Metrica: interrogazione
397 endecasillabi (recitativo) in Arcifanfano re dei matti Venezia, Fenzo, 1750 
che voglion diventar sudditi nostri?
Vengano pur ma acciò scoprir io possa
come l’intende la lor mente stolta,
fateli a me venire uno alla volta. (I due servi s’avviano verso la collina)
perché crescono i pazzi piucché mai.
e fo col mio valor tremar il mondo.
                                              Fo professione
Anch’io, quando mi vien la mosca al naso,
ch’hanno molte parole e pochi fatti.
V’accetto nel mio regno e poiché siete
Accetto il grande impegno; e se qualcuno
fracasserò, se occorre, anco la porta.
perché siete venuto in questo regno?
Qui m’ha fatto venir l’ira, lo sdegno.
gente perfida e vil, senza rossore.
m’han fatto delirare e son venuto
Quest’è un pazzo infelice e sfortunato,
che sia meglio negozio esser poltrone. (Trattanto scende madama Gloriosa servita dai due servi e va al trono)
                                            Son io,
Una donna mia pari non s’inchina.
                                         Sì signore.
Questo è un regno soggetto a molti danni
e suol durar al più sin a trent’anni.
di trentatré non me ne manca alcuna.
renderassi de’ pazzi il vasto impero.
                                        Perché il mondo
non è degno di me, perché nessuno
Ma io, che di beltà m’appello il nume,
vogl’esser adorata oltre il costume.
che non conosce e non apprezza il bello.
empirebbero presto i stati miei. (Sordidone scende dalla collina con un scrigno sotto il braccio, servito al solito)
perché alla ciera due briconi siete. (Alli due servi che si ritirano)
                                   Per avanzarmi
                                               Io non vorrei
quattromille filippi in doppie d’oro.
                                   Vi dirò.
ho prestato denar col pegno in mano.
colla mia borsa, ad aiutarlo intenta,
ho principiato a numerar dal trenta;
qui si accettano pazzi e non bricconi.
perché in tasca il denaro m’ho tenuto
Ma che volete far di quell’intrico?
né mi lasciano star notte né giorno.
Ognun mi va facendo il bello, il caro,
per rubbarmi di tasca il mio denaro.
sempre nelle mie man voi lo vedrete.
e vi farò cacciar fuor del mio regno.
                                     Sicurissimo;
giuro da re de’ pazzi arcipazzissimo.
Ahi, che vi lascio nello scrigno il core!
per secondar il vostro bell’umore,
Anderò... Ma non so... Vi raccomando
                                  Il vostro core,
Dentro quel cassettino io l’ho nascosto.
Quello de tutti i pazzi è il maggior pazzo
che a nessuno fa bene e a sé fa male.
che pazzo non rassembro ma è dovere
che il re de’ pazzi nella mente stolta
dei lucidi intervalli abbia talvolta. (Scende dalla collina Malgoverno pazzo prodigo)
perché il mio patrimonio ho consumato.
e se prima ero bello ora son brutto.
se finito è il dinaro. Anco le donne,
or che non ho denar si son cambiate.
                                            A qual motivo?
delle femine al cor bugiardo e scaltro,
siete pazzo, pazzissimo senz’altro.
tutti gli altri son savi e non ritrovo
che ha fomentato un dì la mia pazzia.
Perché voi siete il capo de’ balordi,
vi fo mastro de’ chiassi e de’ bagordi.
Grazie a vostra maestà. Tenete, amici,
che accumula con stenti il pazzo avaro. (Scende dalla collina madama Semplicina coi servi)
                                    Cos’avete,
perché non voglio che nessun mi tocchi;
e mi voglion toccar quei pazzi alocchi.
                           Madama Semplicina.
                                         Oibò, che dite?
perché son molto vergognoso anch’io.
                                      Già li ho provati.
Se in faccia non li avete mai mirati!
                                              Dite bene.
Si può toccar la man con pudicizia.
doppo aver visto Il mondo della luna.
a ricorrer da voi. Gli uomini arditi
                                          Signorsì.
                                               Dirò.
dar per marito a me quel ch’io vorrei.
                                          Sì signore.
                                               Non lo so,
perché in viso mirato mai non l’ho.
arrossisco, signor, se sto più qua.
                                          Oh cosa dite!
perch’io son alla fin de’ pazzi il re.
m’obligasse di farlo un suo comando.
col gel principia e termina col foco. (Madama Garbata con i servi dalla collina)
io vengo per goder spassi e solazzi.
