povero minchion parte affamato.
Io sorcio sono e lepre e pecorella
so derider il lupo, il cane e il gatto.
ma sempre più voi mi piacete meno.
la vostra buona grazia? Anch’io vorrei
anch’io, Vittoria mia, vorrei far pari.
gli uomini dalle donne amar si fanno?
Ascoltatemi ben. Ve lo dirò.
se il modo non vi è da regalare,
Io che la tasca ho rotta e rifinita
mi posso a voglia mia lecar le dita.
Colle donne non trovo da far bene
Vuo’ far cogli altri quel che fan con me.
Ecco la vezzosetta in mezzo a due.
Obbligata, obbligata, non s’incomodi.
Ho quest’onore di servirla anch’io.
non importa se fossero anche venti.
Sono, signora sì, sono sguaiati.
Bello signor Leandro, io v’ho nel cuore.
                                       Un po’ più in là.
                      Padron.
                                       Troppa bontà.
Oh che m’avete rotto il chittarino.
Di soffrirlo mi son quasi annoiato). (Parte)
                                       Schiavo suo.
E così rispondete a chi vi onora?
                               Oh che tormento!
Parlate, col malan che ’l ciel vi dia.
Ed ancor mi corbella! Eh giuro al cielo,
                                         Bella figura
                                 Bei complimenti
che mi fanno, signora, i suoi serventi!
Maledetta pur sia la vostra razza.
La mia razza, signora, è bella e buona.
                                                No, non faccia,
perché a voi ho voluto troppo bene.
e per vostra cagion non penerei.
                                        Il sangue istesso
                                       Barbaro!
                                                          Ingrata.
Perché son troppo buono, il torto è mio.
che un marito crudele... Oimè mi sento
stringere il cor; non posso più.
                                                         Che avete?
                                        Oimè, Lucrezia.
                                      Oh moglie mia.
                                      Ah sì, v’adoro.
                                   No, mio tesoro.
perch’è della sua moglie innamorato.
ma però volea far meco il grazioso.
                                      S’io secondato
egli fatto m’avria da cavaliere.
                                      Credo di no.
Andiamo tosto a ritrovar Lucrezia.
S’ella acconsente a far un po’ di chiasso,
alle spalle di lui vuo’ darvi spasso.
Due altri zecchinetti e soffro e taccio. (Parte)
ed il nostro geloso si godremo. (Parte)
Oh grand’amor è quello della moglie.
se la cara consorte piange e prega,
un uomo di buon cor nulla a lei nega.
benché cosa mi chieda un poco dura,
d’ottener quel che vuol da me è sicura.
Per non vederla a piangere e creppare,
convien dov’ella vuol lasciarla andare.
Oh cara la mia zia, mi consolate.
che si faccian le nozze in questa sera?
voglio far presto quel che s’ha da fare.
                                        Contentissimo;
                                           Lo credo
scherzar con donne e darmi gelosia.
Eh che Silvio lo fa per bizzaria.
tormentarmi di più. Contenta or sono,
delle gioie d’amor sospiro il dono.
ma se lieta sarà, non sarà sola.
due piccioni a una fava pigliaremo;
un viaggio e due servizi noi faremo.
Presto, per carità, datemi un laccio,
E perché mai cotal disperazione?
tutto, tutto il negozio e il capitale.
Oh senza capital starete male.
Non so come mi far; non v’è rimedio.
tutta la mia rovina tu sei stata.
Il pazzo siete voi che secondata
avete in essa l’ambizion del sesso.
Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.
mi prendono legato e m’imprigionano.
domani pagherò, non son fallito;
non si fan questi affronti ad un mio pari. (Parte il creditore)
Oh son pur imbrogliato. Eccone un altro. (Un altro creditore gli presenta un altro conto)
io me l’ero scordato. Ho nelle mani
il suo denaro e pagherò domani. (Parte il creditore)
una sì gran vergogna? Il terzo è qui. (Un altro creditore fa lo stesso)
e domani senz’altro pagherò. (Parte il creditore)
Ve n’è più, ve n’è più? Sian maledetti,
Oh diavolo che vedo? Ecco qui il quarto. (Un altro creditore fa lo stesso)
Ho inteso, mio padron, senza che parli;
domani pagherò. Vada pur via.
per non farmi arrosir, son stati muti.
che vorranno ancor esse i lor contanti. (Vengono quattro donne lavoranti e cantano come segue)
(Gl’uomini andati son senza parlare
e le femine chete non puon stare.
burlar costoro coll’ingegno mio).
sono contento almen che le ho burlate.
da costoro per ora, ah come mai
liberarmi potrò da tanti e tanti
che a chieder mi verran robba o contanti?
Io non so come escir di questa casa.
e mi spaventa il foro criminale.
necessario è venire a qualche patto.
S’ha da far una nuova mascherata?
La chiave dello scrigno è preparata.
                                        Oh mi perdoni.
                                         Via parli lei.
                                        La sua dote?
L’avete in quattro giorni divorata.
gl’abiti venderem che abbiamo intorno.
                  Altro rimedio non ci trovo.
                 E poi mostrar il mondo nuovo.
                                         Oh caro amico,
rimediar ci vorrei ma far nol posso.
Di disturbar finisco il vostro sposo.
Or di me non sarete più geloso. (A Beltrame)
No, caro amico, non ci abbandonate.
non fate che il bisogno vi tradisca,
ho servita Lucrezia onestamente,
dar si potrebbe che l’onesto affetto
potesse nel mio cor cangiar d’aspetto.
Di soccorrerci anch’egli s’è stancato.
A che pensier v’appigliereste voi?
come volete voi ch’io mi difenda?
Ognun dal canto suo cura si prenda.
Superato è l’amor dall’apetito.
                                     Me ne dispiace.
Ma se abbiamo a star male tutti due,
è meglio che procuri star ben io.
Ecco qui il bell’amor della consorte,
sinché il marito può saziar sue voglie.
delle vostre sventure il grave peso.
                                      Se volete,
v’impiegherò, se non l’avete a male,
a far per casa mia lo scritturale.
questa grazia a drittura; a Roma dunque
ch’io vi rivederò ben le scritture.
Egli mi fa pietà. Pel suo buon core
rovinar si è lasciato da sua moglie.
Misero l’uom che per sua trista sorte
si lascia dominar dalla consorte.
andar fanno le donne che comandano
e in rovina sé stesse ancora mandano.
                                         Cosa è stato?
Qual motivo vi rende sì gioioso?
Io son allegro, perché son lo sposo.
                                        Via, indovinate.
                              Bravo in fede mia;
in corpo avete voi l’astrologia.
                                        Questa sera.
che ad Aurelia ancor io porgo la mano.
Sì signor, sì signor; e voi ed io.
E l’altra e l’una e tutte due con noi.
E con quella e con questa ed io e voi.
giubilare vi fa. Deh voglia il fato
che sia la nostra brama ognor contenta,
che goda il nostro cor e non si penta.
Io non voglio pensar a tanti guai.
riderò, goderò, sin che potrò.
Che il foco duri sin che vuol durare
s’ammorzi, che impedirlo non potrò.
Ma intanto che arde ben, mi scalderò.
                                          Ed io l’accetto
e amor e fedeltade a voi prometto.
Promesse che al dì d’oggi veramente
non si soglion serbar sì facilmente.
                                           E voi mia sposa.
                                     Che bella cosa!
                                       Io vado a Roma.
                                 Oh me infelice!
Voglio venir con voi, possibil fia
quest’ultimo piacere mi contenda?
Ognun dal canto suo cura si prenda.
                                      (Già me la ficca).
che la vostra Lucrezia poverina
senza il suo Beltramin abbia a restare.
                                            Per quelle care
                                    Andiamo, andiamo.

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