                                  Signora no.
non ci ho pensato e non ci penso mai.
                                         Sia guerra o pace,
sia pioggia o sol, sia tristo tempo o buono,
Amanti o non amanti, non m’importa,
drizzatemi la scuffia che l’ho storta.
del gran regno de’ pazzi! In fede mia
il ristoro de’ pazzi è l’allegria.
Fan talora un festino e sul più bello
e si cambia in dispetti l’allegria.
d’amor, di gelosia, di rabbia pieno;
spende il denaro e poi mangia veleno.
Oh che pazzi, oh che pazzi! Io di costoro
che il cielo vi conservi in sanità.
                                           Evviva i matti.
perché la monarchia de’ pazzi è cara.
vi faccio adess’adesso cascar morto.
in cui del vostro bel tengo il tesoro,
vi faccio il sagrificio di quest’oro. (Gli dà alcune monete e lei le prende)
d’oro più bel ricchezze peregrine. (Getta l’oro e fugge via)
v’offerisco il mio sangue ed il mio core. (La segue)
Oh fortuna, oh fortuna, oh me beato!
Se si trova così per tutto l’oro,
che qualcun me lo veda. Andrò a riporlo
Quanto del mio tesor cresce il valore,
tanto mi sento in sen crescer il core. (Parte)
                                            Lo conoscete? (Gli mostra il nerbo)
                                             Al mio paese
questi nerbi gentili e sì ben fatti
si sogliono chiamar castigamatti. (Parte)
queste son le mie spade e i miei cannoni.
                                       Sì sì, venite,
d’esser venuta qui! Vuo’ tornar via.
Voi m’avete col guardo tramortita.
                                         Se non volete,
dunque me n’anderò. (Vuol partire)
                                          Ehi dove andate?
Cara, sono da voi. (Torna vicino a lei)
                                   Non mi toccate.
                                        Non mi guardate.
Che brio, che portamento! (Guardandosi in specchio)
                                                   Deh vi priego,
Lo splendor de’ miei rai supera il sole.
                                                Non vi abbado,
per sostener della beltà il decoro.
datemi un solo sguardo e son contento.
                                       Saranno incirca
Questo al merito mio non è un tesoro.
per la beltà che le mie guancie infiora.
Oh preziosa beltà che non ha prezzo!
Pazza voi, se pietade a me negate. (A Gloriosa)
della propria beltà concede i frutti.
Se l’offerisci a voi, l’accettareste?
Sì signor, sì signor; l’accettarei
sempre vi porterei scolpito in petto,
vi farei, occorrendo, anche un balletto.
alla bellezza mia sì fiero torto? (A Malgoverno)
                                           Tenete, o cara. (A Garbata)
Voi siete fra le belle la più bella.
che a chi chiede pietà pietà riserba.
d’esser bella chiamata in faccia mia.
e crede non si trovi altra bellezza.
Io non so se sia brutta o se sia bella.
e che l’oro fa belle anco le brutte.
spender per la beltà sospiri e pianti,
che se una ricusa, un’altra accetta.
d’amar un uom di mia bellezza indegno.
Se Giove non discende in pioggia d’oro
io non voglio nel mondo altro marito.
                                                       Il scrigno è andato.
Ah che sanno rubbare ancora i pazzi!
a levarti d’attorno il precipizio?
Il mio core, il mio core, ov’è il mio core?
non cercare il tuo cor, cerca il cervello.
ma prima di morir v’ammazzerò. (Impugna un coltello contro Arcifanfano)
moderategli un poco la pazzia. (I servi alzano i bastoni)
Questo è il degno piacer del pazzo avaro.
Oimè non posso più. Che fiamma è questa
Chi sei tu, chi sei tu? Gradasso o Orlando?
Io ti sfido a battaglia. Ecco il mio brando. (Leva il bastone a un pazzo)
                                   Fermate
o a tutti vi darò delle stoccate. (Bastona i pazzi e fugono. Vuol fuggir Arcifanfano e lo trattiene)
                                       Non mi conosci?
O damm’il mio denar, che m’hai rubbato,
                          Lo giuro.
                                             Non ti credo.
(Se potessi fuggir da questo imbroglio!)
Vanne... Resta... Va’ pur... Ferma, non voglio.
Dove sei? Dove sei? Ah m’è fugito!
Ah ch’io sono da tutti assassinato!
che smania! Che dolore! Io manco, io moro.
Morto è il mio cor, voglio morir anch’io. (Si leva una corda con cui è cinto)
Giacché niente più v’è che mi consola,
io mi voglio appiccare per la gola. (Attacca il laccio per appiccarsi)
                                               Eccolo.
                                                              Eh via. (Getta via il laccio)
Questa de’ pazzi è l’ultima pazzia.
                                       Perché il mio scrigno
Zitto, che il vostro scrigno io l’ho trovato.
                                    Ve lo darò,
che vuo’ che stiate meco allegramente;
e che lasciate andar la morte a spasso.
Il mio scrigno, il mio scrigno. Oh che contento!
Il mio core, il mio core. Oh me beato!
Presto, presto, allegria, presto allegria.
il chittarin. Io suono e voi sonate.
Io vi voglio cantare e voi cantate. (Toccano il chittarino e l’orchestra coi violini pizzicati l’accompagna)
                                      Non temete,
                                     Dunque sprezzate
Son un che fa terror a tutto il mondo
Come! Villano a me? Corpo del diavolo,
ch’io non vi getti con un pugno in aria.
Vi vorrei strittolar, ridurvi in polvere
«Non si sdegna il leon coll’agneletta».
Oh che pazzo egli è mai spropositato!
se goder non poss’io qualche contento
con quella pazzarella un sol momento?
se n’anderà quando sarà destata;
dunque è meglio lasciarla addormentata.
non puol dell’amor mio sentir pietà.
Dunque è meglio svegliarla; e che sarà?
svegliandola, chiamandola pian piano,
ch’io vi farò star tutti in allegria.
Le vostre istanze, o gente pazza, ho udite.
Quello ch’io vi rispondo, ora sentite.
fin che perde l’amor del suo denaro.
fin che il meschino è asciutto come l’esca.
                                           Mai, mai, mai.
E di me che sarà? Se uscir io deggio
quando amica sarò d’affanni e guai,
anch’io dico cogli altri: «Mai, mai, mai».
onde la libertade ora le dono. (I servi pazzi aprono la di lei gabbia ed ella esce giuliva)
non mi rubberan più l’argento e l’oro.
Ho nascosto, ho nascosto il mio tesoro. (Parte)
condannate in prigion, che avete fatto?
Sepellir il denaro? Oh che gran matto!
ma voi l’oro e l’argento ricusate.
che dite ch’io son bella fra le belle.
Splendete come il sol tra tante stelle.
Prendetelo, mia cara, io ve lo dono. (Le dà lo scrigno e parte)
perderò delle guancie il bel rossore. (Parte)
Che ho da far, che ho da far di quest’imbroglio?
L’ho donato una volta e più nol voglio.
che del dinar no me n’importa un fico.
si vede ch’è dinar mal acquistato.
come se io fossi un cavaliere errante. (Frattanto che si fa il ritornello dell’aria viene madama Semplicina)
L’oro delle fanciulle è il precipizio.
vuol che il suo re si unisca in matrimonio.
l’hanno ben ritrovata fuor del mazzo,
che una di loro sceglierò per me... (Parte una guardia e Arcifanfano va in soglio. Vengono le tre donne)
sia sempre e stia da voi lungi la barca
di Caronte che l’alme a Stigie varca.
dal vostro corpo il morbo oltramontano.
perché ho un po’ di rossore ed ho timore
Ho inteso, ho inteso e tu mia sposa sei.
e siete voi di mia bellezza indegno. (Parte)
La bellezza superba è un grande impegno.
Che già di voi no me n’importa un fico. (Parte)
Il ciel m’ha liberato da un intrico.
Per darvi confidenza scenderò. (Scende dal trono e va a sedere vicino a lei)
tutti, tutti quei patti ch’io farò.
                                          Or li dirò.
il nome alla cittade oggi si dia. (Vengono avanti sei pazzi cantando)
che il nome abia a compor chiaro e perfetto. (I servi pazzi danno a tutti una lettera dell’alfabetto ed una anche all’Arcifanfano)
il nome della nostra alma città. (Li va accomodando ma non si vede nome perfetto)
Eh lo farò ben io venir or ora. (Li dispone diversamente e unendosi lui agli altri si vede dalle lettere a formare queste due parole: «Il mondo»)

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